Carlo Rosselli, dopo gli anatemi e le apologie.  Gianmarco Pondrano Altavilla in conversazione con Gaetano Pecora, autore del libro Carlo Rosselli, socialista liberale, Donzelli, 2017

Carlo Rosselli, dopo gli anatemi e le apologie. Gianmarco Pondrano Altavilla in conversazione con Gaetano Pecora, autore del libro Carlo Rosselli, socialista liberale, Donzelli, 2017

 Ottanta anni fa, i fratelli Rosselli cadevano vittime della viltà fascista. Simboli viventi dell’antifascismo italiano avevano, con «Giustizia e libertà», offerto per anni una speranza all’Italia migliore incapace di chinare la testa davanti alla tirannia. In particolare Carlo, aveva col suo pensiero e la sua lotta costituito il punto di riferimento di una intera generazione di eroi, piccoli e grandi, che contribuirono a riportare alla libertà il nostro Paese.

Proprio in questi giorni, un volume viene dato alle stampe dai tipi Donzelli per ricordare questa figura complessa ed approfondirne, sine ira ma sicuramente con molto studio, la visione politica e l’eredità che da essa deriva.

Il testo, che si intitola Carlo Rosselli – socialista e liberale, è firmato da Gaetano Pecora ed oltre ad essere il frutto di un approfondita disamina dei documenti riguardanti Carlo Rosselli e delle sue opere, trova in un fitto dialogo con chi scrive una delle sue radici ideali. Di questo dialogo, che rappresenta un po’ il retrobottega del libro, si è cercato di rendere conto in questa intervista con lo studioso napoletano.

  • Pondrano. Professore, ad ottanta anni dall’assassinio dei fratelli Rosselli, è possibile un «bilancio critico» sereno del pensiero di Carlo?

Pecora. In teoria, sì. Sono passati ottanta anni e già nel 1979, Norberto Bobbio, quando scrisse l’introduzione a Socialismo liberale, avvertiva che «non è più tempo né di anatemi né di apologie». Il problema, è vedere se poi alle parole seguano i fatti. Il punto è sempre quello: dopo la teoria, la pratica; la pratica coerente, intendo….. (e qui il Professore accenna ad un sorriso che è molto eloquente e che la dice lunga sulla difficoltà di sciogliere un qualunque libro dai favori e dagli sfavori delle mode politiche)

  • Come si inserisce il suo volume nel filone di studi dedicato a Carlo?

Beh, se la parola non avesse assunto nel tempo un significato «politico» – e politico marcatamente di destra (che a me proprio non si conviene) – direi che il mio è un volume «revisionista»; revisionista nell’accezione, vorrei dire “tecnica” del termine, nel senso che «rivede» appunto determinate posizioni che erano state date per acquisite dalla storiografia rosselliana. Questo però non vuol dire che sia un volume partigiano, sia pure all’incontrario, cioè contra Rosselli (o contra l’apologia di Roselli). Semplicemente, come sempre nell’attività scientifica, ho pensato che fosse giunto il momento di riprendere i corni dell’aratro, di rimettersi al solco e di (ri)leggere le carte per vagliarne criticamente il contenuto.

  • Nell’apprezzamento più o meno generale del suo volume, si è discusso molto di periodizzazione, di Rosselli «1-2» e ne parleremo in seguito. Ma fermiamoci un attimo su Socialismo liberale (1930), il capolavoro di Carlo: è un testo coerente? Quanto è «liberale» il socialismo di Socialismo liberale?

