Un libro importate genera discussioni. È il caso del libro…
Neoliberismo e Iran? Due economisti spiegano che cosa non torna di questa associazione (se non basta l’evidenza)
Di Michele Boldrin e Costantino De Blasi
Lo scorso 8 dicembre sulla Rivista il Mulino è apparso un articolo a firma di Stella Morgana che ha suscitato sorpresa e polemiche sui social. L’articolo, senza negare la natura sostanzialmente spontanea delle proteste in Iran, attribuisce parte del malcontento della popolazione alle riforme economiche implementate dal presidente Rafsajani verso la fine degli anni 90. Al contempo, con un twist interessante, la dottoressa Morgana argomenta che le difficoltà di coordinamento degli scioperi siano dovute alla precarizzazione del lavoro e alle politiche di quella presidenza che avrebbero parcellizzato il lavoro, indebolito le organizzazioni sindacali e reso quindi meno articolata la partecipazione della “classe operaia” alle proteste contro il regime.
L’articolo in questione sembra un adattamento agli eventi recenti, di una serie di articoli pubblicati svariati anni addietro (tra il 2017 ed il 2020) su riviste che seguono l’evolversi della situazione socio-politica in quella regione. In termini di analisi fattuale, quindi, nulla di particolarmente originale o di specifico degli ultimi mesi. Il modello analitico sottostante sembra essere quello “leninista classico”: la classe operaria delle grandi fabbriche, organizzata dal partito e dal sindacato social-comunisti, costituisce la colonna d’acciaio e l’impacaltura fondamentale di ogni buona rivoluzione. Se manca quel tipo di classe operaia allora la rivoluzione diventa difficile o impossibile e la colpa, una volta ancora, va data alla nota araba fenice chiamata “neoliberismo” che quella classe operaia “distrusse”.
Lasciamo stare il vago romanticismo reazionario del tutto (ridateci le fonderie e le catene di montaggio d’un tempo che a noi mosche cocchiere della rivoluzione socialista manca l’operaio massa davanti alle cui fabbriche amiamo volantinare testi rivoluzionari ad ogni cambio di turno, loro turno sia chiaro) e cerchiamo di comprendere i propositi e le finalità dell’articolo in questione. L’idea di un regime teocratico e dittatoriale – dove tutto quanto venga dall’Occidente, e dagli USA in particolare, è farina del diavolo – che gestisce il proprio sistema economico ispirandosi a criteri “liberali” (con o senza neo) lascia perplessi e richiederebbe almeno qualche pezza giustificativa[1]. Ma siccome tutto è possibile (anche se non tutto è probabile) proviamo a verificare se i) corrisponde al vero che la Repubblica Islamica abbia vissuto un periodo “neoliberista”; ii) se gli effetti di quelle riforme di circa 25 anni fa abbiano effettivamente un ruolo nelle proteste iniziate dopo l’uccisione di Mahsa Amini; iii) quale coordinamento esista, se esiste, fra chi da quasi 90 giorni scende in piazza per protestare contro il regime e se questo coordinamento è mosso effettivamente da istanze di carattere economico; iv) se una qualche evidenza esiste che i supposti cambiamenti “neoliberali” siano il fattore frenante del movimento rivoluzionario.
La rivoluzione del 1979 che aveva portato al rovesciamento del regno di Mohammad Reza Pahlavi e all’insediamento della Repubblica Islamica aveva momentaneamente raccolto le aspirazioni dei movimenti marxisti del Paese. Dall’esilio di Parigi Khomeini aveva teorizzato una dottrina politica e sociale vicina a quella marxista in contrapposizione ai “fasti per pochi”, e alla corruzione, della monarchia. Tuttavia, nelle settimane seguenti alla presa del potere egli si distanziò da quelle teorie e impartì alle Guardie Rivoluzionarie l’ordine di non violare la sacralità delle proprietà. Si era reso conto che, nella sua rivoluzione, la classe media, specialmente i commercianti ed artigiani urbanizzati oltre a molti dipendenti pubblici, aveva giocato un ruolo cruciale e che del comunismo iraniano poteva fare a meno. Insomma, quella volta erano stati i socialisti ed i comunisti iraniani a funzionare da “utili idioti”, come il signor Il’ič Ul’janov definirebbe forse anche ora gli autori di molti “studi”.
