Caro Enard, hai perso la Bussola

Caro Enard, hai perso la Bussola

di Nicola Gardini     >>

Il francese Mathias Enard ha scritto una decina di libri, alcuni dei quali già apparsi in italiano, vive a Barcellona, conosce l’arabo e il persiano, ha quarantaquattro anni. Il suo ultimo romanzo, Bussola (ora pubblicato da e/o nella traduzione di Yasmina Mélaouah), ha vinto il premio Goncourt 2015. Si dice che sia un grande romanzo. Certamente è un racconto ambizioso, ricco di situazioni e di informazioni, saggistico a tratti, digressivo e curioso, e corposo.

Parla di Oriente, o meglio: di medio-Oriente, e neanche tutto. Un narratore protagonista, tale Franz Ritter, viennese, esperto di musica classica, in una notte d’insonnia ci racconta i suoi viaggi (Istanbul, Aleppo, Palmira, Damasco, Teheran), mischiando liberamente ricordi di luoghi e di persone, frammenti di altre vite, citazioni letterarie e musicali, e istantanee di una tale Sarah, “orientalista” di professione. Si proietta, così, sulle pagine una sorta di collage policromo, o se vogliamo un “documentario” che sta a metà tra la confessione e la rielaborazione colta, un museo privato di oggetti pubblici, che provengono, più o meno direttamente, da quel capitolo della storia culturale che chiamiamo orientalismo. Non mancano doverose citazioni di un teorico come Edward Said o anche di Bhabha e Spivak, numi degli studi post-colonial. Ma troviamo anche il nostro Claudio Magris, lodato e criticato per Danubio; e gli autori più vari, da Balzac a Thomas Mann, da Goethe a Agatha Christie, da Baudelaire a Kafka, da Flaubert a T. E. Lawrence. Non mancano di apparire, ovviamente, Napoleone, Freud, Jung, e archeologi, viaggiatori, avventurieri, e l’oppio, e tutto il corredo di emblemi che ha fatto del cosiddetto “orient” (pronunciato alla francese) un mercatino di citazioni. Bussola, infatti, ci lascia – suppongo volutamente – con il dubbio se tutto quello che mette in vetrina sia davvero l’Oriente o solo un’immagine dell’Oriente, solo un delirio appunto notturno, da contestare ma non da dimenticare: l’“altérité”, come Franz ama dire. Neppure la libertà del monologo, infatti, riesce mai a svicolare dal cliché, dalla trovata facile, dall’omaggio al già sentito. Responsabilità dell’autore o del narratore? Colpa dei nostri tempi, dove anche chi “fa ricerca” non sa più ordinare le scoperte o classificare la rilevanza delle fonti?

Il tema che Enard si è assegnato è importante, perfino urgente. E proprio per questo ci si sarebbe aspettati una trattazione meno frivola e compiaciuta. Qui ci volevano altri discorsi, altro rigore. Ci voleva una voce saggia, un vero e proprio ermeneuta, immaginario quanto si voglia, ma capace di criticare, di distinguere, di riconoscere; e non un solipsista, un narcisista che affastella o, peggio ancora, butta nel frullatore qualunque cosa passi la dispensa, e indica malattia e follia in ogni angolo, e si sente vinto da non si sa bene quali patemi. Tutto il decostruzionismo cui siamo abituati da decenni di sbandamento del gusto non basta a giustificare né il tono né la narrazione di questo romanzo, né la psicologia gigionesca del protagonista. Anzi: il problema è proprio questo. Bussola, di fatto, non è un romanzo. Questo ce lo dice il sottotitolo dell’edizione francese, che quella italiana ha l’eleganza di rimuovere. E fallendo come romanzo, fallisce come trattazione del tema prescelto.

Il genere romanzesco, lo sappiamo, ha tanti modi d’espressione: ma una forma l’ha, ed è l’arte di mostrare il costruirsi di una coscienza in rapporto a una società, fosse la società ridotta anche a un unico individuo. Ecco, per esempio, perché l’amore si adatta alla costruzione romanzesca nel modo più ideale e più elementare: perché nell’amore ci si trasforma rispetto a qualcun altro; perché l’io si scopre “determinato” e osserva chi lo determina. Enard, a proposito di amore, ha creato Sarah, della quale si suppone che Franz Ritter sia irrimediabilmente innamorato. Ma Sarah non è nessuno, nel senso più letterale del termine. È piuttosto una trovata – facilona – per dare al narratore una voce antagonista; non un’amante e attraverso lei una coscienza di sé. Sarah, fossimo anche così ciechi da crederla un personaggio, non è più che un fantoccio di frasi fatte: come donna e come studiosa e come memoria soggettiva.

Ma dalla faciloneria è dettata un po’ tutta l’etica del libro. Perché Franz deve essere viennese? E perché farlo esperto di musica, quando quel che preme è ben altro? Un romanzo è anche questo: sistema di motivi metaforici che, per quanto allotri, alla fine si accordano e sostengono a vicenda. Qui non c’è accordo, non c’è armonia, non ci sono rapporti necessari. C’è accumulo, aggregazione; e le cose stanno insieme non per una naturale fisica della combinazione, ma per effetto di una collosa retorica dell’associazionismo e dell’analogismo, a spese di qualunque diligenza concettuale. Dici sudore e ci appicchi il sangue della selvaggina e da questa salti agli sputacchi tisici di Kafka… E così via, come viene viene, n’importe quoi. Anche l’erudizione, per la quale Enard oggi viene tanto elogiato, è cosa non impeccabile; al meglio, sfoggio di notizie da buon liceo di qualche anno fa. Non poche le inesattezze, pervasiva la superficialità… Un esempio: Sarah a un certo punto afferma – in un ricordo di Franz – che senz’altro la parola nostalgia devono averla inventata certi marinai portoghesi del XVI secolo. Franz sembra approvare, e Enard non sembra disapprovare. Ebbene: “nostalgia”, come è risaputo, è invenzione di Johannes Hofer, che nel 1688 pubblicò a Basilea uno studio su una speciale forma di sofferenza riscontrata in certi mercenari svizzeri. A ogni modo la nostalgia non è una parola e basta; non ci vuole un bas-bleu come Sarah per storicizzarla. I greci già la conoscevano e la chiamavano pothos, e i romani desiderium

Temo che Enard abbia tra i suoi dèi il davvero superno Sebald. A Sebald dobbiamo il modello di una scrittura che si confronta con gli ambiti più riposti dell’esperienza, compreso l’oblio, che scende nella micro-storia così come nell’architettura o nella biologia o nelle peggiori catastrofi dello spirito. Da Sebald l’autore di Bussola certamente ha preso la varietà tematica e perfino l’inclusione di un apparato iconografico. Ma Sebald non fa errori, neppure quando più sembra allontanarsi dal tema. In Sebald ogni digressione è al servizio di una logica metaforizzante che tutto compatta in una costruzione di aristotelica esattezza: di tragica (ancora in senso aristotelico) perfezione. In Enard mancano la tragedia, cioè il mythos che unifica in uno svolgimento fatale, e manca soprattutto la metafora, senza la quale nessun romanzo che tale si proclami potrà mai avere la pretesa di affermare anche solo mezza verità.

Da Il Sole 24ore