Spettacolo, immagine, realtà: Debord e Baudrillard di Gianluca Miligi ‘Spettacolo’…
Scritti sulla situazione in Germania e le origini del totalitarismo, a cura di Giuseppe Gagliano
Prefazione
Luciano Pellicani
”Il vecchio mondo va in frantumi e dalle sue ceneri ne sorgerà un altro, perché una dea sublime , la Rivoluzione, scende fremente sulle ali delle tempeste. Aspettiamo tutti la Rivoluzione come la liberatrice da questo mondo di afflizioni , la creatrice di un nuovo mondo capace di rendere tutti felici”.
Con queste parole , Richard Wagner espresse quella che, per ben due secoli, è stata la Grande Illusione che ha dominato la scena mondiale alimentando poderose passioni politiche e travolgenti movimenti rivoluzionari di massa determinati a radere al suolo l’esistente per riportarlo a nuova vita. Un’Illusione potente quanto accecante, centrata sulla nichilistica idea che “tutto ciò che esisteva era degno di perire” ( Engels) e che distruggere equivaleva a creare. Di qui il fatto che l’idea di Rivoluzione altro non è stata che un aggiornamento della visione millenaristica della storia umana iniettata nella cultura occidentale dal cristianesimo. Con una precisazione di fondamentale importanza: la demitizzazione della Traditio religiosa operata dall’Illuminismo ha costretto l’attesa della Apocalisse a presentarsi sotto le vesti della razionalità e della scientificità. E’ accaduto così che la “morte di Do” – indicata da Hegel come “il sentimento su cui riposava la religione dei tempi moderni” – ha spianato la strada al così detto “socialismo scientifico” centrato sull’idea che i tempi erano maturi per la vittoria planetaria di quella che Engels chiamava “l’ultima guerra santa per il millenario Regno della Libertà” .
In effetti, nel marxismo – esattamente come nelle dottrine apocalittiche – la storia dell’umanità era concepita come una dolorosa odissea, destinata, tuttavia, a concludersi con un esaltante happy end : la “società senza classi e senza Stato”. Essendo evaporata la fede nella Provvidenza divina, la liberazione dell’umanità dal Male non poteva che essere opera dell’umanità stessa . Per questo, l’epoca della secolarizzazione è stata caratterizzata dal risveglio della Gnosi e dalla conseguente riapparizione del mito del Salvatore -Salvato. Le due grandi tradizioni apocalittiche – quella millenaristica e quella gnostico-manichea – , che per secoli avevano attraversato, simili a fiumi carsici, il sottosuolo della civiltà occidentale, sono riemerse nel bel mezzo della catastrofe culturale generata dalla Prima rivoluzione industriale e hanno assunto le sembianze del socialismo , di cui la Gnosi di Marx – diagnosi-terapia dell’alienazione – è stata le versione più agguerrita e radicale. Essa , infatti, – le parole sono di Victor Serge – “ mirava a riprendere in mano tutto, a trasformare tutto, dal regime della proprietà , alla organizzazione del lavoro e dalla carta dei continenti (per mezzo della abolizione delle frontiere), fino alla vita interna dell’uomo ( per mezzo della fine della religiosità) . Pretendendo una trasformazione totale, essa era nel senso etimologico totalitaria”. Come totalitaria era la così detta “dittatura rivoluzionaria del proletariato” : un’astuta formula ideologica che mascherava il dominio del Partito degli attivisti gnostici sullaclasse operaia e, all’occorrenza, controla classe operaia.
Tutto ciò è puntualmente documentato da Giuseppe Gagliano in questo libro che ha il pregio non piccolo di smascherare il più grande e catastrofico mito del nostro tempo: la Rivoluzione come “resurrezione dell’umanità” ( Bucharin) attraverso la purificazione della società borghese, corrotta e corruttrice.
Introduzione
Di Giuseppe Gagliano
Il presente saggio si propone di analizzare la nozione di totalitarismo sulla scorta dell’interpretazione di Simone Weil.
