In questo suo ultimo lavoro su Benedetto Croce, Gennaro Sasso…
Abbiamo dimenticato Platone. Alcune riflessioni su Postverità e altri enigmi di Maurizio Ferraris
— > di Annalisa Arci //
In un passo del Protagora incontriamo Ermes che chiede a Zeus se deve distribuire modestia e giustizia allo stesso modo delle tecniche, come ad esempio la medicina. Socrate risponde un secco no. Uno solo che possiede l’arte medica basta per molti profani, e così gli esperti nelle altre tecniche, mentre modestia e giustizia vanno distribuite a tutti poiché non potrebbero esistere città se pochi partecipassero di queste. Per le decisioni che sono oggetto di competenza tecnica spetta a pochi dare consigli “e se qualcuno che è al di fuori della cerchia di quei pochi dà dei consigli, non lo ammettono”, (323a).
La questione viene ripresa nel Gorgia: “quando, ad esempio, si convoca in città una assemblea per eleggere medici o ingegneri navali o qualsiasi altro genere di tecnici, potrà mai avvenire che il retore dia pareri? In ogni elezione di questo genere, è chiaro, va scelto quello che è davvero il più competente. E quando si debba discutere sull’opportunità di costruire mura, o un porto, o un arsenale, non saranno i retori a dare pareri, ma gli architetti. E così, quando si tratta di eleggere uno stratega, o di preparare un piano tattico in guerra, o di conquistare luoghi fortificati, anche in questo caso non saranno i retori, ma i competenti di strategia a dare pareri”, (455b-c).
La verità non esiste, arrendetevi miei cari Greci, andava dicendo Protagora. Abbiamo solo opinioni e dunque dobbiamo puntare sulla dialettica della persuasione in modo che i nostri discorsi siano i più forti e riescano così a convincere. Platone ha (giustamente) speso la vita nel dimostrare che questa posizione, così apparentemente democratica, ugualitaria e progressista, non solo è una gigantesca menzogna ma è molto pericolosa. Nel Teeteto oppone con forza la doxa all’episteme, l’opinione alla conoscenza o scienza di qualcosa, mostrando peraltro in che modo quella che chiama “opinione vera accompagnata da ragione” abbia un ruolo nel percorso verso la conoscenza. Ma non sia mai conoscenza. Platone ci sta ricordando un principio molto semplice.
In medicina, architettura, ingegneria e in tutte le technai che richiedono conoscenze e competenze acquisite nel tempo, tramite studio ed esperienza, dobbiamo affidarci agli esperti. In tutte le discipline che possono essere apprese ed insegnate, uno non vale mai uno; la conoscenza scientifica che possiede un medico non appartiene al dominio dell’opinabile. Se mi viene l’influenza non mi affido al fai da te su google, ma vado dal medico; siamo a livello del buon senso. Mentre Protagora consumava i calzari avanti e indietro per l’agorà oggi, comodamente da casa e spesso nel più completo anonimato, la battaglia si consuma a colpi di tweet e/o di frasi ad effetto su Facebook.
L’ultimo libro di Maurizio Ferraris – Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 – si situa proprio in questo contesto. Prima di tutto, contro gli scettici e i detrattori, chiariamo un punto. Se decidiamo di parlare di verità è perché ammettiamo che essa esista e dobbiamo chiarire a quale tipo di verità ci riferiamo. Non all’idea di verità, né alla Verità con la maiuscola. Parliamo principalmente di verità di fatto che incidono sulle nostre vite (i vaccini sono l’esempio più eclatante). Non di verità assolute, immobili e ideali come quelle presentate da un certo Platone (anche se esistono oscillazioni nel corpus ma questo qui non ci interessa), ma di verità transeunti e parziali, legate al progresso, che le scienze di volta in volta ci consegnano nel corso della storia.
Detto ciò, procederemo in due tempi. (i) Cos’è il postmoderno? In che contesto teorico-filosofico si colloca il libro di Ferraris? Quali sono le principali tesi che sostiene? (ii) Dopo questa presentazione solleveremo qualche perplessità su alcuni punti.
