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Roberto Finelli, l’astrazione reale e la riconquista della nostra individualità
Di Carlo Scognamiglio >
Roberto Finelli è per molti aspetti il filosofo italiano contemporaneo che ha più tenacemente tentato, nel corso degli anni, uno studio attivo del pensiero di Marx, senza eludere un confronto con la storia del marxismo, e si è sforzato non solo di comprendere a fondo le ragioni filosofiche di quella critica dell’economia politica, ma ha saputo continuare a cercarne una rivitalizzazione, eludendo strategie liquidatorie o banalmente ri-propositive. Nel suo ultimo libro, Un parricidio compiuto: il confronto finale di Marx con Hegel (Jaca Book, Milano 2014), Finelli tira le somme di un impegno analitico trentennale, il cui primo merito è senz’altro quello di sapersi distinguere da una non sempre felice tradizione degli studi marxiani in Italia.
Certamente il barbuto autore del Capitale è riuscito in qualche modo a permanere nell’attenzione analitica degli studiosi italiani anche dopo l’Ottantanove, sebbene siano stati in molti a cogliere l’occasione – com’è noto – per interpretare rigorosamente la lezione dialettica, ribaltando la propria prospettiva di religiosa fascinazione giovanile in una meglio gestibile distanza critica, annunciata dall’albeggiare del nuovo decennio. In alcuni corridoi delle nostre università, nel volgere di pochi anni, la filosofia di Marx veniva spogliata di quella peraltro oltraggiosa maschera da passe-partout che gli era stata disgraziatamente cucito addosso, per incarnare improvvisamente il ruolo di responsabile morale delle atrocità del regime sovietico. Al di là dell’improbabile liceità logica – specie in un dibattito tra filosofi – di una tale connessione causale, i marxisti pentiti degli anni Novanta hanno sepolto i propri “errori” giovanili seguendo pressappoco tre distinte strategie: la capriola, intesa come sposalizio repentino con i grandi classici del pensiero liberale e liberista; la provocazione, perseguita mediante la sostituzione dei padri del marxismo con autori provenienti dall’area indicata da Lukács come “irrazionalista” (Nietzsche, Heidegger, Schmitt); la scappatoia, cioè l’adozione di nuovi modelli concettuali che non evidenziassero una rottura radicale tra un prima e un dopo, per non rivelare chiaramente la propria diversione (ma anche perché “non si sa mai”, il marxismo avrebbe potuto tornare a essere utile da un momento all’altro), e concentrandosi su quei “beni rifugio” in cui consistono ad esempio gli studi fenomenologici, politicamente innocui, e tali da poter essere serviti con ogni tipo di condimento.
Coloro che invece hanno tentato di mantenere un contatto con Marx, ma soprattutto con l’idea del superamento del sistema capitalistico, come prontamente segnala Finelli nell’introduzione al suo libro, sono stati disorientati dalle trasformazioni dell’epoca post-fordista, e hanno cercato in vario modo di mettere a punto un diverso marxismo, capace di cogliere le dinamiche e le possibilità di superamento dell’esistente. Le difficoltà derivate da uno smarrirsi dei movimenti di fine anni Sessanta in sterili infantilismi, attraversando poi i tragici momenti del terrorismo, sollecitò la dismissione forse prematura di quelle che da tempo erano state considerate dogmaticamente le chiavi concettuali di una lettura storico-sociale d’impianto marxista, come il feticismo, il rapporto struttura-sovrastruttura o lo stesso materialismo storico. L’abbandono di quel carico teorico lasciava spazio a un marxismo più leggero, meno tedesco e più francese, mediato da autori come Althusser, Lacan, Deleuze e Foucault, «assai meno controllati e rigorosi»1.
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