Flores d'Arcais, L'insostenibile distinzione di Habermas

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Jurgen Habermas
, Repetita iuvant: una risposta a Flores d'Arcais
 

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Paolo Flores d'Arcais
, L'insostenibile distinzione di Habermas

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“Ma davvero i vecchi intellettuali di sinistra possono vantarsi di contrastare con successo la spoliticizzazione di una sfera pubblica influenzata dalle televisioni di Berlusconi?
In ogni caso non dovrebbero negare alla Chiesa e alle comunità religiose il diritto d’intervenire con contributi sostanziali” nella sfera pubblica.
Il teorico della democrazia come solidarietà tra estranei ribadisce
la necessità di un ruolo pubblico delle religioni.

Il punto centrale della tesi di Habermas è la netta distinzione tra la sfera istituzionale – nella quale valgono solo argomenti laici – e la sfera del dibattito pubblico – nella quale invece le ‘comunità di interpretazione’ possono usare anche il proprio linguaggio di fede. Questa distinzione però non regge alla prova dei fatti, soprattutto in società dominate da uno spazio mediatico dilatato, che confonde i confini tra luogo del dibattito e luogo della decisione.

PAOLO FLORES D’ARCAIS

Sfera istituzionale e sfera pubblica


Il professor Habermas ripropone in forma condensata ed efficace il suo punto di vista, ma non mi sembra che risponda alle obiezioni che gli ho mosso.
Habermas distingue radicalmente sfera istituzionale e sfera pubblica. La sfera istituzionale dei «parlamenti, tribunali, ministeri, organi amministrativi» ma più in generale dei «processi istituzionali di consultazione e decisione», viene contrapposta alla sfera pubblica come luogo dell’«informale partecipazione dei cittadini al disegno delle opinioni» (poiché in precedenza ha stigmatizzato la «politica dei pulpiti» dell’epoca di Adenauer, quel «consultazione», che altri contesti sembrano limitare al solo dibattito parlamentare, potrebbe riferirsi anche alla campagna elettorale). Nella prima «per potersi candidare all’approvazione giuridica, tutte le norme devono essere formulate, e pubblicamente giustificate, con un linguaggio comprensibile a tutti». Il che esclude argomenti avanzati nel linguaggio di una particolare fede (o del sincretismo di tutte le fedi, qualora possibile).
Habermas sembra tassativo: nell’intero orizzonte istituzionale «cittadini [religiosi] e organizzazioni [religiose] devono sapere che il contenuto cognitivo dei loro contributi può giustificare decisioni politicamente vincolanti solo a patto di venire preventivamente tradotto», cioè rigorosamente privato di riferimenti alla fede e a Dio. Insomma, nel processo deliberativo della legge e in quello della sua applicazione l’argomento-Dio deve essere ostracizzato. Nella sfera pubblica, al contrario, che comprende tutti i luoghi della discussione informale (in primis la tv), i credenti hanno non solo il diritto di utilizzare il linguaggio di Dio e gli argomenti della fede, ma ciò facendo apportano alla democrazia una ricchezza irrinunciabile.
L’obiezione che ho rivolto ad Habermas è che il processo di decisione in una democrazia – tanto più se intesa alla Habermas, come democrazia deliberativa e non meramente procedurale – non consente tra i due ambiti questa separazione netta e normativamente rilevante. Su tale obiezione Habermas sorvola, ma con ciò non ne dimostra ancora l’infondatezza.
Mettiamo alla prova le due contrapposte convinzioni nel caso concreto di fedi religiose che nella sfera pubblica avanzino l’argomento-Dio in una delle forme oggi più ricorrenti, quello della sacralità della Vita in quanto religiosamente dedotta dalla «creaturalità» dell’uomo.
In concreto, in televisione, sui giornali, nei convegni, nelle università e nelle scuole, nelle chiese, sinagoghe e moschee, la convinzione dogmaticamente religiosa della «creaturalità» dell’uomo costituirebbe un argomento cruciale per sostenere la «sacralità della Vita» fin dall’istante della fecondazione dell’ovulo, e nella difesa non negoziabile della stessa nutrirebbe un pathos intransigente. Tale pathos vedrebbe in chiunque partecipi a un aborto (donna, medico, infermiere) l’esecutore di un omicidio, anzi del più odioso degli omicidi, l’infanticidio, anzi del più vile degli infanticidi, poiché il feto e l’embrione, quanto più lontani dalla nascita, pur essendo umani a tutti gli effetti, con la loro apparenza ancora informe, risparmiano all’omicida il rischio del senso di colpa.
E poiché gli aborti si contano per milioni, saremmo di fronte a un olocausto esponenziale. La donna, il medico, l’infermiere, sarebbero moralmente assimilabili alla SS che getta il bambino ebreo nel forno crematorio. Tutto ciò segue logicamente dall’assunto religioso ricordato (e nella sfera pubblica è stato infatti puntualmente agitato dagli ultimi due papi, in circostanze anche emotivamente cruciali: viaggio in Polonia, visita ad Auschwitz).
Ma successivamente, forse già in campagna elettorale, certamente nel dibattito parlamentare, tale argomento dovrebbe essere colpito da una messa al bando invalicabile, poiché nella sfera istituzionale Habermas (giustamente) ammette solo un logos rivolto alla razionalità comune (che esclude per principio le fedi non «tradotte»), e una argomentazione «comprensibile a tutti» non potrebbe addurre la «creaturalità». La «Vita» tornerebbe prosaicamente e laicamente vita e si segmenterebbe negli ambiti, anche se dai confini talvolta controversi, della vita-della-morula, vita-della-blastocisti, vita-dell’embrione, vita-del-feto, e di una vita umana il cui attributo, fino a gravidanza avanzata, è – in assenza dell’argomento-Dio – altamente problematico da sostenere (per usare un eufemismo).
Questa radicale separazione della vita politica in due sfere, governate da criteri opposti quanto all’ammissibilità degli argomenti, risulta perciò in primo luogo fattualmente impossibile. In ogni perorazione parlamentare favorevole a punire penalmente l’aborto, risuonerebbe comunque in filigrana l’eco dell’anatema religioso («sacralità della Vita»), che costituirebbe il contenuto evidente, anche se taciuto, dell’argomentazione, e con ciò verrebbero di fatto riunificate le due sfere.
Pretendere di tenerle radicalmente separate infligge oltretutto un vulnus non sanabile al principio della rappresentanza democratica. Si chiede infatti una vera e propria schizofrenia politico-argomentativa socialmente diffusa. Nelle discussioni fra cittadini, per scegliere i propri rappresentanti, si può fare uso di Dio, ma questi ultimi, nel legiferare in nome dei propri elettori, dovranno farne a meno, anche quando l’argomento-Dio non sia sostituibile con argomenti razionali altrettanto convincenti. La partecipazione del cittadino e del parlamentare al processo deliberativo avverrebbe così secondo modalità dia-logiche che si escludono, e l’impermeabilità argomentativa tra le due sfere renderebbe il primo non più rappresentabile nel secondo, dando ragione ai teorici conservatori della democrazia quale finzione procedurale per il mero ricambio delle élite.
Di più: se, con Habermas, si incoraggia nella sfera pubblica l’uso di argomenti religiosi anche non traducibili (come, per sua stessa ammissione, è la «creaturalità»), ciò influenzerà quel «franoso sedimento geologico» che è «la cultura politica liberale», i cui elementi «slittano continuamente, dal momento che essa è ricettiva agli impulsi della comunicazione pubblica». E precisamente nella direzione di legittimare progressivamente – per effetti cumulativi – il ricorso all’argomento-Dio in tutto il processo deliberativo, avendolo reso «ovvio» dapprima nell’orizzonte esistenziale. La ragionevolezza del divieto di esso in sede parlamentare diventerà via via più ostica e infine incomprensibile al senso comune, che avverte come si tratti sempre della stessa posta in gioco, ne discutano i parlamentari per deliberare la legge o ne abbiano discusso i cittadini per scegliere chi dovrà deliberare.
Come è possibile, infatti, rendere un argomento tabù non appena arrivi in parlamento o nei tribunali, una volta che sia stato legittimato nelle discussioni in tv, focolare catodico onnipervasivo (e meta-legittimante) che ormai con-forma quasi alla saturazione il mondo-della-vita contemporaneo? Incoraggiato nella sfera pubblica, colonizzerà quella istituzionale. Perché l’opinione pubblica nel senso di Habermas è proprio l’interfaccia tra società civile e istituzioni, tra interessi e norme, luogo in cui si modifica, intensifica o esaurisce, l’ethos democratico, «fondamento» ultimo e unico delle nostre libertà individuali e collettive.
Tanto più che, «da sinistra», l’ermeneutica postmoderna del politically correct, sgradita, credo, ad Habermas quanto a me, va proprio nella direzione di accogliere la validità di logoi incapaci di rivolgersi a tutti (in definitiva irrazionali), se rappresentativi di comunità tradizionali, in paradossale sinergia con le pretese clericali di ogni monoteismo: in Italia Rifondazione comunista (l’analogo della Linke tedesca, ma non su questo, spero) non ha votato una legge contro le mutilazioni sessuali delle bambine ritenendola troppo severa perché sorda alle radici tradizional-religiose di tali pratiche identitarie, mentre in Gran Bretagna l’arcivescovo di Canterbury, scismatico dal tempo dei Tudor, altro che Italia cattolica, chiede che la Common law incorpori elementi significativi della sharia in nome della stessa logica.