(i) Cosa ce ne facciamo della verità nell’epoca della postverità? Diversamente da molti filosofi, secondo Ferraris la postverità (o post-truismo) è un concetto chiave per comprendere il tempo in cui viviamo, dato che la sua emergenza ne definisce le caratteristiche essenziali. Come la recessione e lo spread abbiamo a che fare con un oggetto sociale reale, che si manifesta nel web, da intendersi come “erede dell’opinione pubblica nel senso di Habermas”, (p. 9). Ecco l’imbecillità al potere, ecco il trionfo della Trump Truth, di una verità che non ha niente a che spartire con l’oggettività, l’esperimento e la scienza, ma che si configura come solidarietà di una massa (di webeti) contro le macchinazioni della élite dei “poteri forti”.
Prima di entrare nel merito del libro di Ferraris è opportuno ricordare che cos’è il postmoderno o, in altri termini, capire come siamo giunti a questo punto. Il concetto di postmoderno è entrato in circolazione verso la fine degli anni Settanta del Novecento ad indicare quella corrente di pensiero che fa capo a Jean-François Lyotard e Gianni Vattimo. Accanto alla sfiducia nei confronti della storia, del progresso e di tutto ciò che è “nuovo”, troviamo il rifiuto della razionalità tecnico-scientifica (e della realtà o natura come dominio conoscibile mediante un metodo sperimentale) e del pensiero forte o metafisico. Questi ultimi due punti implicano una particolare nozione di ragione e di verità che investe il discorso di Ferraris.
Secondo i postmoderni il pensiero forte o metafisico non è più in grado di fornire fondamenti e principi assoluti del conoscere. Dal momento che l’uomo deve abituarsi a vivere senza certezze e solo con opinioni, la sfida che il pensiero debole vuole lanciare è sul piano della ragione o, meglio, sul piano dell’idea di ragione, per sostenere una concezione della stessa che sia in grado di farsi carico della contraddizione dell’esistente e di incontrare l’essere come ombra, traccia, ricordo, un essere consumato indebolito e proprio per questo degno di attenzione. I referenti essenziali sono Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Deridda, Ricoeur, Foucault e i decostruzionisti francesi. Il punto saliente di questo modo di fare filosofia consiste nella critica di ogni tecnica e prodotto scientifico e di ogni forma di filosofia che non attinga ad una dimensione originaria a cui la scienza non può avere accesso, di fronte alla quale le scienze naturali rivelano la loro impotenza.
Pensiero debole ed ermeneutica sono le due declinazioni del postmoderno più note in Italia e che hanno suscitato reazioni da parte di Pietro Rossi (Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana nel Novecento, Il Mulino, 2004), Carlo Augusto Viano (Và pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, 1985) ed Enrico Berti (Le vie della ragione, Il Mulino, 1987). Reazioni convincenti, con cui concordo.
In Postverità e altri enigmi si parte proprio da qui. Da una domanda sui tratti che qualificano e definiscono l’epoca contemporanea ma anche (implicitamente) sul modo in cui nel dibattito contemporaneo si intendono la ragione, la verità e la filosofia stessa.
- Nella prima dissertazione Ferraris dimostra che il postmoderno è l’antefatto della postverità, in quanto quest’ultima non è altro che la diffusione del postmoderno al di là delle mura universitarie. La postverità non è un fenomeno marginale, ma aiuta a “cogliere l’essenza della nostra epoca, proprio come il capitalismo costituì l’essenza dell’Ottocento e del primo Novecento e i media sono stati l’essenza del Novecento maturo”. Esaltare il falso, l’irragionevole e la volontà di potenza equivale a parlare alla pancia della gente, veicolando al tempo stesso una convinzione molto più pericolosa: la verità è solo un’antica metafora e ciascuno di noi ha la sua verità che diffonde e difende a colpi di mouse.
- Nella seconda dissertazione troviamo il passaggio dal capitale alla documentalità, ossia il medium tecnico che rende possibile la postverità. Con un sempre maggiore senso di onnipotenza da parte delle masse, assistiamo al tramonto della stagione del capitale (le merci sono sostituite dai documenti e il lavoro salariato da una quantità spropositata di lavoro gratis sul web). All’era del sostentamento segue l’era del riconoscimento, in cui uno vale uno e di cui i selfie sono la più evidente espressione.