Nei primi anni della Repubblica l’economia iraniana subì un tracollo. Il GDP per capita (a prezzi costanti) passò dai 7,600 dollari del 1976 ai 2,932 del 1988.
L’inflazione cumulata alla fine del periodo khomeinista arrivò al 520%. Sull’andamento dell’economia influì sicuramente anche la guerra con l’Iraq, scatenata il 22 settembre 1980 dal dittatore – laico, questa volta, ma comunque un po’ socialista – Saddam Hussein per contrastare tanto l’influenza degli sciiti nell’area quanto per ridefinire i confini fino allo Shatt Al-Arab. Saddam non ebbe particolare fortuna – le guerre chiaramente non erano il suo vantaggio comparato, come ebbe modo di scoprire nei decenni successivi – ma il costo per l’Iran fu sostanziale.
La presidenza Rafsajani (1989-1997) inizia quando la situazione economica tocca il minimo assoluto e si contraddistinse per il tentativo di riformare un’economia socialista e una struttura sociale incentrata sull’applicazione del codice penale islamico che stavano portando il paese alla fame. Come crediamo sia facile verificare consultando fonti di dati disponibili on line, le “liberalizzazioni” che introdusse ammontarono a ben poca cosa per gli standard delle economie europee e le poche privatizzazioni furono nel perfetto stile di ogni autocrazia, ovvero trasferire a soci e compari o compagni, come accadeva in Russia più o meno negli stessi anni. Non a caso Forbes stima la ricchezza personale di questo modesto chierico a più di un miliardo. Qualcosa quelle riforme fecero, come il grafico mostra, ma molto poco. Ed altrettanto poco fecero le seguenti sino ad oggi per tre semplicissime ragioni: (i) le sanzioni, (ii) il controllo politico-religioso sul complesso dell’attività economica, (iii) la profonda corruzione che caratterizza il gruppo di potere economico-religioso che controlla l’Iran e che ha nei Guardiani della Rivoluzione il suo perno.
Nel 1997 fu eletto presidente Seyyed Mohammad Khātami che aveva l’intenzione di proseguire le riforme economiche previste dal piano quinquennale del predecessore. In una dichiarazione riportata nel bollettino del 1998 dell’IMF il presidente della banca centrale dell’Iran Hossein Namazi descriveva i problemi del Paese, sostanzialmente determinati dalla dipendenza dall’export di oil and gas, e delineava gli ambiti delle riforme
the objectives of this program are: greater transparency in the macroeconomic system and regulatory frameworks; budget reforms; tax reforms; downsizing of the government’s role in economic activities and privatization of government enterprises; promotion of private investment; dismantling of monopolies and promoting of competition; price liberalization in all but a handful of products for which the government will subsidize specific quantities; and a social safety net to protect those most vulnerable.
Detto altrimenti: dopo quasi dieci anni di “riforme neoliberali” al Fondo Monetario trovavano ben poco di liberale, neo o non-neo, nel sistema economico dell’IRI. Tuttavia a queste intenzioni – buone o cattive, non importa ai fini della nostra analisi – non seguirono effetti concreti. Scriveva nel 2000 l’IMF “l’economia della Repubblica Islamica eredita gli effetti di un’eccessiva centralizzazione; molti settori dell’economia soffrono ancora della presenza di monopoli, incluso il settore finanziario, e dipendono troppo dall’andamento dell’export di petrolio”.
Buona parte della redistribuzione del reddito in quegli anni e in quelli a venire avvenne attraverso sussidi, in particolare sul prezzo dei carburanti finiti; tanto che i costi di estrazione delle enormi riserve di petrolio e quelli di raffinazione non erano coperti dai prezzi. Una parte consistente del budget del governo, fino al 70% secondo la storica italo-iraniana Farian Sabahi, era gestito tramite fondi extra bilancio. Tale criterio consentiva al governo di aggirare meccanismi di revisione, destinare risorse verso obiettivi considerati desiderabili senza vincoli parlamentari, e alimentare fenomeni corruttivi. Il governo era coinvolto in ogni genere di attività produttiva controllando non solo i prezzi del petrolio ma anche quello dei beni di prima necessità, quelli agricoli e naturalmente il credito. Altro meccanismo rilevato dalla professoressa Sabahi è quello della speculazione sui tassi di cambio attuata da esponenti del regime e imprese ad esso legate: questi ottenevano prestiti al cambio agevolato di 1750 Rial per un dollaro e rivendevano sul mercato al valore di mercato di 8000 rial per dollaro. Un altro meccanismo per l’occultamento dei fondi e controllo dell’economia era quello delle fondazioni (Bonyad) legate al regime. La Bonyad mostafazan va janbazan era impegnata in vere e proprie attività commerciali vendendo bevande e gestendo alberghi delle catene Hilton e Hyatt.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, sempre l’IMF scriveva nel 2002 Pressure on the labor market might remain severe in the next few years, owing to Iran’s demographic dynamics and the relatively weak employment content of growth compared to other countries […] The mission encourages the authorities to step up the efforts underway to reform the labor law and provide a regulatory environment conducive to job creation.
