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ARCADIA E APOCALISSE. Il rifiuto della modernità
In questo senso ha perfettamente ragione Luciano Pellicani quando scrive che la storia dell’Europa a partire dalla rivoluzione comunale – che segna l’inizio non solo del capitalismo ma anche del processo di modernizzazione – è stata fondamentalmente, «la storia della lotta della società civile contro le pretese autocratiche dello Stato: una lotta tesa a perimetrare la giurisdizione potestativa del Principe attraverso due operazione strettamente connesse l’una all’altra: a) la separazione della proprietà dalla sovranità, della ricchezza privata dalla ricchezza collettiva, e b) l’istituzionalizzazione del governo della legge. Grazie alla prima, l’Europa occidentale è fuoriuscita dalla logica del patrimonialismo, basata sulle pretese del Principe di avere un diritto personale assoluto sui beni dei sudditi; grazie alla seconda, essa è riuscita a fissare limiti alla sfera di intervento del potere pubblico e regole al suo modus operandi. Non solo. A partire dal momento in cui si è affermato il rule of law, lo Stato è stato costretto a riconoscere che esistono diritti soggettivi (…) che esso è tenuto a rispettare. Fra tali diritti soggettivi, decisivo è stato il diritto del proprietario di usare e abusare della sua proprietà con totale esclusione di terzi, ivi compreso lo Stato medesimo. Il che ha avuto conseguenze di enorme portata poiché, precisamente nella misura in cui la proprietà privata è stata considerata (…) “sacra e inviolabile”, è accaduto che il mercato ha potuto conquistare progressivamente il centro della civiltà europea, mentre alla rovescia, nelle grandi civiltà orientali esso non è riuscito a superare la fase del precapitalismo»[9].
Ma vi è un ulteriore aspetto della modernizzazione che deve essere messo in evidenza ed è quello che può essere definito della progressiva espansione dell’uso della ragione o del metodo scientifico, ai più svariati ambiti dall’economia al diritto, dalla teologia alle regole della vita associata.
Per dirla diversamente, modernizzazione è anche il trionfo della ragione sulla tradizione, della fenomenologia kantiana sulle teodicee religiose, dell’illuminismo su ogni forma di misticismo, spiritualismo, o ontologismo. In questo senso, Pellicani definisce la Modernità «una esplorazione permanente, grazie alla quale le forme di vita tradizionali vengono a mano a mano fagocitate e sostituite da forme di vita del tutto nuove»[10].
Tale progressiva espansione della ragione all’interno di una società chiusa, che si reggeva su una tradizione la cui sacertà era del tutto indimostrabile, ha prodotto un vero e proprio terremoto, che va sotto il nome di secolarizzazione e che ha prodotto la completa evaporazione delle regole di vita e dell’orizzonte esistenziale all’interno del quale erano immersi gli uomini che vivevano sotto la cogenza normativa di una Tradizione vissuta come sacra ed immutabile.
In fin dei conti è proprio questo il dramma esistenziale della morte di Dio, «la catastrofe morale prodotta dal processo di “disincanto dal mondo” la disperazione che nasce quando si constata che “il cielo è vuoto”»[11].
La diffusione dell’Illuminismo ha demolito «ogni forma di animismo, disintegra la “coscienza incantata” e produce una situazione nella quale, per dirla con le parole di Max Weber, gli uomini sono condannati a vivere “senza Dio e senza profeti”. È per questo che gli spiriti assetati di assoluto – fra i quali sono da annoverare senz’altro i “teorici critici”, veri e propri “orfani di Dio”, sono dominati da quella che Horkheim, in un raro momento di lucidità, chiamò la “nostalgia del totalmente altro” – non possono non guardare con orrore all’avanzare dell’illuminismo, che tende progressivamente a creare una forma di vita collettiva priva di valori sacri. Di qui il loro furibondo attacco contro la Modernità, percepita come un perverso trionfo della civiltà materiale su quella spirituale»[12].
Questo è ovviamente il punto di vista degli orfani di Dio. Infatti, le società moderne non sono affatto prive sacro. Del resto non potrebbero esserlo, visto che non vi è possibilità di vita in comune senza un insieme di valori condivisi e vissuti come assoluti.