Primato della libertà o della fede?

Cosa è perciò in diritto di esigere la democrazia (tanto più nella versione deliberativa e non meramente procedurale di Habermas) dalle «comunità di interpretazione» religiose, perché non contribuiscano al franare per slittamenti progressivi della cultura liberale comune, fino al tracollo del tabù dell’argomento Dio in parlamento e nei tribunali?
Riprendiamo la questione della Vita, per il credente non negoziabile. Per evitare che il discorso della fede tracimi dalla sfera pubblica all’ambito istituzionale, le «comunità di interpretazione», oltre ad affermare che la Vita è sacra visto che Dio ne è autore e padrone, dovrebbero aggiungere che solo Dio giudicherà al compimento dei tempi e nel più alto dei cieli, mentre in terra – qui e ora – la legge umana dovrà consentire che il cittadino (tale è infatti anche il non credente) violi e sopprima ciò che non considera ancora, o non considera più, vita umana.
Alcune «comunità di interpretazione» lo fanno (i cristiani valdesi in Italia, molte confessioni protestanti in Germania e nel mondo, e perfino tanti cattolici in disobbedienza alla Chiesa gerarchica). Tengono cioè rigorosamente fermo che un peccato mortale non deve essere considerato un crimine dalla legge. Hanno votato perciò a favore della legge che consente il divorzio e l’aborto, e sono pronti a farlo per l’eutanasia.
Sono una minoranza, non a caso. La loro prassi, che la democrazia ha del resto il diritto/dovere di esigere (voglio che la legge permetta a te, non credente, di praticare ciò che la mia fede giudica colpa mortale) implica il primato della libertà altrui (anche contro la Vita!) rispetto ai valori morali della propria Verità, relativizzata nella convivenza sociale, benché vissuta personalmente come incrollabile.
Se si replicasse che è irrealistico chiedere alle religioni di promuovere un atteggiamento-per-la-convivenza in cui le ragioni comuni (non la «creaturalità», dunque) prevalgano sulla Verità non negoziabile della propria morale (la «Vita»), basterà osservare che altrettanto illusorio è allora che abbia effetto l’intimazione habermasiana che nel legislativo, esecutivo e giudiziario possa risuonare esclusivamente un logos laico o laicamente tradotto (il che è lo stesso).
Suona infatti ironica – ma non rispetto al provincialismo periferico dell’Italia monoconfessionale, bensì al pluriconfessionalismo estremo degli Stati Uniti – l’osservazione di Habermas secondo cui «dopo tutto, per buone ragioni, non si è mai visto un presidente europeo in pubblica preghiera». In America, cuore e impero dell’Occidente democratico, è vero l’opposto, non si vede da decenni un presidente – e neppure un candidato – che non si sia fatto immortalare in un luogo di culto, e non abbia fatto riferimento a Dio nel suo agire istituzionale. Le nomine di Bush jr. alla Corte suprema, anzi, sono state spudoratamente guidate dal criterio religioso fondamentalista, in adempimento a un patto scellerato stipulato in campagna elettorale, coram populo, con le potentissime «comunità di interpretazione» della destra evangelica. E i giudici della Corte suprema sono la «comunità di interpretazione» istituzionale che, con le sue sentenze, ha rovesciato e può rovesciare l’orizzonte costituzionale americano.
Insomma, qui non si tratta di sapere se le comunità religiose siano inclini a far sì che Dio (comunque declinato e travestito) resti un tabù nell’argomentazione politica, ma se, in un quadro democratico, e tanto più di una democrazia deliberativa alla Habermas, un tale comportamento sia dovuto. Sembrerebbe di sì, visto che Habermas sottolinea come, anche «quando si rivolgono [solo] ai propri fedeli, le Chiese devono parlare loro come membri religiosamente orientati della comunità politica, senza esercitare nessun ricatto di coscienza». Ma rinunciare al «ricatto di coscienza» significa che preti e pastori, rabbini e mullah, non possono minacciare pene neppure spirituali per ottenere obbedienza dal gregge, e – a fortiori – meno che mai pretendere di imporla per legge anche ai non credenti (in tal caso saremmo ben oltre il ricatto di coscienza, saremmo al ben più temibile ricatto del braccio secolare).
Sembrerebbe anzi tassativamente di sì, visto che Habermas aggiunge che le comunità religiose «non possono far pesare la loro autorità spirituale al posto di quel tipo di ragioni che sono in grado di riscuotere risonanza generale», e pensa dunque di liquidare tutte le mie critiche alle sue presunte debolezze verso l’integralismo religioso con un: «è pregiudizialmente esclusa qualsiasi interpretazione della separazione Stato-Chiesa che induca a tollerare fattispecie» quali «discriminazione degli omosessuali, pratiche di mutilazione clitoridea, violenze domestiche, matrimoni forzati, poligamia, rifiuto di soccorso sanitario». «Entrambi infatti», ha esordito Habermas, «partiamo dal postulato che lo Stato democratico di diritto tuteli diritti eguali per tutti».
Entrambi chi? Habermas e io certamente. Ma Dio? Non tutte le religioni, non tutte le «comunità di interpretazione» realmente esistenti. E proprio questa è la pietra d’inciampo. Quando si afferma che le Chiese e le fedi hanno il diritto qua religioni di partecipare alla vita pubblica, anche con argomenti non tradotti e non traducibili, nasce la domanda (o almeno dovrebbe): i contributi di queste comunità sono sempre, di fatto, compatibili con i valori democratici?
È da escludere. Molti non lo sono. Del resto se costituissero sempre e solo quella ricchezza solidaristica che nella democrazia, in balia a una deriva cinico-edonistica, ormai latita, il problema non sarebbe mai sorto. Se c’è, è perché nella monoconfessionale Italia un immigrato regolare e «integrato» pretende che i carabinieri gli riportino a casa con la forza la moglie, e nella pluriconfessionale Germania esige il ricongiungimento familiare per una seconda moglie (richiesta accolta da un tribunale, se i giornali italiani non hanno manipolato la notizia), e nelle moschee si chiede di più e di peggio, mentre un papa tedesco cerca di tornare alle sanzioni penali per l’aborto – in Italia come in Spagna, in Polonia come in Irlanda, e ovunque ritenga favorevoli i rapporti di forza – e per la pillola del giorno dopo e per la RU846 e per la selezione degli embrioni sani nella fecondazione artificiale, e non parliamo del diritto elementare di ciascuno sulla propria vita (vulgo eutanasia).