Nel capitolo relativo al mercato del lavoro nel rapporto del 2002 si legge inoltre:
“Delineating the reasons behind the weak growth performance in Iran is beyond the scope of this note. However, a number of factors are likely to have contributed to the insufficient output growth, including the public dominance of economic activities”
Vale la pena ricordare che, nella vulgata di moda, l’IMF svolgeva il ruolo di “cuore pulsante” del neoliberismo mondiale e che, secondo l’analisi “neocomunista” (neo per neo, anche noi ci inventiamo il nostro) in quell’epoca il paese era gia stato totalmente liberalizzato ed il flusso di investimenti diretti esteri, con l’eccezione della brevissima fiammata 2001-2005, oscilla fra lo 0,5% e l’1% del PIL nazionale!
La dottoressa Morgana afferma che il 90% dei contratti di lavoro sono a tempo determinato e che i rapporti sono mediati da agenzie. Non abbiamo gli strumenti per verificare o confutare questi dati, ma nell’articolo che cita, un’intervista all’economista Mohammad Maljoo, si legge che quando Khatami chiese l’ingresso nel WTO una delle condizioni richieste fu l’istituzione di organizzazioni sindacali indipendenti, ma che “era chiaro che il Consiglio Islamico del Lavoro (una delle 3 forme di rappresentanza) non era indipendente”. Le pagine che Wikipedia dedica all’economia iraniana, in varie lingue e con testi diversi compilati da esperti diversi, concordano nello stimare che circa il 50% del sistema economico iraniano sia ancora pianificato sulla base di piani quinquennali di perfetto impianto socialista. Quella francese, per esempio, dice
L’économie iranienne combine de fortes participations de l’État dans le pétrole et les grandes entreprises (industrie lourde, biens de consommation…), un système de planification quinquennale et une agriculture villageoise et des petits commerces. L’État complète son contrôle de l’économie par les subventions accordées sur les biens de première nécessité, l’essence et les services publics. La part de l’économie informelle est assez importante. L’Iran, avec un PIB de 990 milliards de dollars (PPA, 2011), se place au deuxième rang de la région (derrière la Turquie)2, et avec un PIB de 482 milliards de dollars (nominal, 2011), se place au troisième rang de la région (derrière la Turquie et l’Arabie saoudite)3. Les principaux revenus du pays sont tirés de la vente de pétrole et de gaz naturel.
Non solo, i pochi dati che siamo riusciti a trovare con rapidità suggeriscono fortemente il contrario. Questa base dati, per esempio, mostra che circa il 18% degli occupati sono funzionari ministeriali o governativi e che l’85% di essi sono a tempo indeterminato. Per far tornare i conti sarebbe necessario che il 100% degli occupati che non sono funzionari statali siano a tempo determinato. Sul sito della International Labor Organization si trova una analisi del mercato del lavoro iraniano che pure contraddice l’affermazione in questione.
Questi fatti ovviamente non implicano che la situazione del mercato del lavoro iraniano sia rosea, al contrario essa è penosa e drammatica. Ma il vero problema sta nel fatto che l’economia iraniana, tra pianificazione, sanzioni e corruzione, risulta incapace di creare lavoro: un paese di 85 milioni e con una struttura demografica molto giovane ha circa 24 milioni di occupati (un milione solo più dell’Italia!) ed una partecipazione infima delle donne e dei giovani al mercato del lavoro. Basta una visita ai siti statistici internazionali per rendersi conto che quello è il fattore negativo dominante che contribuisce a spiegare l’esasperazione della gioventù iraniana. Oppressione, corruzione, povertà ed esclusione sono un cocktail esplosivo. Cos’abbia tutto questo a che fare con le teorie liberali e con l’economia di mercato ci sfugge.