Ciò che è avvenuto con il passaggio dalle società tradizionali alle società moderne è la sostituzione della fede trascendente dei padri, con una fede del tutto secolare, laica, vale a dire la fede nell’uomo e nella sua capacità di creare progresso. A tale proposito Alain Touraine scrive: «tutte le società si sacralizzano, ma le società europee hanno attinto la propria sacralità da sé stesse. Essa non poggia né su un dio né sul movimento della storia e ancora meno su una situazione definita in termini naturali; la morale che elabora e che insegna è puramente civica»[13].
Questo significa che con la scomparsa dell’assoluto religioso, la società ha dovuto ricostruire un altro assoluto, senza il quale non vi è possibilità di vita in comune. Un assoluto immanente e laico: ciò che in Occidente è stato sacralizzato, infatti, con la morte di Dio è l’uomo stesso e la sua capacità di progredire. Breve: la fede pubblica della società aperta è la fede nel progresso ed il culto dell’uomo quale produttore di progresso.
A testimonianza di ciò le parole di Stefan Zweig: «L’Ottocento con il suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso “il migliore dei mondi possibili». Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, le loro carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un progresso ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell’età la forza di una religione; si credeva in quel progresso più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli delle scienze e della tecnica – arcangeli del progresso»[14]. Questa, conclude Zweig, era «la religione dei nostri padri, la loro fede in una ascesa rapida e perenne dell’umanità»[15].
In maniera del tutto laica, pertanto, in questo modo la società aperta assolve a uno dei bisogni essenziali per l’uomo che non ha più alle spalle la Tradizione della società chiusa: la necessità di guardare con speranza al futuro, la necessità dell’ottimismo. E questo perché se l’uomo della società tradizionale sente la tradizione come una «vis a tergo»[16], l’uomo della società aperta è costantemente inclinato sul futuro. Questo nucleo di valori vissuti come infalsificabili e certi è il collante della società aperta: è l’aria che tiene in vita, quasi tutti, i suoi cittadini[17]. Perché quasi tutti?
Perché, storicamente e, verrebbe da dire, fisiologicamente, il processo di modernizzazione e in particolare il processo di secolarizzazione, che causa l’evaporazione della sacra tradizione delle società chiusa, ha generato una reazione[18], che si è tradotta nel tentativo di riannodare il cordone ombelicale, di ricucire la confortevole placenta della società chiusa.
In altre parole, la società aperta genera fisiologicamente individui anomici: sono gli orfani di Dio, i terremotati della società chiusa, coloro che sono disgustati dalla laicità delle verità sacre della società aperta, intristiti dalla vuotezza dei riti democratici e animati da un odio profondo nei confronti della borghesia, che «è l’altro nome della società moderna»[19] e del capitalismo che «più che la creazione d’una classe è la creazione di una società nel senso più globale del termine»[20]. Un tratto distintivo questo che accomuna anche i cosiddetti post-moderni, i cui riferimenti, come giustamente fa rilevare Gagliano, «appartengono ad epoche passate». In questo senso i post-moderni altro non sono che gli ultimi esponenti di quella filone di pensiero che va da Guénon ad Evola, da Heidegger a Vattimo, passando per Emanuele Severino. Ad accomunarli è sempre l’insoddisfazione dei confronti dei valori della laicità moderna ed il disprezzo nei confronti di chi è la causa di tutto ciò.
Disprezzano in altre parole gli agenti – borghesia, capitalismo ed intellettuali laici – che hanno dissacrato la società chiusa, hanno «ucciso Dio» e hanno fatto evaporare dal mondo la certezza di un senso immanente e di un fine ultimo. Odiano questi agenti di modernizzazione e di secolarizzazione perché portatori sani del virus che ha infettato le società sacre tradizionali, la ragione, che è impossibilitata a dare un senso ultimo all’esistente, a dimostrare l’assoluto.
Non può essere altrimenti. Scrive Kant: «è stato precluso alla ragione speculativa ogni progresso in questo campo del soprasensibile»[21], poiché «noi non possiamo avere conoscenza di alcun oggetto in quanto cosa in sé stessa, ma solo in quanto esso è oggetto dell’intuizione sensibile, cioè in quanto apparenza. Di qui consegue allora certamente, che ogni possibile conoscenza speculativa della ragione è ristretta ai semplici oggetti dell’esperienza»[22].