Ambivalenza delle religioni e cultura politica liberale

Habermas sostiene che «su ambiti vulnerabili della convivenza sociale, le tradizioni religiose hanno la forza di articolare intuizioni morali in maniera linguisticamente convincente», cioè con una forza di persuasione emotiva che il freddo specialismo medico-scientifico-sociologico del welfare laico non ha più o non ha mai avuto. In qualche caso potrebbe avere ragione. Ma come la mettiamo con le intuizioni «moralmente sbagliate»? Con le donne che abortiscono parificate alle SS? O – meno ripugnanti ma non meno «sbagliate» – con l’omosessualità «disordine grave» e sostanzialmente malattia, con le ragazze islamiche da immunizzare contro la libertà sessuale a forza di ostracismo sociale o peggio, con i figli dei testimoni di Geova a cui va rifiutata la trasfusione, e con l’intero vaso di Pandora delle pretese che le religioni realmente esistenti effettivamente avanzano (e moltiplicano)?
Il problema nasce, insomma, quando le comunità religiose avanzano «intuizioni morali» incompatibili con le libertà costituzionali dell’individuo, quando cercano di imporle ai propri fedeli col ricatto morale e quando pretendono che ad esse si pieghino anche i non credenti, imponendo sanzioni giudiziarie e terrene, oltre a quelle spirituali e celesti cui sono insensibili. Se non si desse questa costellazione di atteggiamenti, che spesso caratterizza le fedi realmente esistenti, avremmo a che fare solo con le Chiese e i credenti che piacciono tanto a Habermas che a me (probabilmente gli stessi) e che ho esemplificato, per par condicio nazional-religiosa, nel protestante tedesco Bonhoeffer e nei cattolici italiani «preti di strada».
Ma così non è. Le comunità religiose più o meno eccezionalmente riescono a scindere in sé e nei propri fedeli il credente dal cittadino, e dunque a radicare nella sfera istituzionale il tabù dell’argomento-Dio. Più spesso considerano la Verità della propria morale una ragione più che sufficiente per chiederne la conversione in legge dello Stato, tanto più che Habermas li ha autorizzati ad agitarla come argomento legittimo nella sfera pubblica (tv eccetera). Se non lo facessero, del resto, avrebbero rinunciato agli argomenti-Dio, e limitandosi ad argomenti di ragione comune o in essa traducibile, il problema, di nuovo, non sarebbe mai sorto.
Non si tratta perciò di «preferire una sfera pubblica liberale» (nel senso di Habermas: che ammette verità di fede, non tradotte) ai miei eccessi secolaristici (che tali argomenti rifiutano), perché «chi non vuole, o non sa, scindere le sue convinzioni morali e il suo vocabolario nelle loro componenti sacre e profane, deve poter partecipare lo stesso alla formazione politica dell’opinione anche con un linguaggio religioso». Habermas, infatti, parlando di «chi non vuole, o non sa» trascura i casi – cruciali – in cui sia impossibile scindere le due componenti senza che venga meno la sostanza dell’argomento: la «creaturalità» nella discussione su aborto ed eutanasia, ad esempio.
Al contrario di quanto mi attribuisce Habermas, non ho nulla contro la traduzione di valori dal linguaggio religioso a quello secolare. Bisogna però avere chiaro che il linguaggio religioso non è mai univoco, e dunque univoca non sarà neppure la traduzione. L’arsenale religioso offre infinite suggestioni per l’eguaglianza e la giustizia, ma è altrettanto inesauribile, e forse più, anche nella direzione opposta. Le Chiese d’America risuonano di omiletica antirazzista esattamente come di volontà divina per la supremazia bianca. Dai testi sacri si potrà provare a «tradurre» per condannare la tortura, secondo l’esempio di Habermas, ma ce n’è a iosa per giustificarla, e giustificare le guerre sante e i roghi per dissidenti. Oggi, del resto, proprio l’argomento-Dio della «creaturalità» fa la quasi unanimità di preti, rabbini e mullah per imporre al malato terminale la tortura fino all’ultimo istante.
Sarebbe davvero un’ingenuità, che non mi sogno neppure di attribuire a Habermas, nascondersi l’ambivalenza strutturale delle tradizioni religiose. Delle quali sono interpretazioni legittime sia san Francesco che Torquemada, sono traduzioni legittime la «socialista» guerra dei contadini e la reazionaria sollevazione vandeana, o più modestamente i valori reazionari del cattolico bavarese Strauss e quelli progressisti del teologo Hans Küng. Il relativismo delle interpretazioni, e delle etiche che ne discendono, è il cuore di ogni messaggio religioso, che altrimenti si esaurirebbe rapidamente sul piano storico.
E allora si torna sempre al punto: le «comunità di interpretazione» sono una risorsa per la democrazia se vanno in una direzione, e una minaccia se vanno nell’altra. Si consentiranno solo le voci in consonanza con l’ethos repubblicano? In tal caso sono traducibili per principio, e per principio non costituiscono problema. Ma chi deciderà quando un argomento-Dio non traducibile, anziché arricchire di solidarietà un repubblicanesimo inaridito, mette a repentaglio la cultura liberale in ciò che ha di essenziale e irrinunciabile? Il parlamento, il governo, i tribunali?
Perché può sembrare facile sottrarsi alla difficoltà invocando come criterio dirimente la censura per l’argomento-Dio solo se e quando istighi a violare la legge (istighi alla jihad e al martirio terrorista, ad esempio, ma anche a «discriminazione degli omosessuali, pratiche di mutilazione clitoridea, violenze domestiche, matrimoni forzati, poligamia, rifiuto di soccorso sanitario»). Ad essere coerenti, però, questo significa mettere a tacere nella sfera pubblica chiunque voglia sovvertire le leggi attuali. Non solo il testimone di Geova, anche il cattolico che vilipende come omicida chi abortisce. Ma se è legittimo argomentare in nome della «creaturalità» su eutanasia e aborto, perché non sulla gerarchia familiare e la poligamia in nome delle visioni del Profeta, argomento egualmente intraducibile? Il Dio di Gesù è più Dio dell’Allah di Maometto?
Insomma, se sarà lecito solo ciò che nelle religioni è comune con i valori del repubblicanesimo costituzionale, si dovrà discriminare tra Chiese, generando conflitto e incertezze: sciogliere le «comunità di interpretazione» che non interiorizzano i valori costituzionali? E dopo quante violazioni? E stabilite da chi, visto che non si tratta solo di impedire l’istigazione a reati, ma anche di bloccare ogni predicazione che, attraverso la semantica dell’ambiguità, particolarmente efficace nella suggestione dei riferimenti religiosi, indebolisce la lealtà costituzionale e dunque quella «cultura politica» che, secondo Habermas, è in diritto di «stabilire i parametri delle discussioni pubbliche»?
Oltretutto, sappiamo già come la «cultura politica liberale», che fissa «i parametri delle discussioni pubbliche», «slitti continuamente» poiché «ricettiva agli impulsi della comunicazione pubblica». Consentire che venga gonfiata con gli ormoni degli argomenti-Dio intraducibili, significa incoraggiare che tali argomenti, irrazionali per definizione (altrimenti sarebbero accessibili a tutti, non solo ai fedeli), facciano sinergia con le altre modalità di persuasione sottratte al vincolo del dovere argomentativo razionale, che imperano nel cuore della sfera pubblica, la televisione: spot pubblicitari e «format» di intrattenimento. Benché l’osservazione possa suonare irriverente, lo spot, che travolge gli argini delle difese immunitarie critico-razionali, ha in comune col richiamo a Dio non traducibile la seduttività pre-razionale o irrazionale, ed entrambi contribuiscono a far franare come obsoleta l’idea di un dovere dei cittadini al rigore logico-argomentativo quale chiave di volta irrinunciabile della convivenza democratica. Le filosofie del «tutto è interpretazione» ci aggiungono la loro spezia di legittimazione «alta».
Insomma, direi che non se ne esce: nella democrazia egualitaria e partecipata, la sfera pubblica (tv in primis), con tutte le motivazioni in essa ammissibili, deve costituire il serbatoio di un ethos democratico senza il quale la democrazia liberale, devitalizzata a procedura per il ricambio oligarchico, rischia di soccombere alla prima crisi. Ma la religione in quanto religione, in quanto argomento-Dio intraducibile, può contribuire a questo ethos come può anche minarlo, in forza del carattere strutturalmente ambivalente del suo discorso. Mentre il doppio registro habermasiano, fra comportamenti ammissibili nella sfera pubblica e in quella istituzionale, funziona solo presupponendo ciò che non è: che le comunità religiose, nell’arricchire la con-vivenza con un pathos orientato alla solidarietà che il mondo laico avrebbe perduto, non indeboliscano mai l’ethos democratico.
Era la mia seconda obiezione, che Habermas non prende in considerazione, ma che non per questo risulta confutata.