In sostanza, a dispetto delle parole, la presenza del settore pubblico rimase predominante ed il potere politico controlla il sistema economico: la stima più accreditata dice che i Guardiani della Rivoluzione controllano circa 1/3 del sistema economico. Si tratta di 120mila persone in un paese di 85milioni! Abbiamo anche visto come i vari governi sotto Rafsajani, Khatami e Ahmadinejad abbiano puntato sulla distribuzione di sussidi, in particolar modo per l’acquisto di carburante per l’industria e l’agricoltura. La rivolta del 2019, repressa nel sangue in pochi giorni (1500 morti secondo le stime ufficiali) prese le mosse proprio dal prezzo dei carburanti. Il 15 novembre 2019 il governo Rohani aumentò il prezzo dei carburanti. Con quel provvedimento ogni auto per uso privato avrebbe avuto a disposizione solo 60 litri di benzina al mese (prima erano 250) al prezzo di 15,000 Rial invece di 10,000 Rial. Ogni litro aggiuntivo oltre i 60 sarebbe costato 30,000 Rial.
Non c’è traccia di liber(al)ismo (vecchio o nuovo che sia) nella struttura economica iraniana ma di monopoli, controllo politico del sistema economico e dirigismo. C’è abbondante evidenza, soprattutto, di governi e di politiche che hanno impedito al sistema economico di evolversi e di seguire le dinamiche sociali e demografiche. La popolazione iraniana cresce al ritmo del 3,5% annuo ed è raddoppiata dal 1980 ad oggi, il sistema economico non offre lavoro a questi giovani e quando lo offre si tratta di lavoro precario e scarsamente produttivo.
L’Iran è il quinto Paese al mondo per giacimenti di petrolio e l’economia è sempre dipesa dall’export di questa commodity. Ma gli embarghi conseguenti al posizionamento della repubblica nello scacchiere geopolitico e al programma di arricchimento dell’uranio per fini militari ne hanno ridotto la capacità di esportazione. L’export totale è passato da 126 miliardi di dollari del 2011 a 10,8 miliardi di dollari del 2020; l’incidenza del petrolio grezzo sul totale delle esportazioni è passato da un picco dell’81% ad un minimo, sempre nel 2020, dell’11%.
Ed infine, siccome “liberale” ha a che fare con libertà politiche ed economiche, personali e collettive, vale la pena ricordare che l’Iran arriva in 170esima posizione nel Freedom (Libertà) Index, ultimo persino nei paesi di quella regione.
In altre parole, è difficile individuare una correlazione (se non addirittura un effetto causale) fra riforme suppostamente “neoliberiste” avvenute decenni orsono e le proteste attuali. Molto più evidente, invece, la correlazione fra sanzioni da un lato e gestione centralista, clientelare e monopolista del sistema economico e proteste.
Abbiamo chiesto all’amico iraniano Alì Shourideh, associate professor of economics alla Carnegie Mellon University, come valuti l’assunto dell’articolo de Il Mulino e così ci ha risposto:
As perhaps meant by the article – I think I am being generous here – privatization is an important factor behind the lower bargaining power of the workers, together with the horrible economic and political policies that have made the economy stagnate for 10-15 years. However, privatization has basically been pushed by the Revolutionary Guard and the Supreme Leader as part of a political agenda to control the economy. The various heads of the office of privatization have been convicted – by the regime itself – for being extremely corrupt. Auctions are held with Revolutionary Guard intimidating bidders and outbidding them etc. etc. etc. The so-called neo-liberal policies were used as a means to get political and economic power. So they have nothing to do with the actual policies other than the name!
Veniamo ora all’aspetto che maggiormente ci preme, ovvero: per quale ragione settori della sinistra europea cercano d’inventarsi una rivolta iraniana che è, al contempo, contro il liberalismo e smorzata dal liberalismo?
In questi 3 mesi di proteste abbiamo avuto modo di informarci sulla situazione in Iran con molti osservatori. Abbiamo parlato con giornalisti ed esuli; abbiamo ascoltato le testimonianze di violenza fisica e sessuale ai danni di donne e uomini imprigionate dai Basij e l’analisi fatta da Pajman Abdolmohammadi, professore di storia e politica del Medio Oriente all’università di Trento, raccolte da Giampaolo Musumeci; abbiamo raccolto noi stessi la testimonianza di Sahar, imprigionata per un anno nel carcere di Evin e sottoposta a torture fisiche e psicologiche; abbiamo discusso la genesi e le ragioni delle proteste con Nariman Ardalani condannato a morte dal regime ed in contatto con i Mojahedin del Popolo Iraniano (MEK) che da oltre 40 anni fanno opposizione alla repubblica Islamica. Il MEK nasce tra l’altro con ideologia marxista.