Questa è la sorgente di un dramma esistenziale che produce di continuo frustrazione: «perché allora la natura ha afflitto la nostra ragione con l’incessante aspirazione a seguire le tracce di tale cammino, come se si trattasse di uno dei suoi più importanti interessi. Di più, noi abbiamo davvero scarso motivo di riporre fiducia nella nostra ragione, se in questo campo, che è uno dei più importanti per il nostro desiderio di sapere, essa non soltanto ci abbandona, ma ci tiene a bada con miraggi ed alla fine ci inganna!»[23]
Detto in altri termini, l’uomo è lacerato da opposte e contraddittorie tensioni, che sono parte naturalmente costitutiva di sé: la tensione verso il cielo e l’essere irrimediabilmente inchiodato alla terra; o, parafrasando Kant, una disposizione naturale alla metafisica e un’altrettanta naturale ragione fenomenologica.
E questo significa che nonostante la ragione umana non possa giungere ad alcuna certezza metafisica l’uomo ontologicamente tende ad essere un «arrampicatore metafisico»[24], dato che «una qualche metafisica esisterà sempre negli uomini»[25], che non potrà tuttavia che essere basata su «asserzioni infondate»[26].
Kant e l’Illuminismo pertanto recidono qualsiasi legame razionale tra Dio e l’uomo. Questi non ha nessuno strumento razionale per dimostrare la necessità dell’esistenza di un ente che sfugge alla caducità, il che d’altra parte significa che recide qualsiasi possibilità all’uomo di ricercare una causa dell’esistenza del mondo, e quindi un fine, e quindi il perché della vita stessa. In breve, l’intelletto umano non ha nessuno strumento per una dimostrazione razionale delle ragioni della vita e del mondo.
Il che significa che la natura è muta circa le domande ultime dell’uomo. Di qui il grande scisma tra fede e ragione: «ho dovuto eliminare il sapere – dice Kant – per fare posto alla fede»[27].
Ora, visto che l’uomo non può vivere senza fede, il passaggio consequenziale e razionale è, come si è visto, la sostituzione di un sacro trascendente (un ente supremo fuori dal mondo), con un sacro immanente (la fede nell’uomo), quindi il passaggio dalla fede sacra della società chiusa, alla fede laica della società aperta.
È normale che questo surrogato «troppo umano» del sacro non possa andare giù a qualcuno, di qui la comparsa degli orfani di Dio, gli anomici della società aperta, coloro
cioè che non hanno introiettato il nuovo sacro, e «provano un violento disgusto per tutti i valori esistenti»[28], valori che sono stati elaborati «dalla mentalità e dai principi morali della borghesia»[29]. Per tale motivo, gli anomici della società aperta vivono il loro stato come un dramma esistenziale: lo smarrimento in un mondo impossibilitato a dare la certezza di un telos, quindi dominato dal nichilismo.
La loro riflessione è, quindi, prima di tutto, una condoglianza cui segue un processo che può portare ad una elaborazione del lutto in senso stoico (Max Weber e per certi versi lo stesso Nietzsche) o ad un rifiuto del lutto e alla ricerca comunque di un senso.
Se fuori dal mondo la ragione non può andare, se la natura è muta, resta una quarta via: la storia. Di qui il tentativo di cogliere un senso immanente nel dispiegarsi della storia umana, in altre parole lo storicismo di Platone e Marx: l’inversione dell’esistente per ritornare alla Repubblica per il primo, l’accelerazione dell’esistente per andare verso la società comunista per il secondo.
In questo senso, ha ragione Gagliano nel ritenere che vi è una perfetta identità tra Arcadici ed Apocalittici, ad accomunarli non è infatti solo il rifiuto dell’esistente ma anche il punto di arrivo, vale a dire una società risacralizzata dalla quale sono stati espunti gli agenti della dissacrazione, ricorrendo ad un qualche equivalente funzionale, sia esso il volk, la razza, la classe lo spirito, lo stato. Un qualche surrogato comunque in grado di puntellare quell’ansia di assoluto, lesionata dalla evaporazione della fede dei padri[30].