Una sfera pubblica non deformata

Questa rimozione sembra generata dal pessimismo radicale di Habermas, che vive come antropologicamente irreversibile la deriva edonistico-egoistico-massificante dell’attuale liberismo, e in essa definitivo il congelamento dei movimenti progressisti, al punto da innalzare a principio ontologico il deficit di risorse solidaristiche endogene nella democrazia secolarizzata.
Perché mai, però «nei casi difficili – per esempio, nella discussione fin troppo emotiva sull’applicabilità della tortura in fatti di terrorismo» dovrebbero essere «solo queste immagini religiose a recuperare sentimenti morali di giustizia (persino agli occhi di chi non è credente) sottraendoli alle macerie dei pregiudizi politici»? In questa affermazione gioca semmai un pregiudizio di Habermas, francamente sorprendente: l’idea implicita (ma necessaria alla sensatezza della frase) che l’ateo e l’agnostico non possano avere altre motivazioni oltre il nudo interesse utilitaristico, ragion di Stato compresa. A parte il fatto che già il freddo legalismo laico del culto per le procedure potrebbe bastare per opporsi «senza se e senza ma» alla tortura, perché mai non dovrebbe esistere un senso della giustizia, e anzi una pietas, una carità, un amore per il prossimo, una solidarietà per gli ultimi, anche di origine non religiosa e non trascendente? I vari «médecins sans frontières» e altre organizzazioni umanitarie, che premiano il sacrificio e non certo «il successo individuale», sono maturate in ambito perfettamente laico e perfino ateo.
Tanto più che Habermas mette in relazione questo deserto di passioni egualitar-solidaristiche laiche con il tramonto storico del movimento operaio. Dunque, è in linea di principio possibile, anche senza religione, un ethos e un pathos orientati al sostegno verso sfruttati e derelitti. Senza e anche contro la religione, visto che l’agape della fratellanza rivoluzionaria e delle lotte per la comune emancipazione si è spesso dovuta colorare di anticlericalismo e di ateismo.
Ma la disponibilità al prossimo e al sacrificio personale, il «calore umano» di cui le democrazie hanno più che mai bisogno per radicarsi anziché declinare, di per sé non garantisce analoga propensione ai diritti eguali per tutti. Può purtroppo coniugarsi con la negazione delle libertà più elementari. Questo è stato il tragico e ripetuto insegnamento delle rivoluzioni «in nome del proletariato», questa è oggi la realtà quotidiana delle «comunità di lotta» fondamentaliste, che dalla striscia di Gaza a intere regioni del Pakistan (senza dimenticare l’Afghanistan talibano e il perdurare komeinista dell’Iran) devono il loro successo a uno spirito di solidarietà e di sacrificio per il prossimo che si impasta perfettamente con l’onnipervasiva negazione oscurantista delle libertà civili di questo stesso «prossimo» (e con l’odio per il «nemico» fino al terrorismo).
Un duplice errore, perciò, smentisce l’affermazione habermasiana che «nella vita religiosa delle comunità si ritrova ancora intatto ciò che è andato altrove perduto». La capacità solidaristica di far fronte al «fallimento dei progetti esistenziali» e alla «lacerazione dei contesti di vita», non costituisce il privilegio «intatto», ma semmai spurio, delle tradizioni religiose. In ambito cristiano la carità fraterna dalla parte degli ultimi convive tranquillamente con l’autoritarismo gerarchico dell’Opus Dei e con il pentacostalismo dell’«arricchitevi!», assai più affini al turbocapitalismo che agli anatemi del Vangelo contro i ricchi. E non si vede perché tra i cittadini non credenti il sentimento della solidarietà venga dato per introvabile.
La deriva cinico-edonistica delle democrazie occidentali, in balia di egoismo e conformismo dagli andamenti ormai esponenziali, è certamente un fatto. La costante generazione endogena di orientamento ai valori egualitari e solidaristici è dunque il problema – essenziale e improcrastinabile – delle nostre democrazie, se non si vuole che il turbocapitalismo segni l’inizio della loro estinzione. Fin qui, l’accordo con Habermas è pieno. Ma non si vede perché la laicità (neppure nella sua forma estrema di ateismo), debba fare corpo – quale motore e causa di tale deriva – col liberismo selvaggio dell’attuale globalizzazione. In fondo, Reagan era un credente, come Bush senior, e Bush junior parla direttamente con Gesù, tre presidenti paladini dei Chicago boys.
Gli anticorpi per Habermas devono consistere in «una sfera pubblica non deformata» e in «una tradizione culturale non prosciugata scientisticamente». Fermiamoci alla prima. Condivido toto corde. Per essere «non deformata» si esige in essa simmetria comunicativa fra i cittadini, cioè un eguale e reciproco essere ascoltati, e non un mero e ipotetico diritto a parlare (una beffa, se relegato in Hyde Park Corner e simili formalismi apologetici). Approssimare questo ideale per il possibile, anche nell’epoca dominata dalla televisione e dai motori di ricerca, resta perciò un imperativo democratico ineludibile. Il che implica un movimento per la riforma dei sistemi televisivi anche laddove il «pensiero unico» non abbia raggiunto i fasti della Russia di Putin e dell’Italia di Berlusconi. Realizzando un vero e proprio caleidoscopio di pluralismo informativo, fondato però sulla comune lealtà verso quelle che Hannah Arendt chiamava le «modeste verità di fatto». Lealtà declinante non solo quando si spacciano come notizia i desiderata del Pentagono sulle «armi di distruzioni di massa», ma anche quando si vendano come opinioni, egualmente legittime per caratura fattuale, la più corroborata delle teorie scientifiche – l’evoluzione delle specie secondo «caso più necessità» – e la più recente delle fantasie metafisiche, l’«Intelligent Design».
Ma prima ancora, abbiamo visto, l’eguale e reciproco «essere ascoltati» della sfera pubblica poggia, già solo per la sua mera possibilità, sul presupposto che chiunque parli si rivolga a tutti, che è esattamente quanto non può avvenire per un argomento religioso non traducibile.
Perciò, senza pregiudizi sullo strutturale egoismo antropologico dell’homo saecularis e sulla vocazione caritatevole dell’homo religiosus, il problema del deficit di motivazione-per-la-solidarietà nelle società democratiche del turbocapitalismo, nella sua completezza suona così: come promuovere, incentivare, radicare risorse motivazionali civico-solidaristiche, che siano però univoche nel fondare e alimentare l’ethos democratico, e non possano mai convertirsi in fattore di negazione delle libertà del «dissidente»?
Se «i caratteri di questa cultura [democratica] dipendono dal precario equilibrio che si instaura tra la forza vitale delle tradizioni e la loro disponibilità a una incessante revisione», abbiamo visto che un contributo del genere potrà venire da sensibilità religiose solo se capaci di interiorizzare il primato delle libertà altrui sulla propria Verità morale, fino a violarla se non viola analoga libertà (il che nell’eutanasia non si dà per principio, e nell’aborto solo con acrobazie antiscientifiche). E mentre resta inammissibile pregiudizio escludere la capacità adattativa delle tradizioni illuministico-egualitarie agnostiche e atee, l’attenzione andrebbe comunque focalizzata sulla «forza vitale» endogena che una prassi quotidiana coerentemente democratica può sviluppare nel mantenimento e rafforzamento dell’ethos civico-solidale, dando luogo a una spirale virtuosa, di contro al suo progressivo indebolimento nella routine istituzionale e mediatica degli establishment, che nell’esercizio del potere quotidiano calpestano e avviliscono i princìpi solennemente ricamati nelle Costituzioni.