Come noto la filosofa francese ha studiato il totalitarismo prima che questo si manifestasse nel ‘900 in tutta la sua completezza – essendo Weil trapassata nel 1943. La disamina di Weil risulta dunque, almeno in parte, premonitrice e si presta a fungere da introduzione per lo stesso concetto di totalitarismo. In Sulla Germania totalitaria[1]1la studiosa ricorda che lo «lo Stato come unica fonte di autorità ed esclusivo oggetto di abnegazione» è stato inventato da Richelieu, è stato «portato a un più alto grado di perfezione da Luigi XIV, a un grado ancora più alto dalla Rivoluzione, poi da Napoleone» e – passando per l’Urss – ha «trovato oggi (1939) in Germania la sua forma suprema»[2]2. Weil non afferma soltanto che il totalitarismo si colloca nel percorso storico-politico dell’Occidente, ma rileva anche che l’odio nutrito dagli europei per Hitler è simile all’odio provato nel secolo diciassettesimo per Luigi XIV e, nel secolo successivo, per Napoleone. Contrariamente al dogma della “nazione eterna”, i nazisti non assomiglierebbero affatto agli antichi germani, ma, appunto, agli antichi romani, dei quali avrebbero ripreso la barbarie, la perfidia, la provocazione, l’astuzia, il tradimento della parola data e l’idea della missione imperiale – caratteristiche che Weil attribuisce ai romani riportando l’autorevole testimonianza degli autori greci e latini. Partendo da una posizione favorevole alla valorizzazione dei piccoli centri corrispondente alla auspicata sconfitta del centralismo statale, Weil lega l’avvento del totalitarismo al potere che lo Stato ha assunto su di sé a partire da Roma (immagine quasi archetipa, ma che fu tragicamente tangibile, dello stesso totalitarismo).La filosofa pertanto trova le origini del totalitarismo nell’antica Roma e poi in Francia confutando l’idea secondo la quale il totalitarismo sia un fenomeno prettamente germanico, un’evoluzione del militarismo tedesco[3]3. Per la studiosa da una parte c’è la libertà dell’individuo che, dove non è ipocrita, deve essere orientata ad un bene puro (il bene e la giustizia sono gli stessi da tempi remoti[4]4) e dall’altra c’è lo Stato con la sua politica liberticida e la sua brama di dominio imperiale. In altri termini: i nazisti e i romani avevano presente cosa fosse il bene e scelsero deliberatamente il male.
La Weil si spinge a sostenere qualcosa che, a nostro avviso, Hannah Arendt non avrebbe potuto affermare e cioè che i campi di concentramento tedeschi non sarebbero stati «un mezzo più efficace per distruggere la virtù dell’umanità di quanto non lo furono i giochi dei gladiatori e le sofferenze inflitte agli schiavi» nell’antica Roma. Ciò indica che il potere di un uomo non è esercitato a Berlino in modo più brutale, assoluto e arbitrario di quanto non lo fosse a Roma, lo stesso vale per la vera vita spirituale ostacolata a Berlino non più che a Roma[5]5 – la filosofa contesta la stessa grandezza della cultura romana, specialmente se paragonata con quella greca e critica l’incondizionato ossequio che viene dato agli autori romani nelle scuole francesi esclusivamente sulla base delle fonti autocelebrative latine. Secondo Weil le analogie tra Roma e il nazismo sono tali da farci asserire che “dopo duemila anni” solo Hitler ha saputo “copiare correttamente i romani”[6]6; dunque, tutto ciò che del suo comportamento ci indigna, lo accomuna a Roma. L’oggetto della politica è lo stesso: imporre agli altri popoli la pace con la servitù sottomettendoli mediante la forza e tramite una implacabile organizzazione ad una forma di civiltà ritenuta superiore. Hitler avrebbe aggiunto solo miti inventati di sana pianta a questa concezione e, scrive Weil, saremmo più stupidi dei giovani hitleriani se prendessimo sul serio il culto di Wotan, il romanticismo neo-wagneriano, il culto del sangue e della terra e credessimo che sotto il termine “romantico” di razzismo non si nasconda altro che il nazionalismo[7]7. Ciò significa che lo stesso antisemitismo, a dispetto delle interpretazioni secondo cui solo col nazismo il razzismo sarebbe stato posto al centro di una concezione politica, non fosse altro che la riproposizione del culto della superiorità razziale già adottato dai romani. Non vi sarebbe stato pertanto nel totalitarismo novecentesco nulla di veramente mai visto essendo invece esso