Se non fosse un esercizio un po’ rischioso (ma è la chiarezza semplificatrice che si tira dietro questo rischio) potrei quantificare il liberalismo di Socialismo liberale e dire che in quelle pagine c’è accovacciato l’80% di un genio autenticamente e genuinamente liberale. E’ il genio che, tra l’altro, gli suggerisce di levare sugli scudi il diritto delle opposizioni, riguardato da Rosselli come “valore assoluto” e “conquista definitiva” della civiltà moderna; conquista, dunque, dalla quale la modernità non può decampare senza con ciò stesso ridursi ad una organizzazione di replicanti, ossia ad una comunità dove ognuno replica le idee e gli stili di vita altrui senza che mai nessuno si levi a dire: no, non ci sto con le opinioni della maggioranza e rivendico il diritto a seguire la mia strada, che per essere la mia, è perciò stesso anche la migliore. Guai se al drappello degli eretici si nega la facoltà di sperimentare le sue convinzioni, per quanto incongrue ed eterodosse esse possano riuscire! Guai! Perchè quando tutti sono costretti ad agire nello stesso modo, a pensare nell’identica maniera, a coltivare ideali e valori eguali, desolatamente eguali tra loro, quando succede questo, allora – almeno secondo la sensibilità liberale che Rosselli aveva affinato sulle pagine di Einaudi e di Salvemini – allora, dicevo, la società spegne il motore stesso del suo progresso e si ricovera nell’atmosfera quieta (e anche un po’ mortifera) delle sagrestie e dei conventi dove tutto fila liscia e nulla c’è che debba essere mai cambiato semplicemente perchè non c’è nessuno che voglia cambiare nulla. Da questo punto di vista, le pagine di Rosselli sono molto belle – anche letterariamente belle – e non c’è dubbio che s’intonino di gusto con la prima verità del liberalismo che o è conflittuale e antagonistico o non è.

C’è poi il resto….. E lì l’inciampo è, come sempre, l’economia: l’idea – certo smozzicata, certo frammentata, che ora si vede e ora non si vede ma che pure c’è (diamine se c’è!) – c’è l’idea, refrattaria col resto del suo liberalismo, di poter conciliare le libertà politiche e civili (di cui il diritto al dissenso è l’ingranaggio fondamentale) con un processo di ampia socializzazione che riduce ai minimi termini il diritto di proprietà privata. Precisamente quella proprietà che si esaltava in alcune pagine precedenti, quando Rosselli salutava il diritto dei privati come l’antemurale del potere capriccioso e, insieme, come il mozzo che faceva girare veloce la ruota della ricchezza materiale. Successivamente, sulla proprietà privata Rosselli farà cadere una invadente macchia nera e subirà pure lui la malia della fascinazione collettivistica (per cui, ad esempio, già solo dopo due anni si rimangerà tutto quanto dicendo di non contestare affatto “la bellezza e la generosità della tesi della universale socializzazione”)

  • Gli anni passano, il fascismo si rafforza, il pensiero di Rosselli già in bilico, si sbilancia verso sinistra. Quali sono i punti fondamentali di questa deriva?

A grandi linee, possiamo individuare tre linee di mutamento. Una in ambito economico (ed è quella di cui abbiamo appena parlato); l’altra in ambito storiografico; e l’altra ancora in ambito istituzionale.

  • Quindi: dopo il «profilo economico», il “profilo storiografico”; e dopo il “profilo storiografico” il «profilo istituzionale». Cerchiamo di approfondirli: come muta la visione storica di Rosselli in quegli anni?

Innanzi tutto muta il giudizio sulla rivoluzione russa. Se all’inizio, diciamo nei primi anni ’20, Rosselli viene giù a scroscio sull’esperimento bolscevico e lo atterra con un autentico manrovescio – il collettivismo, gli capiterà di dire, è “uscito disfatto” dalle vicende della storia – in seguito, nelle Note sulle Russia (che è un articolo del 1932), proprio quell’esperienza lì egli risolleva nella sua considerazione tenendola, non dirò come il maggiore dei beni, ma sicuramente come il minore dei mali. E così, coi beni che contrappesano il male, gli verrà fatto di scrivere – testualmente – che “se fossimo posti a scegliere tra il mondo capitalista, così come ci fu rivelato dalla guerra e dalla crisi, e il mondo bolscevico, dovremmo risolverci, non senza angosce, per il secondo”. Si aggiunga che, in seguito, questa medesima stretta di angoscia si allenterà alquanto nel suo petto, e proprio per il varco di un giudizio meno duro e puntuto si insinuerà nell’aprile del 1937 quel grano di indulgenza (e forse di simpatia) che gli farà dire così: “ciò che costituisce la originalità e la gloria indistruttibile [della rivoluzione russa] è la sua razionalità… Per la prima volta ci si è proposti di sottoporre alla ragione il mondo della natura e della produzione”, per cui “la rivoluzione russa inizia una civiltà nuova verso cui l’Occidente, per vie sue proprie è destinato a convergere”. Non ho bisogno di far notare quale distanza separi l’inizio dalla fine. Solo, poiché questa è una intervista che io concedo dopo aver scritto il libro, mi sia concesso di approfittare dell’occasione per confessare che quando ho visto il no cangiato nel sì, quando ho assistito al male che si andava mutando nel bene (o nel quasi-bene) allora mi sono domandato: ma è veramente Rosselli quello che parla così? E mi sono risposto: sì è veramente lui; ma è quel lui che, sia pure per vie ritorte, con andate e ritorni, è nato per scissione e quasi in combattimento col primo se stesso, con pensieri che non solo sono diversi ma contrari e ripugnanti a quelli sostenuti innanzi.