Turbocapitalismo e impegno laico-progressista

Habermas ha ragione da vendere, naturalmente, quando rileva che «i vecchi intellettuali di sinistra» non «possono vantarsi di contrastare con successo la spoliticizzazione di una sfera pubblica influenzata dalle televisioni di Berlusconi», ma non certo per eccesso di laicismo. Empiricamente è vero l’opposto, le lotte di massa che in Italia vedono da anni contestare il crescente strapotere di Berlusconi (e la subalternità delle sinistre ufficiali) molto spesso si caratterizzano anche per una radicalità laica, bollata da tali sinistre come «laicismo sclerotizzato» e simili, dall’accento perfettamente habermasiano.
Perciò, se il problema è l’apatia che in molti paesi occidentali sembra colpire oggi fino al «congelamento» l’impegno laico-progressista, la soluzione ragionevole è promuoverne il disgelo, individuandone le condizioni culturali, sociali, politiche e organizzative, e impegnandosi per la loro «implementazione», invece di celebrare l’escamotage surrogatorio di un supplemento d’anima che venga dalle religioni. Una volta che il movimento progressista «disgeli» e riparta, l’azione comune con il progressismo credente si realizzerà da sé, come sempre avvenuto, contro le «comunità di fede» a interpretazione conservatrice o reazionaria.
Ricorrere al soccorso religioso come deus ex machina vuol dire rassegnarsi al declino inarrestabile della produzione endogena di valori di eguaglianza e motivazioni di solidarietà, oggi effettivamente latitanti nell’Occidente dell’apologia liberista, del conformismo opulento, della «società dei vincenti». Ma la radice di tali deficit non è l’eccesso di attivismo antireligioso (tre o quattro bestseller!) a cui Habermas imputa di voler secolarizzare, oltre alle istituzioni, anche le coscienze e la società tutta, bensì il processo reale di sottrazione di sovranità ai cittadini, cioè di libertà/potere promesso dalle democrazie in quote eguali, al di là delle diverse condizioni economico-sociali. Promessa non solo mai mantenuta, ma oggi sempre meno approssimata e anzi sempre più vistosamente tradita. E non in forza di una dislocazione sopranazionale dei poteri dovuta alla globalizzazione (anche questo), ma già per lo svuotamento crescente della rappresentanza, sequestrata monopolisticamente da partiti-macchina sempre più autoreferenziali. Una vera e propria gilda, quella dei politici di professione, scrivevo già un quarto di secolo fa, che esclude i cittadini da ogni autentico agire politico.
Questa espropriazione di libertà/potere effettivi, innesca il circolo vizioso demotivante: frustrazione della partecipazione politica, rifugio negli egoismi privati e depressione delle virtù repubblicane orientate alla solidarietà, accresciuto potere della «gilda», ulteriore frustrazione della passione politica civico-partecipativa. Circolo tanto più devastante, in quanto un ethos repubblicano diffuso è l’unico «fondamento» della democrazia, forma politica costretta a sostenersi nel vuoto per il proprio codino (o era il bavero?) come il barone di Münchausen, visto che nasce distruggendo ogni fondamento trascendente ed eteronomo.
Ma la motivazione alla solidarietà si attiva o riattiva in primo luogo nella pratica della democrazia, non nello spurio e ambivalente soccorso religioso. Sotto questo profilo, una trasformazione della tv è molto più importante di una trasformazione delle religioni, e a occhio e croce dovrebbe essere meno ardua, e così una educazione critica fin dall’infanzia (esperimenti pedagogici mostrano che i piccolissimi capiscono il darwinismo più «spontaneamente» che la favolistica religiosa), in una scuola che per la stessa promiscuità di provenienze razziali e religiose relativizza il senso onnipervasivo della fede ricevuta in famiglia. E così tutte le altre azioni illuministico-solidaristiche e riforme politiche e di costume che l’impegno progressista può inventare e realizzare.
Non è la laicità a far inaridire l’altruismo, ma il liberismo selvaggio. Laicità e liberismo selvaggio non si sovrappongono. E neppure individuo libertario e individualismo egoistico. Anzi, il massimo di individualità, cioè di libertà/potere per l’individuo in quanto irripetibile, può coniugarsi (e perfino deve) con il massimo di solidarietà, di agire-con, come sapevano perfettamente Hannah Arendt e Albert Camus, che coniò addirittura l’espressione solitaire-solidaire, per tale programma esistenziale e politico.
Ho preferito rispondere in modo dettagliato ai rilievi che Habermas mi muove, anche a rischio di essere noioso e farraginoso, perché Habermas è da molto tempo il più importante filosofo continentale, influente ormai anche in zone rilevanti del pensiero politico americano, e oggi le sue tesi sui rapporti tra religione e democrazia stanno diventando una koiné utilizzata da Chiese e teologie assai conservatrici (fino a Ratzinger), alla ricerca di una «reconquista» del mondo postmoderno.
Rispondo perciò anche ad alcuni rilievi «minori».

Estremismo secolaristico?