- L’ultima dissertazione propone un rimedio alla postverità. Il rimedio poggia sul riconoscimento dell’insufficienza delle teorie della verità ermeneutiche (che Ferraris chiama ipoverità) e analitiche (che chiama iperverità). La verità non è più una relazione a due posti, tra ontologia ed epistemologia, ma a tre posti. Esiste anche la tecnologia. È attraverso la tecnologia che facciamo la verità. Ferraris conclude che ci sono fatti proprio perché ci sono interpretazioni e che per “fare la verità” bisogna ricorrere ai fatti.
(ii) Come è evidente da 1-3 si tratta di un libro molto denso e non pretendo certo di discuterne tutti gli aspetti in questo (breve) contributo. Vorrei piuttosto soffermarmi su due perplessità di ordine particolare, derivanti quindi da posizioni esplicite dell’autore, e infine su una perplessità di ordine generale che concerne l’idea di filosofia sottesa al ragionamento.
Il mio primo dubbio riguarda la seconda dissertazione, in cui si sostiene che i documenti prendono il posto delle merci o, meglio, si riconosce che l’arcano delle merci era la loro intima natura documentale. Di tutte le merci? Non mi sembra. Forse sarebbe il caso di dire che i documenti rappresentano una nuova categoria di merci, che segue la dematerializzazione cominciata sui mercati finanziari, ma non che le merci siano ridotte a documenti (come sembra). Anche la piena monadizzazione dell’identità che Ferraris desume da questa idea non è del tutto corrispondente alle dinamiche che si vivono sul web, anzi parrebbe che l’isolamento (di cui l’abuso dei media è una delle cause più evidenti) sia qualcosa di apparente. Il web è ormai saturo di chat, gruppi su Facebook, Telegram e WhatsApp che riuniscono persone con interessi e idee simili. Sui social si cerca costantemente un’identità comune (e comunitaria) appunto perché l’identità individuale è sempre più effimera. Nutro numerose riserve nell’intendere l’individuo contemporaneo attraverso l’immagine semplicistica della monade. Semmai abbiamo a che fare con nuove forme di esperienza, con nuove strategie identitarie che poggiano anche sul riconoscimento dell’io, del sé mediante gruppi virtuali; siamo sempre onlife e, volenti o nolenti, abitiamo l’infosfera di cui parla Luciano Floridi (La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, 2017).
Un secondo dubbio riguarda la terza dissertazione, in particolare la critica al disinteresse nei confronti di questi temi da parte della filosofia di tradizione analitica. Forse non ho compreso adeguatamente. Ma se, come Ferraris scrive, “controargomentare significa implementare le fake news”, non e forse vero che gli analitici ci hanno visto giusto nell’adottare la strategia del silenzio? Che poi silenzio assoluto non è: basta sfogliare i libri di Nicla Vassallo (Per sentito dire. Conoscenza e testimonianza, Feltrinelli, 2011) e di Franca D’Agostini (Verità avvelenata. Buoni e cattivi nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, 2010; Menzogna, Bollati Boringhieri, 2012). “In questa situazione il debunking, il fact checking e l’analisi della reputazione di chi diffonde fake news risultano inutili, addirittura controproducenti”, scrive Ferraris. Ora, anch’io sono convinta che dialogare con costoro con l’intento del debunking significa prenderli sul serio e, de facto, moltiplicare l’errore e rendere ancora più confusi gli indecisi, finendo per solleticare l’inclinazione a considerare affidabile ciò che conferma le nostre credenze. Il debunking è una strategia fallimentare. Non me ne vogliano gli amici debunkers, ma da frequentatrice del web posso dire con certezza che alcuni “fenomeni” non esisterebbero né avrebbero un seguito numericamente consistente se non fossero stati trascinati nel gioco della confutazione nell’agorà virtuale.
Ma il punto è un altro. E in questo modo giungiamo all’obiezione più generale che vorrei sollevare. Il debunking riguarda le verità fattuali di cui anche le scienze si occupano. La mia domanda è semplice: se abbiamo a che fare con no-vax e terrapiattisti cosa facciamo? Beh, io farei ciò che dice Platone, chiamerei subito gli esperti di settore, medici e astrofisici. Anche senza scomodare Isaiah Berlin e la nota distinzione tra verità formali (di cui si occupa ad esempio la matematica) e verità fattuali (di cui si occupano le scienze) mi sembra abbastanza intuitivo concludere che solo una corretta divulgazione e comunicazione della scienza possa riuscire a disinnescare il circolo vizioso (“più si controargomenta più si implementa”), aumentando altresì la presenza sul web di informazioni veritiere.