l’ennesima parusia della tirannia liberticida propria del centralismo statale. Per Weil Roma avrebbe annientato le culture del Mediterraneo e avrebbe sostituito la cultura greca con una cultura funzionale alle esigenze della propaganda e del domino. Di conseguenza, per tutto il Medioevo la cultura romana sarebbe stata l’unica conosciuta dai dotti occidentali. Il cristianesimo invero avrebbe potuto controbilanciare l’influenza di tale cultura, ma Roma, accogliendolo e diffondendolo nelle regioni dell’Impero, avrebbe stretto con esso un ferreo sodalizio che lo avrebbe contaminato. La Weil, quantunque ebrea, non esita altresì a scrivere che disgraziatamente il luogo di origine del cristianesimo avrebbe imposto a quest’ultimo l’eredità di testi in cui sono lodate la crudeltà, la volontà di dominio, il disprezzo per i nemici vinti che ben si sarebbero armonizzati col modo di pensare tipicamente romano. Durante l’età moderna gli uomini cercarono di richiamarsi alla cultura classica, ma lo fecero senza rinunziare alla forza e ciò determinò che i valori veramente umani dello stesso umanesimo si cristallizzassero favorendo nei fatti la vittoria della guerra economica e militare, entrambe conseguenze dirette del nazionalismo, cioè di una visione totalitaria della vita funzionale al trionfo del collettivo burocraticamente organizzato sull’individuale – e sul comunitario. L’analisi di Weil, alla stregua dell’esegesi di Arendt, prende le mosse dalla critica dell’uomo moderno incapace di ritrovare non solo la libertà, ma anche il rapporto tra azione e pensiero che, in un universo naturalmente necessitato, potrebbe rendere la stessa libertà almeno relativamente possibile. Il discorso di Weil non è diretto esclusivamente a rifiutare il totalitarismo tedesco, ma a denunciare il percorso che, da lungi, ha condotto a tale esito tartarico. Ciò implica interrogarsi sul senso dell’esistenza umana e soprattutto sulla possibilità della libertà nonché del bene – oltre che del male. L’uomo perde la sua libertà quando s’ingenera un meccanismo per il quale non si capiscono più i significati pratici e contingenti delle azioni. Tale meccanismo in cui l’azione e la conoscenza, il lavoro e la progettualità sono separati, si manifesta massimamente nello Stato che accentra su di sé tutto il potere coinvolgendo i cittadini in una serie di processi ineffabili che gli uomini non possono capire: ciò che conta è così solo la funzione, l’uomo è sacrificato al meccanismo, il mezzo diventa fine. Lo Stato diviene l’idolo dell’uomo moderno, un idolo che, come direbbe Arendt, sta al centro di un “mondo fittizio” nel quale non c’è più alcuna proporzione tra il fare e il conoscere e in cui, proprio per questo, l’uomo ha perso se stesso divenendo un essere estraniato e sradicato, incapace di rapportarsi adeguatamente (cioè in maniera veramente utile a sé) alla realtà. Quando l’uomo ha cercato di emanciparsi completamente dalla necessità naturale, ha creato un sistema che, invece di garantirgli una maggiore libertà, lo ha reso ancora più schiavo. In questo senso si spiegano anche alcune critiche alla sinistra tedesca che, pur essendo al tempo tra le più forti in Europa, restando ancorata ad alcuni dogmi del marxismo e non riuscendo a valutare con realismo i fatti, non ebbe alcun modo di opporsi al nazionalsocialismo capace invece di presentarsi come forza rivoluzionaria ma, allo stesso tempo, di avere il consenso dell’alta borghesia – minacciata essa stessa dalla possibile rivoluzione nazionalsocialista. Proprio quando sembrava che si fossero determinate del condizioni oggettive necessarie all’auto-superamento del capitalismo, i partiti di sinistra non seppero fare fronte comune contro il nuovo movimento rivoluzionario: i socialdemocratici preferirono adottare una politica sostenitrice del grande capitale e i comunisti seguire pedissequamente, oltre che i dogmi messianici del marxismo, i dettami della Terza Internazionale interessata soltanto a salvare il “socialismo in un solo paese” – la Russia. Se i nazisti, ai quali viene riconosciuta una identità almeno in apparenza rivoluzionaria (alternativa oltre che alla sinistra anche alla destra liberale) attraggono a sé i deboli mediante l’esibizione della forza e dell’organizzazione, la sinistra, persa nelle sue divisioni, non si dimostra