Scrive Habermas: «Può il pensiero post-metafisico escludere l’ipotesi che le tradizioni religiose includano in sé potenziali semantici capaci di ispirare l’intera società, una volta che se ne siano esplicitati i contenuti profani di verità? A partire da Kierkegaard, per arrivare fino a Benjamin, Levinas e Derrida, ci sono sempre stati “scrittori religiosi” che – a prescindere dalle loro personali credenze – hanno saputo trasferire contenuti teologici dentro il pensiero secolare». Intanto non risulta che Kierkegaard, Benjamin, Levinas e Derrida, siano mai riusciti a «ispirare l’intera società» (corsivo di Habermas). Ma in secondo luogo, è del tutto arbitrario definire «contenuti profani di verità» (corsivo mio) la loro elaborazione ispirata ai «potenziali semantici» delle «tradizioni religiose». Quello che tali filosofie, e molte altre, riescono semmai a produrre, sono proposte di senso, per taluni affascinanti ma per altri assolutamente discutibili, fino all’insensatezza o addirittura al disvalore. In nessun modo, comunque, tali proposte filosofiche costituiscono di per sé un argomento razionale nel dia-logos deliberativo dei cittadini e/o dei loro rappresentanti, in-vista-della-legge. E lasciano dunque, a maggior ragione, ancora infondate le pretese che un contenuto teologico in quanto teologico possa entrare nell’orizzonte di tale dia-logos, che per essere inclusivo deve poter rivolgersi in linea di principio a tutti.
Habermas si preoccupa, opportunamente, non solo del lato giuridico-politico dell’eguale dignità di tutti, ma anche degli atteggiamenti psicologici che possono attentarvi. E dunque, «la solidarietà civica pretende che, nella società civile e nella sfera pubblica politica, gli agnostici non riguardino “dall’alto in basso” i concittadini religiosi, assumendoli come esemplari di una specie protetta». Eppure, preti, pastori e rabbini, anche assai «liberal» e progressisti (non parliamo di imam e mullah), raramente mancano di considerare l’ateo una persona «in ricerca di…», che «ancora non ha trovato…» e insomma rispettabile ma mutilato di qualcosa di essenziale a una compiuta umanità. Habermas stigmatizzerà anche questo atteggiamento come un «guardare dall’alto in basso»? Ma come potrebbe non sentire in questo modo chi davvero crede che solo Dio sia la salvezza? E come potrebbe non considerare la fede religiosa una forma di consolazione irrazionale, chi è invece convinto che l’ateismo sia l’ineludibile approdo di uno sguardo non dogmatico sulla realtà, che fa criticamente tesoro dei risultati delle scienze e delle inaggirabili contraddizioni della teodicea?
Nell’uno e nell’altro caso, però, non ne discende un automatico «guardare dall’alto in basso». Il credente mi guarderà, con carità, come essere incompleto, e io guarderò a lui, con solidarietà, come ancora irretito in superstizioni, perché questo è quello che riteniamo l’uno delle convinzioni «ultime» dell’altro, a meno di essere ipocriti. Ma nel nostro rapportarci politico, e anche umano, potrà scorrere autentico rispetto reciproco, e anche di più, come sperimentiamo quotidianamente.
Che un «secolarismo particolarmente battagliero» che finisce per «scambiare il secolarismo della Costituzione con la pretesa di secolarizzare la società», nel senso di «screditare le dottrine di fede in quanto scientificamente infondate», nasca «non certo a caso, nei paesi europei a monocultura cattolica», è da parte di Habermas una vera e propria svista, dal momento che gli episodi a cui palesemente si riferisce sono alcuni successi editoriali (Dawkins, Hitchens, Harris, Dennett eccetera) tutti di ambiente anglosassone, e spesso americano, agli antipodi, dunque, della monocultura cattolica!
E comunque non si capisce perché il tentativo di «screditare le dottrine di fede in quanto scientificamente infondate» non debba appartenere al normale esercizio della critica delle opinioni – come ha fatto Habermas con me e io ancor prima nei suoi confronti – anche quando tali opinioni esprimono venerabili «visioni del mondo». Altrimenti dovremmo prendercela col «secolarismo particolarmente battagliero» di Feuerbach, e del Freud di L’avvenire di un’illusione, e del Monod di Il caso e la necessità, e di chissà quanti altri classici. E finiremmo per mettere in discussione, per non offendere i credenti dell’una o dell’altra fede, il diritto di scrivere Versetti satanici, o di disegnare irriverenti vignette satiriche, o di girare film come quelli di Buñuel e di tanti altri.
Habermas conclude perentoriamente: «Le persone secolari e non credenti hanno un atteggiamento agnostico verso le pretese religiose, laddove le persone secolaristiche hanno un atteggiamento polemico verso l’influenza pubblica delle dottrine religiose». Il primo sarebbe accettabile, il secondo censurabile. E perché mai? I non credenti, senza distinzioni, hanno tutto il diritto di essere sia positivamente atei (piano teoretico) che ateisticamente polemici (piano pratico) nei confronti delle religioni, di considerare cioè argomentabile sul piano razionale tanto la non esistenza di Dio e dell’anima immortale quanto il dovere repubblicano di escludere Dio dal dibattito politico. Che quest’ultimo sia anzi l’atteggiamento più coerente con la democrazia (soprattutto se, alla Habermas, non meramente procedurale) è quanto ho provato a dimostrare nelle «tesi» (1) e in questa replica, pronto a ricredermi solo di fronte a convincenti argomenti puntuali in contrario. Che l’agnosticismo, cioè l’impossibilità di dimostrare razionalmente tanto l’esistenza di Dio che il suo contrario, sia filosoficamente sostenibile ma l’ateismo no, è poi leggenda che viene ripetuta come una giaculatoria, ma altamente discutibile e discussa (2).
Dawkins e Dennett, per farlo, hanno scelto la via di un naturalismo che Habermas ama qualificare hard. Non possiamo qui discutere tutte le loro argomentazioni, quasi sempre convincenti (per me) nel lato critico e destruens. Dove trovo invece che gli autori di questa linea argomentativa sbaglino è quando (non tutti) immaginano di poter spiegare naturalisticamente l’affermarsi e l’evolvere dei contenuti morali e religiosi. Non posso approfondire qui questa critica, ma rilevo en passant l’appartenenza di queste pretese all’orizzonte del cognitivismo etico (che Habermas – in diversa versione – difende, e io invece rifiuto).

Quale fede?

L’atteggiamento del non credente democratico dovrà semmai essere diverso a seconda del tipo di fede proclamato dal credente.
Di fronte alla fede in quanto fede, consapevole del suo collidere con il sapere accertabile, quella di cui già Paolo parlava come follia (il termine ricorre cinque volte in pochi versetti, martellante: 1 Corinzi, 1,17-25), l’ateo può essere perfino solidale, anziché freddamente agnostico: è la tua salvezza, dipende dall’uso mondano che ne fai, se prendendo sul serio il Vangelo, e dunque dalla parte degli ultimi, siamo impegnati mondanamente già insieme. Solo i valori della lotta comune interessano infatti a chi pensa che tutto si giochi nel finito dell’esistenza.
Quando invece la fede pretende di essere anche ragione, di essere cioè verità conoscibile (almeno per la dottrina di Dio e dell’anima immortale), come nell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II e in più recenti interventi di papa Ratzinger (coestensore del resto dell’enciclica), e di non poter comunque mai, per principio, entrare in conflitto con i risultati di un uso retto della ragione, il pensiero laico ha tutto il diritto, e in quanto pensiero critico oserei dire il dovere, di contestare l’abnorme ambizione, mostrando l’inesauribile panoplia di contraddizioni insanabili in cui tale pretesa si avvita.
Cosa diversa, ovviamente, è la possibilità di «estrarre» un nucleo razionale dalle fedi, risultato plausibile solo post-factum, quando la ragione ha realizzato operazioni di ermeneutica inventiva, già con i tragici greci e Platone rispetto al politeismo mitico dell’epoca, ma soprattutto dopo che si è conquistata la definitiva autonomia, in conflitto anche a morte con gli ermeneuti autorizzati delle religioni – preti e teologi.
E non è fattualmente vero neppure quanto Habermas dà per scontato, che siano le «Chiese» tradizionali a rappresentare «le eredi naturali di quelle quattro o cinque religioni mondiali che, a partire dall’età assiale, non cessano di plasmare i modelli culturali delle grandi civilizzazioni». Come rileva Olivier Roy in uno degli studi più aggiornati sull’argomento, l’attuale «revival» religioso non riguarda le «Chiese» tradizionali, neppure in ambito musulmano, bensì proprio «forme di religiosità più fondamentaliste e carismatiche (evangelismo, pentecostalismo, salafismo, tabligh, neosufismo)» che compensano il declino «delle forme tradizionali del religioso (cattolicesimo, hanafismo musulmano, denominazioni protestanti classiche come l’anglicanesimo e il metodismo)» e che sono tutti «movimenti relativamente recenti. Il salafismo risale al wahhabismo che fu fondato alla fine del XVIII secolo. Gli evangelismi si collocano nella tradizione dei “risvegli” protestanti comparsi nel XVII, e il pentecostalismo data all’inizio del XX. Anche le forme di buddismo e induismo che “convertono” e si esportano, sono riformulazioni recenti, dalla fine del XIX a quella del XX secolo (Soka Gakkai, Falung Gong, Hare-Krishna, ma anche l’induismo politico del Bjp indiano o il buddismo theravada dello Sri Lanka)» per non parlare «dei mormoni e dei testimoni di Geova, che risalgono anch’essi al XIX secolo e che alla fine del XX hanno conosciuto una forte crescita in tutto il mondo».
È con l’influenza di queste forme di fede, vera e propria «mutazione» attraverso «correnti che in Francia vengono definite “sette”, negli Stati Uniti culti, e in modo più generale “nuovi movimenti religiosi”» (3), e delle loro pretese di far valere l’argomento-Dio nella sfera pubblica, che sempre più in futuro si dovrà fare i conti, e non con i teologi alla Hans Küng, che hanno interiorizzato integralmente il dovere civico di garantire per legge ciò che per la fede è peccato mortale (eutanasia compresa, nel caso di Küng).
Non certo «minore» ma anzi cruciale è invece l’obiezione che Habermas mi rivolge sul non-cognitivismo etico, da me rivendicato, che sarebbe invece inconciliabile col «nucleo deliberativo del procedimento democratico [per il quale] non basta un mero accertamento di opinioni e “valori” pregiudizialmente sottratti all’argomentazione». Vediamo.