Ne vuole un’altra prova? Prenda il giudizio sul fascismo. Anche ora le pagine di Rosselli vengono messe in subbuglio da una serie di valutazioni diverse, opposte addirittura, che si voltano le spalle tra loro e che quasi non le diresti venute giù dalla penna di uno stesso autore. Prima, fino al 1932, egli condivideva l’analisi pluri-fattoriale di Gobetti, quell’analisi condivideva per la quale il fascismo era il frutto guasto di mali che l’Italia si trascinava dietro dal tempo dei tempi (il fascismo, dunque, quale «autobiografia della nazione»). Poi…

Poi, nel ’34, facendo gomito nelle proprie valutazioni e con un’abbreviatura drastica che s’intonava a meraviglia con l’ortodossia marxiana, pure a lui succederà di dire che il fascismo era la «forma moderna della reazione capitalistica, anzi, la forma ormai tipica di governo verso cui tende in tutti i paesi la classe dominante non appena sente minacciati i suoi interessi». Quale risentito contrasto con la sua prima gioventù! E come si era smarrita quella sua rara bravura a fermare tutte le sfumature e tutte le mezz’ombre ambigue di un fenomeno (il fascismo, appunto) di cui nessuna spiegazione monocausale poteva dar conto e che Rosselli, il primo Rosselli, aveva colto il segreto non solo grazie a Gobetti, ma anche e forse soprattutto grazie a Salvemini (Salvemini, lo ricordo, fu uno dei primi ad avere chiara l’intelligenza delle cose e a dire che no, non si poteva risolvere così semplicemente il fascismo in una superfetazione capitalistica; c’era dell’altro – per es. l’autonomia degli alti burocrati o l’indipendenza della milizia fascista che si era ritagliata uno spazio autonomo anche rispetto agli interessi dei grandi capitani d’industria – dell’altro c’era, duro, pietroso, che non si liquefaceva più nella identificazione economicistica di fascismo e capitalismo).

  • E per quanto riguarda il profilo istituzionale: quale idea di Stato ha Rosselli per l’Italia post dittatura?

Anche qui c’è una svolta. E anche qui la svolta – che altri fanno cadere tra il ’34 e il ’35 – anche qui, secondo me, questa svolta deve essere retrodatata al ’32 (anno fatale, che veramente gli divise in due il corso dei pensieri) quando Rosselli, che fino ad allora aveva fatto girare per il verso giusto la ruota del liberalismo, non vi si ingranerà più e anzi, proprio come succede con i sassi scagliati contro i raggi in movimento, ne verrà rigettato via quasi come un corpo estraneo, refrattario al moto liberale. E tutto questo, guarda caso, sempre per la solita ragione: perchè sul diritto delle opposizioni egli spanderà una mezz’ombra ambigua, una luce crepuscolare ed incerta che di lì in avanti farà di Rosselli uno spirito centrifugo, disancorato, pronto per tutte le partenze. Così è, ad esempio, quando per il post-fascismo egli immaginerà un’assemblea costituente all’interno della quale i partiti avrebbero organizzato la vita degli italiani risorti a nuova esistenza.

Già, i partiti. Ma quale partiti? I partiti della sinistra soltanto, in tutta la gamma delle sue infinite sfumature (trotzkisti, sindacalisti, repubblicani, socialisti liberali, comunisti ecc.) o i partiti dell’intero spettro politico, compresi dunque i conservatori, i liberali di destra e i clericali? La domanda, badi bene, non è battuta col pestello dell’animosità ma è solo l’interrogativo di chi vuol vedere bene dove andasse a parare Rosselli, quando – prima timidamente nel ’32; poi a lettere scolpite nel ’33 – prenderà a discorrere del suo movimento, del movimento cioè di “Giustizia e Libertà”, come dell’organizzazione – cito testualmente – che avrebbe dovuto “sforzarsi di far sorgere e vivere dentro di sé quelli che saranno i partiti di domani”; e poi, perchè nulla sfumasse nell’impreciso, Rosselli aggiungeva: «Giustizia e Libertà» è “l’anticipazione in miniatura del nuovo Stato integralmente libero di domani”. Le pare poco questa affermazione? A me no, non pare poco.