A tale riguardo è assai utile la citazione che Gagliano fa di Curzio Malaparte che nel 1921 scriveva che il movimento rivoluzionario fascista avrebbe dovuto essere semplicemente il controcanto del movimento rivoluzionario sovietico sulla strada dell’opposizione al moderno e all’europeo, cioè all’ «occidentale». Qui emerge con evidenza come Arcadici ed Apocalittici perseguano lo stesso ed identico fine, vale a dire la risacralizzazione del mondo e la chiusura della società aperta. Non a caso Pellicani considera il nazismo ed il comunismo come “due specie diverse di uno stesso genus – il totalitarismo”, animata dall’obiettivo di “produrre una mutazione totius substantiae della realtà”[31].
Inoltre, vale la pena far notare che il passaggio dalla società tradizionale alla modernità ha una doppia connotazione. Da un alto è un evento storicamente dato. A tale proposito basti pensare al fatto che la coscienza europea, a partire dalla fine del XVIII secolo fu traumatizzata da tre sconvolgenti processi storici: a) la Rivoluzione francese, con la quale iniziò la guerra fra i Geni invisibili della Città; b) la rivoluzione industriale, che mise in moto la macchina della mercatizzazione universale; c) la crisi del sacro, conseguenza inevitabile della devastante critica illuministica del cristianesimo: «Questi tre processi – scrive Pellicani -, intrecciandosi, crearono uno stato di anomia particolarmente acuto e intensificarono il desiderio di un ordine di cose radicalmente altro. (…) Questa fu percepita di generazione in generazione come la soluzione globale della triplice crisi che l’Europa stava vivendo – la crisi di legittimazione, la crisi di redistribuzione, e la crisi di secolarizzazione -, la grande operazione chirurgica che avrebbe finalmente risanato il corpo sociale»[32].
Dall’altro è un fenomeno esistenziale che ogni essere umano nella propria vita sperimenta. Basti pensare al distacco dalla madre del bambino o dal nucleo familiare dell’adolescente, o all’ingresso nella vita adulta. Inoltre, esiste sempre una discrepanza tra le aspettative individuali, introiettate attraverso il processo di socializzazione ed impastate con le proprie attitudini ed ambizioni, e la realtà, vale a dire tra il futuro immaginato ed il futuro realizzato. Ciò vuol dire che la produzione di un certo tasso di anomia è un fenomeno quasi fisiologico.
A ciò si aggiunga un ulteriore punto. Tra gli elementi della modernità oltre alla nomocrazia o imperio della legge, all’universalizzazione dei diritti di cittadinanza, all’istituzionalizzazione del mutamento, alla secolarizzazione culturale, all’autonomia dei sottoinsiemi e alla razionalizzazione, vi è un elemento che va tenuto nella massima considerazione e cioè l’azione elettiva che sostituisce l’azione prescrittiva.
Che cosa si deve intendere per azione elettiva? Il dovere che ciascun membro di una società aperta ha di scegliere da sé il proprio destino, di dare da sé, sulla base delle sole proprie gambe un senso alla propria esistenza. A tale proposito Pellicani scrive: «L’azione elettiva è forse l’elemento culturale più tipico della Modernità. Nella società tradizionale l’azione elettiva è ridotta ai minimi termini in quanto la Tradizione ha una irresistibile potenza normativa. Essa impera su tutto e su tutti e stabilisce in anticipo quale è lo status di ciascun individuo e quali sono i compiti che egli è tenuto a svolgere»[33]. Di qui il «disagio della civiltà»[34] e la conseguente «fuga dalla libertà», alla ricerca di un mondo che sottragga l’individuo dal dovere angosciante di dover scegliere.
Quanti sono coloro che vivono con angoscia questo dovere di scegliere? È possibile ipotizzare che nelle fasi di normalità, quando il nucleo della fede laica della società aperta, vale a dire la fede nell’uomo e nel progresso è salda sugli alteri pubblici, il numero di costoro sia molto basso. Al contrario, quando sotto i colpi di eventi traumatici, crisi economiche, guerre, quella fede vacilla allora la schiera di coloro che perdono l’orientamento e non riescono più a scegliere potrebbe ampliarsi. In questo senso si può dire che la società moderna è come una trottola che finché gira sul perno della sua fede secolare, producendo sviluppo economico e progresso sociale, resta in piedi, se il nucleo di quei valori, per eventi traumatici, si spacca, allora il perno su cui essa gira viene meno e la società collassa.