Il non-cognitivismo etico

Cosa comporta, in negativo e in positivo, questo dovere di argomentare razionalmente le proprie preferenze, che Habermas e io difendiamo come essenziale a una democrazia presa sul serio? Negativamente significa che, dovendo le opinioni essere argomentate e non semplicemente contate, ma essendo comunque il voto il momento del verdetto (benché sempre rivedibile), le regole della campagna elettorale dovranno ridurre per il possibile ai minimi termini tutti i fattori irrazionali nel processo persuasivo di acquisizione del consenso. Non solo non «influenzando dall’esterno, con le buone o con le cattive, con minacce o allettamenti» (4) – intimidazione mafiosa o corruzione, ad esempio – la volontà dell’elettore, ma vincolando quanto più possibile le modalità propagandistiche al solo «format» dell’argomentazione razionale. Il che, in campagne elettorali dominate dalla tv, non è poi utopistico. Basterebbe che non fossero consentiti spot, e neppure interviste a singoli candidati, ma esclusivamente confronti, con tempi «lenti» e «lunghi» e altre modalità tali da premiare la razionalità argomentativa e scoraggiare altre, ben note e oggi dominanti, forme retoriche.
Ma neppure misure del genere, che a molti sembrerebbero altamente illiberali o irrealistiche, e neppure se a coronamento di provvedimenti che abbiano moltiplicato in modo strutturale e permanente le possibilità di partecipazione civica, attraverso movimenti e associazioni (sempre con modalità orientate al confronto razionale, ma allora con esclusione di linguaggi religiosi non tradotti), sarebbero sufficienti a configurare «la politica come un processo che risolve i problemi […] sotto il profilo dell’eguale interesse di tutti i cittadini – dunque nel modo oggettivamente più utile – [e] sotto il profilo della giustizia». «L’eguale interesse di tutti i cittadini», qui sbandierato da Habermas come leva del ragionamento, continua a sembrarmi introvabile e a suonarmi, anzi, come mito reazionario apologetico. Altrettanto vale per la «soluzione oggettivamente più utile», anche se identificata con la «prospettiva di risultati ragionevoli».
L’idea di un «interesse comune» implica infatti già una società assolutamente egualitaria, oltre che assolutamente omogenea quanto ai valori di fondo. Laddove vi siano – più o meno – diseguaglianze sociali non possono esservi che interessi – più o meno – conflittuali. Ma anche la più radicale eguaglianza socio-economica immaginabile non immunizzerebbe la società da conflitti «spirituali», del genere che la bioetica ci pone quotidianamente. In che modo un’argomentazione razionale potrebbe mettere capo a una soluzione «oggettiva» perché «ragionevole» e quindi «comune», su temi controversi come l’aborto e l’eutanasia, senza la preliminare condivisione di valori sostantivi estremamente «forti»?
Tale interesse comune non è rinvenibile neppure sul piano puramente procedurale, delle regole del gioco, della Costituzione, a meno che i valori repubblicani non siano già stati interiorizzati da tutti (ma i problemi nascono proprio perché così non è). Al fondamentalista islamico che preferisca il Corano come Costituzione, o al nazista fan del Führerprinzip non c’è possibilità di addurre argomenti razionali per la superiorità della democrazia liberale che non debbano essere già presupposti in nuce. Si tratta insomma di un conflitto che vede Dio, o il Destino della Nazione, contro l’eguaglianza delle opinioni dei cittadini, conflitto non componibile razionalmente perché fra valori ultimi. E il fatto che il nazista e il fondamentalista islamico accettino di partecipare alla vita democratica e relative discussioni non implica nessuna contraddizione (neppure pragmatica) con i loro valori ultimi, bensì la coerenza di un uso strumentale delle opportunità democratiche.
Ora, il non-cognitivismo etico, nelle sue variegate tendenze, avanza come pretesa essenziale unicamente la seguente: una norma non riesce mai ad essere giustificata senza che l’argomentazione razionale non debba a un certo punto far ricorso ad altra norma (di livello superiore) che funga da criterio e fondamento di giustificazione (analogamente se invece che di norme parliamo di valori). È davvero possibile sottrarsi a questo orizzonte logico-esistenziale (o maledizione, per taluni), nel quale un evidente regresso all’infinito impone che il valore ultimo (o primo, se si preferisce) non possa essere a sua volta fondato razionalmente, ma sia ineludibilmente scelto (comune o conflittuale che in tal modo risulti presso gli interlocutori)?
Nessuno ha mai esibito una tale soluzione, altrimenti qualsiasi non-cognitivista, dal momento che la passione per la verità è la sua stella polare (come per ogni filosofo), sarebbe già passato armi e bagagli nel campo del cognitivismo etico.
Ma assumiamo pure per ipotesi che una scelta, ad esempio in favore o contro la liceità dell’eutanasia, sia davvero una questione di «apprendimento razionale». Alla pretesa avanzata da Tizio, che l’eutanasia – intesa come suicidio assistito di chi vive come tortura una malattia terminale – debba essere lecita poiché la decisione sulla propria vita appartiene evidentemente a chi la vive, Caio proverà a contrapporre tutte le note obiezioni, dallo slippery slope ai casi di incapacità volitiva (bambini, minorati mentali), ma infine nulla gli resterà da obiettare, nella fattispecie circoscritta di adulti consapevoli, se non che «la vita appartiene a Dio», anziché all’individuo che la vive: cioè un dogma religioso. Affermazione che non potrà far valere come «argomento» per l’emanazione di una legge, poiché una legge non può discriminare chi credente non è, assoggettandolo a una «Verità», la «creaturalità», che è tale solo per fede.
Ma se intendesse continuare a farlo, violando già con ciò il carattere puramente razionale dell’interazione discorsiva, e come dirimente invocasse il ricorso al voto (cioè al «mero accertamento» del peso relativo delle due «opinioni» in conflitto), dovrebbe accettare che a misurarsi nelle urne con la sua morale fosse una qualsiasi altra morale altrettanto dogmaticamente avanzata. Ad esempio, di contro alla morale che impone di bere fino all’ultima goccia il calice di una vita ridotta a tortura, Sempronio potrebbe avanzare quella che impone di sopprimerla, perché disumana. Eppure Caio riterrebbe inammissibile un tale voto, benché la morale di Sempronio abbia una caratura decisionistica e dunque irrazionale non certo superiore a quella dogmatica dell’argomento-Dio.