Le eventuali ragioni economiche delle proteste non sono mai state associate a politiche che favorissero l’iniziativa privata ed i meccanismi di mercato – supponiamo, in attesa di conferma, che questo sia il senso generale del termine “liberale”. Il coordinamento delle proteste, reso molto difficile dal controllo preventivo attuato dal regime e dall’oscuramento di ogni chat e social media, è avvenuto grazie ai biglietti stampati e distribuiti a mano dalla sigla Giovani Universitari di Teheran. Secondo molti osservatori, fra cui l’amico Mariano Giustino che da Radio Radicale fa ogni giorno report sullo stato delle proteste, lo sciopero iniziato il 5 dicembre ha visto l’adesione del 100% di aziende e bazar. Un intero popolo incrocia le braccia insieme agli studenti.
Mai abbiamo sentito menzionare le “riforme liberali di 25 anni fa” ed il loro effetto sull’economia come causa di queste proteste. Ci è sempre stato risposto che la morte di Masha ha fatto saltare il tappo di un dolore covato dalla popolazione contro un regime oppressivo oltre ogni umana comprensione, in cui il hijab è solo un simbolo, una sintesi ed in cui il sistema economico, controllato dal regime, produce ricchezza per pochissimi e miseria per tutti gli altri.
Scrive l’Iranian Human Rights che 458 persone sono state uccise dall’inizio delle proteste e 11 persone, studenti per lo più, sono in attesa di esecuzione per aver protestato in strada; secondo la guida suprema Khamenei la morte di questi innocenti è giustificata dall’aver mosso “guerra contro dio”. Mahan Sadrat, uno degli studenti condannati a morte, non ha potuto incontrare il suo avvocato né parlare con i genitori. Ai condannati a morte, impiccati pubblicamente, è negato il funerale e ai parenti è negata la restituzione del corpo. In alcuni casi il corpo è stato restituito dietro il pagamento di “riscatto”. Chi protesta nei Paesi europei lo fa a rischio di essere segnalato dai servizi di sicurezza e ai parenti in Iran è sequestrata e rasa al suolo l’abitazione.
Shervin Hajipour è stato arrestato 2 giorni dopo la pubblicazione della canzone Baraye che viene ormai considerata il simbolo delle proteste. Karim Sadjadpour, analista politico iraniano, ha detto che Baraye “è una canzone sui sogni degli iraniani di una vita normale” https://www.youtube.com/watch?v=aJb3uc1D1D8.
Canta Shervin
Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà per la libertà
Per la libertà
برای آزادی
Per la libertà!
Ecco, per una persona emotivamente coinvolta dal coraggio estremo di ragazze e ragazzi che urlando, ballando, tagliando una ciocca di capelli e anche solo sfilando silenziosamente per le strade di Teheran, chiedono di poter vivere in libertà la loro giovinezza e i loro sentimenti rischiando e perdendo la vita, veder usare quell’eroismo per battaglie politico-ideologiche di gruppuscoli europei fa molto male; è mortificare il loro sacrificio; è ucciderne di nuovo le aspirazioni; è violenza inutile.
Stiamo seguendo con apprensione la forza di questi ragazzi sperando che la loro volontà prevalga sulle violenze di un sistema che da 43 anni si fonda sulla repressione di tutte le libertà personali. Per favore, almeno una volta, lasciamo da parte le nostre misere ideologie economiche, specie se non sono supportate dai fatti.
Approfondimenti
[1] L’autrice ritiene di aver fornito tali pezze giustificative negli articoli precedenti, fra cui questo e relative citazioni in particolare. Il tutto consiste nella seguente evidenza: mentre nella fase iniziale della IRI si parlava di “lavoro proveniente da Allah” in contrapposizione al “paradigma dello sfruttamento capitalista”, a partire dal 1980 (ovvero, subito) vennero introdotti nel discorso pubblico termini e concetti “neoliberali”. Essi sono, nell’ordine: sforzo produttivo (guerra contro Iraq), produzione, sviluppo, produzione economica, produttività, privatizzazione, successo, creatività, dialogo, uguaglianza, democrazia …