Riflettiamoci un momento: se «Giustizia e Libertà» è “l’anticipazione in miniatura” del nuovo Stato, se dunque «G.L.» è l’anticipazione rimpicciolita dello Stato nuovo, ne viene che lo Stato nuovo sarà la realizzazione ingigantita di «G.L.»; insomma: se «G.L.» è lo Stato in piccolo, lo Stato sarà «G.L.» in grande. Ora, poiché sotto il tetto di Giustizia e Libertà trovavano ricovero soltanto le correnti della sinistra (malva, rosa, rosso, scarlatto… sempre sinistra è), e queste correnti sarebbero poi divenute i partiti dello Stato futuro, ne segue che nello Stato “libero” del futuro, vi sarebbero stati soltanto partiti di sinistra; certo nella variopinta efflorescenza delle loro sfumature; certo nella bella varietà del loro meticciato ideologico, ma sempre e unicamente di sinistra. E la destra? Dove finisce la destra? Che fine fanno i “destri” in questa organizzazione che Rosselli si era compiaciuto di presentare come “integralmente liberale”? Quale liberalismo, se proprio sul punto decantato e di più luce della tradizione liberale – il diritto delle opposizioni – si spandeva un’ombra ognora più larga?

Tanto larga era quast’ombra che Gaetano Salvemini, il quale aveva una specie di fiuto vivo per gli sbandamenti illiberali dei suoi amici, prese a tempestare con richieste di chiarimenti, con verifiche di tenute e con prove di collaudo che poi, gira e rigira, si assiepavano tutte intorno ad un solo interrogativo: quando diverrete forti – chiedeva Salvemini a Rosselli – sarete disposti a riconoscere ai vostri avversari quello stesso diritto al dissenso che essi vi riconobbero quando voi eravate deboli? Sì o no? E se sì, con quali ritrovati giuridici? Per mezzo di quali istituzioni politiche? Rosselli, che pure in precedenza aveva indicato con precisione il rotondo e il peso delle libertà, prese a nicchiare dietro le formule di cautela dei “forse”, dei “chissà” e dei “dipende”. “Dipende”. “Dipende” dalla storia: sarà la storia, nel suo incontenibile e imprevedibile farsi, sarà la Storia che se le darà da sé le proprie istituzioni. E dunque… E dunque – leggero e volante proseguiva Rosselli – lasciate stare i progetti (“eccessi programmatici”, così li trafiggeva) mettete da banda l’ingegneria costituzionale perchè, progetto o non progetto, ingegneri o non ingegneri, il mondo rimarrà felicemente rotondo e non c’è linea retta che possa veramente e definitivamente spianarlo. Che era, poi, come Lei può ben capire, l’omaggio postumo a certo liberalismo di stampo storicistico, e precisamente a quel liberalismo che – rapito tutto nella Storia – le si consegnava nudo, svestito di ogni armatura giuridica e spoglio di qualunque corazza istituzionale. Posso dirlo con l’icastica rapidità dei nomi? Dietro Rosselli, dietro questo secondo Rosselli, non c’è più né Salvemini né, salendo ancora più su, Stuart Mill. Nè l’uno né l’altro c’è. No: dietro, e magari dentro la seconda parte di Rosselli, c’è Benedetto Croce. E questa, veramente, è la differenza che… fa la differenza.

Tante difficoltà, tante incertezze, tante anomalie di Rosselli – l’anomalia, per esempio, di credere conciliabile la libertà anche con assetti economici refrattari al diritto di proprietà – tante anomalie, si spiegano proprio così: appunto con l’”anomalo” liberalismo di Benedetto Croce. Io, almeno, me le sono spiegate così. Ho fatto bene? Ho fatto male? Al mio lettore, che vorrei senza furori di setta, la risposta calma, riposata (e, se possibile, anche ragionata).