Ragione non mutilata e ragione minima

Riproponiamo il conflitto fra due norme morali di segno opposto secondo un esempio effettivamente accaduto: la costrizione a portare a termine una gravidanza (tentata a forza di leggi e/o referendum sia in Europa che in alcuni Stati degli Usa), o viceversa la costrizione a interromperla, se si ha già un figlio (imposta dal governo cinese per evitare un collasso sociale da sovrappopolazione). Per dirimere il conflitto, qualora le due morali venissero proposte come leggi in uno stesso paese democratico, ci si dovrebbe accordare su una metanorma, cioè sulla procedura per decidere. In questo caso quelle possibili sono esclusivamente due: o ciascuno deciderà su se stesso secondo la propria morale (metanorma libertaria), o una delle due morali diventerà vincolante per tutti sulla base del voto (metanorma maggioritaria). Caio, sappiamo, rifiuta la prima. Ma se sceglie la seconda, una maggioranza potrebbe stabilire legittimamente (perché secondo una procedura accettata anche da Caio) che l’aborto dopo il primo figlio sia obbligatorio. Caio però dichiarerà questa decisione a maggioranza illegittima, e anzi totalitaria (lo ha fatto, col nome di Karol Wojtyla, per molto meno – per la semplice possibilità dell’aborto in casi assai circoscritti – di fronte al primo parlamento polacco liberamente eletto del dopoguerra).
Caio, al massimo e obtorto collo, accetterebbe un voto che decida tra la sua norma sostantiva e la metanorma libertaria (che era poi la proposta di legge di Tizio), violando il principio dell’eguaglianza fra votanti, perché pretende solo per sé il diritto a far decidere dal voto un contenuto morale (illiceità dell’aborto e/o dell’eutanasia), ma nega tale diritto alla morale «compassionevole» di Sempronio o «malthusiana» dei dirigenti cinesi.
Insomma, per negare la conclusione pro eutanasia e pro aborto (nella forma di «libertà di», decisa autonomamente da ciascuno, la proposta di Tizio), è necessario introdurre come valore supremo il «creaturalitarismo» (oltretutto in una delle molte teologie possibili), mentre il ricorso alla sola argomentazione razionale comporta la superiorità gerarchica dei valori implicati nel dialogo (eguale dignità/libertà/potere fra i dialoganti) tanto rispetto al valore-Dio del «creaturalitarista» che al valore-natura (o razza, eccetera) del «malthusiano».
L’indecidibilità razionale tra valori ultimi non è ipotesi scolastica di ottusi non-cognitivisti ma realtà quotidiana in ogni società eticamente pluralistica. Sul versante di Caio l’indecidibilità tra valori ultimi è però anche una contraddizione, qualora Caio, mentre continua a rifiutare il diritto all’eutanasia, e a esigere per legge l’obbligo di «vivere» la tortura terminale fino alla feccia, pretenda di riaffermare (come in genere fa) la sua fedeltà ai valori della democrazia liberale.
Caio d’altro canto potrà perfino negare l’esistenza di tale contraddizione logica e pragmatica, rendendo impossibile anche su questo piano ogni orientamento all’intesa (che per Habermas è invece inerente all’agire comunicativo). Ostinazione comprensibile, perché ammettendo la contraddizione dovrebbe riconoscere il carattere secondo della sua adesione alla democrazia, rispetto al primato valoriale della pulsione teocratica di far rispettare a tutti la volontà di Dio (eventualmente mascherata da «legge naturale»). Non solo, riconoscendo il carattere non argomentabile razionalmente di tale gerarchia, paleserebbe anche l’essenza irrazionale della fede.
Infine, la pretesa cognitivista non solo è circolare, non solo è comunque inapplicabile a qualsiasi «mondo della vita» articolato e pluralista, in cui altri valori siano avvertiti da alcuni «dialoganti» come maggiormente vitali rispetto alla razionalità argomentativa, ma la razionalità che tutti dovrebbero aver già interiorizzato come criterio di valore supremo sarebbe poi quella «razionalità minima» dei fatti accertabili + la logica, che Habermas ha invece infinite volte stigmatizzato come una forma reificante e dunque inaccettabile di razionalità. Ogni «di più» sarebbe infatti un ulteriore presupposto di valore.
Valga il vero: una «ragione non mutilata», che ecceda cioè «fatti accertati+logica», deve contenere già un’idea condivisa di «giustizia», deve cioè presupporre lo stesso criterio supremo di valore. E anzi esso deve costituire «un sapere di sottofondo nel complesso aproblematico» (corsivo mio) anche rispetto alla «totalità di tutte le relazioni interpersonali regolate in modo legittimo» (5), che è esattamente quanto non accade mai nell’azione politica anche solo discorsiva, come abbiamo visto negli esempi precedenti.
Inoltre, l’azione politica non è mai solo cooperativa, è contemporaneamente conflittuale, anche tra quanti impegnati «dalla stessa parte». Ciascuno, nel comune scopo di realizzare un obiettivo e sconfiggere un avversario, continua a coltivare anche (e spesso soprattutto) finalità proprie, ad attribuire dunque alla azione comune un futuro diverso da quello del suo compagno di lotta (sono le «speranze»). Nella Barcellona 1937, unanimemente in guerra contro «los quatros generales que se han alzados», le stragi staliniste di anarchici e Poum potranno essere considerate un caso estremo, ma anche nelle situazioni pacifiche i partecipanti cooperativi a un’azione politica perseguono obiettivi reciprocamente conflittuali (rafforzare o indebolire una leadership, preparare una successiva azione non condivisa eccetera).

E poiché la propria azione, già irriducibile a un solo «obiettivo comune ragionevole», viene «rubata» e «piegata» dall’agire altrui (gli avversari, gli indifferenti), di modo che l’eterogenesi dei fini rappresenta non l’eccezione ma un caso particolarmente evidente della struttura stessa dell’agire, e poiché, come sostiene Hannah Arendt e confermano tutti gli eventi cruciali, l’azione è per sua natura imprevedibile (il suo evolvere e i suoi effetti non sono calcolabili, altrimenti non si tratterebbe di azione ma di routine), potrebbe essere più «razionale», paradossalmente, seguire l’etica della convinzione rispetto all’etica della responsabilità.Non posso qui discutere nei dettagli l’habermasiana etica del discorso e la Teoria dell’agire comunicativo che ne costituisce lo sfondo, cosa che tenterò in altra occasione. Habermas nella sua replica ha definito «piuttosto ovvie» le sue «proposte sul ruolo pubblico della religione», ma sa bene che questa è la modestia di un’abile mossa retorica. Il ruolo pubblico delle religioni è già oggi e sarà sempre più una delle questioni più controverse nella crisi delle democrazie occidentali. Spero perciò che il confronto non si fermi qui, e che una risposta di Habermas a queste più dettagliate obiezioni porti argomenti che possano convincermi.


(1) P. Flores d’Arcais, «Le tentazioni della fede (undici tesi contro Habermas)», MicroMega, volume speciale «Per una riscossa laica», novembre 2007, pp. 3-13.
(2) Ho provato a confutarla sommariamente, in controversia con Gianni Vattimo e Michel Onfray, in Atei o credenti?, Fazi editore, Roma 2007.
(3) O. Roy, «Secularisation et mutation du religieux», Esprit, October 2008, pp. 10-11.
(4) J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 142.
(5) Id., Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986, vol. I, p. 138.

 

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