– > di Guido Seddone intervista Terry Pinkard Professore presso…
Un Viaggio Nel Welfare Europeo: la cittadinanza, il lavoro (produttivo), il reddito
Il «sistema» di precarietà alimenta l’illusione del precario che, se tiene duro, verrà «stabilizzato». E ci deve credere, perché se esce è finito. Inoltre, questa è la regola non scritta che per molto tempo ha fatto da idea regolativa: il fatto crea il diritto. Mettersi in fila e aspettare che venga il proprio momento e intanto dimostrare fedeltà e rispetto. Il merito non c’entra, anzi può essere pericoloso, può generare invidie, competizioni, risentimenti. Il «privato» dovrebbe essere più a contatto con il «mercato»; ma in realtà non sempre vivrebbe senza connessioni e favori «contestuali». Nel «pubblico» la gavetta infinita è indirizzata, invece, a conseguire il (paradossale) diritto a un privilegio: essere il «candidato interno» al prossimo concorso, abbastanza bravo da essere utile, abbastanza modesto e addomesticato da non mettere in ombra gli altri. Non dovrebbe accadere, non sarebbe giusto: tuttavia, molti non solo accettano la situazione ma la interiorizzano, pensano proprio che sia giusto. Ritengono di aver maturato un diritto. La scorciatoia diventa così la via maestra, e la via maestra non porta da nessuna parte. Nel fatto-che-crea-il-diritto si annida una grande ingiustizia. Ma bisogna saperla riconoscere, e non molti sono disposti a farlo.
Un grande mutamento è avvenuto sul finire degli anni Ottanta: piano piano è tramontata proprio quella legge non scritta del fatto che crea il diritto che era stata la stella polare delle generazioni che hanno preceduto il grande precariato di massa. «Metterci il cappello» era uno dei più funzionali ascensori sociali, ma poiché era una regola non scritta, non c’è stato un momento nel quale essa ha cessato pubblicamente di esistere: una regola non scritta, del resto, non può essere abrogata. Così in molti si sono illusi che fosse ancora in vigore, e quando si sono accorti dell’errore, era ormai troppo tardi. Molti genitori ci contavano. Vedrai, tu entra, poi ti stabilizzi. Era la loro certezza; era successo nella loro generazione infinite volte. Certo, si era gridato allo scandalo ogni volta, ma poi tutto si era risolto nella complicità generale. I grandi sindacati amministravano – e ancora amministrano – montagne di situazioni di questo genere; un bel bacino di anime al purgatorio che attendevano il loro turno in lunghe graduatorie. Intanto intorno dilagava il lavoro nero e l’imbroglio.
E Antonio? Ha conseguito tutti i diplomi d’inglese che gli servivano, ora sono un lontano ricordo degli inizi. Ha fatto vari lavori. La grande sfida è stata quella dell’università, in Inghilterra, con dieci anni di ritardo. E nonostante avesse passato i trenta, ce la fa; non solo si laurea, ma inizia a tenere dei corsi all’università. Poi lascia l’Inghilterra per intraprendere un’importante carriera a Bruxelles.
Una storia emblematica che, se non fosse vera, apparirebbe fin troppo didascalica. Il caso di Antonio, va da sé, non può essere generalizzato. È però evidente che, senza the dole, senza il reddito minimo garantito, non sarebbe stato possibile per lui cambiare vita.
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