Infatti, finché i valori laici della società aperta (fede nel progresso e nell’umano) imperano, le analisi e i programmi degli anomici restano voci di singoli nel deserto. Ma quando la fede secolare entra in crisi, i cittadini della società aperta diventano una massa sbandata, impaurita e angosciata, in cui gli uomini perdono «definitivamente il loro posto nell’universo»[35]. La società aperta si trasforma così in una «società atomizzata» e cioè una società «in cui gli individui vivono insieme non avendo nulla in comune, senza condividere una porzione visibile e tangibile del mondo»[36]. A questo punto, visto che nessuno può vivere senza una fede che dia un senso al futuro, le coscienze collettive entrano in sintonia con le voci dei profeti del deserto, degli orfani di dio, ne vivono lo sconforto e lo smarrimento per la perdita della fede e diventano sensibili agli appelli palingenetico-reazionari («solo gli individui isolati possono essere dominati totalmente»[37]), ritornando subito a rifugiarsi nel tepore deresponsabilizzante della società chiusa. È già accaduto[38] e non è detto che non possa accadere nuovamente.
[1] M. Gauchet, La democrazia da una crisi all’altra, Ipermedium libri, Santa Maria C.V. 2009, p. 25.
[2] Si veda, L. Pellicani, L’occidente e i suoi nemici, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015 e G. Berti, N. Mastrolia, L. Pellicani, I difensori dell’Occidente, Licosia, Ogliastro Cilento, 2016.
[3] Si veda, A. Deaton, La grande fuga, Il Mulino, Bologna, 2015.
[4] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 267
[5] Ivi, p. 269
[6] L. Pellicani, Modernizzazione e secolarizzazione, Il Saggiatore, Milano, 1997, pp. 7-8
[7] L. Pellicani, Dalla società sacra alla società secolare, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, p. 86
[8] L. Pellicani, La genesi del capitalismo e l’origine della modernità, Marco Editore, Lungo di Cosenza, 2009, pp. 313-340. Si veda anche L. Pellicani, Le sorgenti della vita, Edizioni Seam, Roma, 1997 in particolare il capitolo quarto e decimo.
[9] L. Pellicani, Dalla società aperta alla società chiusa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 129
[10] L. Pellicani, Modernizzazione e secolarizzazione, Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 9.
[11] L. Pellicani, Cattivi maestri della sinistra italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017, pp. 62-63
[12] Ivi, p. 275
[13] A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano, 2008, p. 66
[14] S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 2011, pp. 10-11
[15] Ibidem
[16] J. Ortega y Gasset, Un’interpretazione della storia universale, Sugarco, Milano, 1978, p. 143.
[17] Si noti che questo è un punto che è chiarissimo agli anti-moderni. Guénon parla di una «fede in un progresso indefinito», considerata come «una specie di dogma infallibile e indiscutibile», R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 2003, p. 17
[18] «Sin dai suoi primi vagiti il modo di produzione capitalistico ha operato come un generatore permanente di anomia e di alienazione», L. Pellicani, La società dei giusti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012 p. 11.
[19] F. Furet, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano 1996, p. 12.
[20] Ivi, p. 15
[21] Ivi, pp. 26-27
[22] Ivi, p. 30
[23] Ivi, p. 23.
[24] L. Pellicani, La società dei giusti, cit
[25] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., vol. I, p. 64.
[26] Ivi, p. 65. Si veda anche L. Pellicani, Dalla città sacra alla città secolare, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, p. 131
[27] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., vol. I, p. 33.
[28] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, p. 453.
[29] Ivi, p. 454.
[30] Si veda L. Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010.
[31] L. Pellicani, Lenin e Hitler, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 2, 7.
[32] L. Pellicani, La società dei giusti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, p. 125
[33] L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, cit. p. 276
[34] S. Freud, Il disagio della civiltà, Einaudi, Torino, 2010
[35] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. 458.
[36] H. Arendt, Archivio Arendt, Feltrinelli, Milano 2003, vol. II, p. 127
[37] Ibidem
[38] E. Gentile, L’apocalisse della modernità, Mondadori, Milano 2008, p. 161.
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