altrettanto compatta e in grado di ottenere il medesimo consenso. Non solo, la stessa Unione Sovietica fece il gioco del nazismo perché non seppe appoggiare con forza il movimento operaio tedesco temendo che questo, una volta arrivato al potere, potesse dare al socialismo una forma più autentica, cioè opposta a quella impressagli da Stalin. L’URSS, lungi da rimanere il paese della Rivoluzione, era divenuto prima che ciò accadesse in Germania, il paese del centralismo tirannico. In Unione Sovietica infatti lo Stato operaio tracimò nello Stato totalitario che faceva gli interessi di una nuova classe di burocrati a loro volta guidati da Stalin. Weil sembra anticipare la riflessione di Arendt quando scorge nello sradicamento determinato dalla discrasia tra il conoscere e il fare uno dei presupposti del fenomeno analizzato credendo che lo Stato totalitario abbia edificato un mondo falso al posto di quello di vero e che tale alchimia abbia determinato una crescente perdita della libertà, della consapevolezza della libertà e della capacità pratica di realizzarla, perdita funzionale non solo alla vittoria di ogni centralismo (e dunque del totalitarismo) ma, in una prospettiva forse ancora ideologica, funzionale alla vittoria totale del capitale finanziario. D’altra parte, le due prospettive appaiono quasi opposte laddove Weil vede nel nazismo l’espressione apicale del centralismo statale e Arendt vede in esso il prodotto, sebbene indiretto, del decadimento dello stato nazionale. In altri termini, sembra che per Weil lo sradicamento sia determinato dalla forte presenza dello Stato, dalla superiorità del collettivo sull’individuale e per Arendt che sia aggravato dal decadimento di quei nessi comunitari anche istituzionali che, venendo a mancare, avrebbero permesso al nazionalsocialismo di imporre, sul vuoto sviluppatosi, la sua irrazionale e terroristica ideologia. Invero, tale differenza si appiana se si considerano le critiche che la stessa Arendt muoverà, nelle opere prettamente filosofiche, al centralismo statale e al rispettivo modello politico-economico contrapponendo ad esso addirittura la polisgreca dove, grazie allo spazio autenticamente politico, il cittadino poteva esercitare ancora la sua libertà[8]8. In altre parole, le strade si avvicinano laddove entrambe le filosofe ripugnano l’astrattezza del sistema politico contemporaneo che, diversamente da quanto potrebbe accadere nelle piccole comunità, facendo dell’individuo un ingranaggio anonimo del processo lavorativo, impedisce che ci sia un vero dialogo e dunque una autentica, concreta, libertà.
[1]1 Nella prima parte del libro sono contenute le lettere e le riflessioni vergate da Weil intorno al ’32-‘33, quando era in Germania e assisteva direttamente all’ascesa di Hitler; nella seconda parte è presente il saggio Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo(1939). Cfr. S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano, 1990. Nella nostra analisi, seppur implicitamente, terremo conto altresì del libro di S. Weil,Riflessioni sulle cause della liberà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 1997.
[2]2 S. Weil, Sulla Germania totalitaria, cit., p. 203.
[3]3 La posizione di Weil appare opposta a quella ad esempio di Collotti (1962) per il quale l’origine del totalitarismo tedesco sarebbe da ricercarsi soprattutto nel retroterra culturale specificamente tedesco.
[4]4 «Nulla consente di credere che la morale sia mai cambiata. Tutto porta a pensare che gli uomini dei tempi più remoti abbiano concepito il bene, quando l’hanno concepito, in maniera pura e perfetta quanto noi, benché abbiano praticato il male e l’abbiano celebrato quando era vittorioso, esattamente come facciamo noi». Ivi, p. 265.
[8]8 «L’ultimo stadio della civiltà del lavoro, la società degli impiegati, richiede ai suoi membri un duplice funzionamento automatico, come se la vita individuale in effetti fosse stata sommersa dal processo vitale della specie e la sola decisione attiva ancora richiesta all’individuo fosse di lasciare andare, per così dire di abbandonare la sua individualità, la fatica e la pena di vivere sentiti ancora individualmente, e di adagiarsi in un attonito, “tranquillo”, tipo funzionale di comportamento». Hannah Arendt, Vita Activa, La condizione umana, Bompiani, Milano, 1964, p. 240.