La soluzione che Ferraris propone al disfare la verità presente nella tesi “non ci sono fatti, solo interpretazioni” (di Nietzsche) si fonda su “una relazione a tre termini tra ontologia, epistemologia e tecnologia”, (p. 155). Fare la verità significa andare a prendere i “portatori di verità”, ciò su cui verte il discorso vero, direttamente dall’ontologia. Direttamente dal reale. Bene, l’obiettivo è opporci a “gente che ha smesso di credere nell’aldilà e nella stregoneria, ma è però convinta che i vaccini provochino l’autismo e lo diffonde non attraverso un passaparola forzatamente circoscritto, ma con media dalla potenza illimitata”, (pp. 9-10). Dagli esempi fatti, è evidente che le ontologie di riferimento sono quelle delle scienze: per i vaccini il dominio della medicina (immunologia), per la conformazione della Terra la fisica (astrofisica).
La mesoverità di Ferraris, che si oppone all’ipoverità ermeneutica e all’iperverità analitica, non è qualcosa di diverso dalla verità delle scienze. Se è così, allora non comprendo più la differenza tra scienza e filosofia. E dunque non mi sembra sorprendente l’atteggiamento di molti analitici (propendo per quella che Ferraris chiama iperverità). Non c’è scritto da nessuna parte che la filosofia debba occuparsi delle credenze popolari no-vax. Più in dettaglio, dato che le fake news sono errori della ragione riguardanti i truth makers delle ontologie scientifiche, ad occuparsene saranno primariamente scienziati e comunicatori della scienza, non i filosofi.
Tendo a simpatizzare per questa posizione soprattutto perché il mondo non può essere l’ultimo tribunale per la riflessione filosofica (qui mi dissocio dal naturalismo e dal realismo anticoncettuale di Ferraris). Il naturalismo o realismo dice appunto questo: esistono eventi, cose che accadono ed è di queste che la filosofia deve occuparsi. Ma se così fosse, se la filosofia dovesse occuparsi solo di queste, allora si metterebbe in competizione con la scienza (e sarebbe destinata a perdere). Come sostiene Roberto Casati, fare filosofia significa negoziare sul perimetro dei concetti e, aggiungo, può accadere che i concetti non abbiano un diretto referente nella realtà. Tra le altre cose, la filosofia semmai riguarda lo spettro delle meta-riflessioni sulle scienze particolari, ma non ne condivide le ontologie.
Questo pericoloso collasso della filosofia sulla scienza ha un’origine precisa. Nel 2001 Ferraris aveva già parlato della fine della koinè ermeneutica mettendo in evidenza il concetto di verità alternativa, l’anticamera delle fake news. Dal momento che l’ermeneutica assume che in campo artistico, letterario, esistenziale esiste una verità alternativa a quella scientifica anche sul piano ontologico, allora le presunte “verità” coglibili solo con l’intuizione e con forme non meglio precisate di illuminazione non hanno più solo una valenza psicologica e antropologica. Se la realtà, quella vera, si risolve nell’arte, l’ontologia stessa si dissolve in un processo di fabulizzazione; ogni tentativo di fare filosofia in modo rigoroso è destinato al fallimento. Mi va benissimo l’obiezione alla ciarlataneria, a un’idea di filosofia che sconfina nella suggestione e nell’enfasi sapienziale, ma restituirle rigore assimilandola alla scienza mi sembra una mossa altrettanto discutibile.
Ecco, a Ferraris obietterei soprattutto questo: ci dimentichiamo di Platone anche quando avviciniamo troppo la filosofia alle scienze, non solo quando non diciamo con estrema chiarezza che sui vaccini l’ultima parola ce l’ha il medico (che, lo ripeto, non possiede una verità assoluta e non discutibile, ma una verità figlia del tempo che andrà discussa e semmai superata attraverso le conquiste della scienza). Se vogliamo evitare schiere di showgirls che parlano di immunologia dobbiamo auspicare una sempre più diffusa divulgazione scientifica. Dobbiamo accettare di fidarci e di affidarci ad esperti di settore: siamo sempre l’ignorante di qualcun altro.