di Augusto Di Benedetto >> Definire la Confessio…
La definizione della psyché nel De Anima
di Marcello Zanatta >
La concezione della psyché elaborata da Aristotele nel De anima manifesta per diversi aspetti un intento polemico e una netta contrapposizione nei confronti delle dottrine formulate da Platone sullo stesso tema. Pur presentando la filosofia di quest’ultimo, com’è noto, una decisa componente evolutiva, è possibile delineare alcune costanti della sua psicologia, fondate sull’assunto che l’anima è un elemento divino nell’uomo che si contrappone al corpo, sopravvivendogli. Tutti questi caratteri sono presenti già nel Gorgia, che impernia il dibattito sul valore della retorica sull’assunto che nell’uomo nulla è più importante dell’anima, e che per questo di essa occorre avere la massima cura. L’arte che si occupa di questo compito è la politica, e la retorica è svalutata in quanto mera contraffazione (kolakeia) di una sua parte, la giustizia. Danneggiata e rovinata da una condotta ingiusta, l’anima può infatti riacquistare il proprio stato di salute solo sottoponendosi a un’equa punizione, e proprio perché la retorica è un mezzo per evitare tale rimedio è sconveniente e nociva (478 b-480 d). La distinzione tra anima e corpo (464 a), che permette di differenziare le arti che guariscono e preservano lo stato di salute di ciascuno di essi (ginnastica e medicina per il corpo; arte della legislazione e giustizia per l’anima) e le rispettive ingannevoli imitazioni (la cosmesi e la culinaria; la sofistica e la retorica), è fondata sulla tesi che non il corpo, bensì l’anima comanda e distingue (462 b-466 a). Il contrasto è accentuato quando Socrate, discutendo con Callicle, riporta l’affermazione di un sapiente italico o siculo per cui il corpo (soma) è una tomba (sema) Il dialogo platonico stabilisce inoltre che l’anima è il soggetto delle passioni. Facile a essere persuasa e ingannata, essa è, nei dissennati, insaziabile, e spinge a cercare una soddisfazione impossibile, come illustra l’immagine dell’otre forato che va riempito di continuo (493a-b). Lo stato dell’anima che dev’essere perseguito è costituito dall’ordine e dall’armonia, analogamente a quanto accade per ogni altra cosa (504 a; 570a). La parte conclusiva dell’opera (523 a ss.) mostra quindi quanto sia vano temere di essere sopraffatti durante la vita terrena, trascurando per questo il bene e la giustizia: l’anima, sopravvivendo alla separazione dal corpo che avviene con la morte (524 b), sarà giudicata in maniera infallibile, ottenendo il giusto premio o la giusta punizione in base al suo stato di salute e integrità.
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Su questa stessa linea di pensiero sembra collocabile il Fedone, che tematizza espressamente le nozioni di vita, corpo e anima nella discussione con cui Socrate, poco prima di morire, cerca di convincere gli amici e gli allievi che sarebbe errato compiangerlo o dispiacersi per lui, in quanto il filosofo si augura di morire. La morte, ancora una volta, non è che la separazione dell’anima dal corpo, visto come una prigione in cui gli uomini sono stati relegati dagli dèi (62b 4 ss.). Esso, in aggiunta, è ostacolo e impedimento alla conoscenza, che avviene attraverso una sorta di raccoglimento dell’anima in se stessa (65 b 5-66 a 1), e pertanto anche durante la vita il filosofo non fa che esercitarsi alla morte (67 e 4 ss.). La persuasione che Socrate desidera ingenerare viene però a scontrarsi con la «resistenza» di Simmia e Cebete. A differenza di quanto avveniva nel Gorgia, quindi, vengono proposte tre prove per dimostrare l’immortalità dell’anima. In base a esse, l’anima risulta essenzialmente vivente e capace di conoscenza e reminiscenza che trascendono la vita terrena[1]. Anche in questo dialogo si offre quindi una descrizione mitica della sua sorte, decisa da un giudizio imparziale e ineluttabile che ha luogo dopo la morte (107c-114c 8). L’anima è quindi un’entità autonoma, immortale e indistruttibile in quanto essenzialmente vivente. Imprigionata nel corpo, è capace di conoscere da sé stessa le idee e ad esse affine.
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