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Una nota su “Aristotelian Social Democracy” di Martha C. Nussbaum
di Annalisa Arci >
Amore di sé e Democrazia.
Una nota su “Aristotelian Social Democracy” di Martha C. Nussbaum //
Migliorare le condizioni di vita degli individui, formare cittadini prima che lavoratori, favorire la realizzazione personale e lo sviluppo dell’umanità all’interno di una società plurale e multiculturale. Ecco quale dovrebbe essere il fine primario della politica. Se questo è vero, la politica non può sottrarsi al confronto con la filosofia. Uno dei possibili livelli su cui si gioca questa tensione dialettica è individuato da Martha C. Nussbaum in un saggio pubblicato nel 1990, Aristotelian Social Democracy (tradotto in italiano e comparso nella raccolta Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, 2005).
Si tratta del pensiero etico e politico di Aristotele e, più in generale, delle proposte che la filosofia greca ci ha lasciato in eredità attraverso i tragici, Platone, i Cinici e gli Stoici. Mi soffermerò brevemente su una tesi di Nussbaum, la critica a John Rawls, per concludere con un suggerimento che coinvolge la ben nota definizione di uomo come animale politico e che potrebbe rendere meno stereotipata l’immagine di Aristotele.
§1- Aristotele e il Secondo Principio di Rawls – In Aristotelian Social Democracy Nussbaum ritiene che esista una stretta relazione tra il bene per l’uomo e il bene collettivo o buon governo. L’obiettivo principale di Aristotele consisterebbe nel mettere a disposizione di ciascuno le risorse materiali, istituzionali ed educative in cui scegliere il proprio futuro, in cui sviluppare al massimo le proprie capacità e vivere bene. Evidentemente, la politeia migliore è quella in cui ciascuno può vivere una vita buona. Ora, per una teoria che voglia dirsi politica il problema consiste appunto nel capire che cosa significhi vita buona per l’uomo. Secondo Aristotele il bene supremo si identifica con la felicità. La felicità è lo stato che ci accompagna quando realizziamo “la parte migliore di noi”, la parte razionale della nostra anima; la felicità consiste nell’esercizio stabile delle virtù dianoetiche e, in particolare, della sapienza.
Ma non basta. È certamente vero che l’ideale aristotelico è l’ideale del sapiente e della ricerca di un principio di intelligibilità nella realtà, ma sarebbe semplicistico concludere abbracciando qualcosa di simile all’intellettualismo socratico. Essere felici non significa solo esercitare l’attività teoretica; sono infatti necessari numerosi beni materiali che, banalmente, ci permettono di svolgere questa attività. Che dire, poi, dell’amicizia (così importante per Aristotele), dell’amore, dei figli, del denaro, della salute e di tutto il resto? Il passaggio alla dimensione della polis rende ancora più evidente che possiamo raggiungere il bene solo se ci sono determinate condizioni a permettercelo. Ecco qual è lo spazio che la politica può (o forse deve) ritagliarsi.
Nussbaum è molto netta su questo punto. Le critiche che rivolge alle idee di Rawls si situano all’interno di questo quadro teorico ma incorporano una forzatura poiché paiono avvicinare troppo Aristotele agli ideali socialisti. Come è noto, le teorie socialiste affermano che la proprietà comune e l’uguaglianza nella distribuzione sono condizioni necessarie per una società ben ordinata e buona. Per esempio, il Secondo Principio di Rawls (enunciato in Una teoria della giustizia) mira a migliorare le condizioni del “peggioramento”, scrive la studiosa, tollerando le disuguaglianze solo a vantaggio dei gruppi più svantaggiati. Nussbaum è giustamente critica su questo punto e si (ci) chiede: quali sono le sfere della vita umana in relazione alle quali le risorse vanno distribuite? La domanda è tutt’altro che banale! Tutt’altro che banale è poi la posizione di Aristotele.
Il Secondo Principio di Rawls sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, ad esempio nella distribuzione del potere e della ricchezza, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ognuno (in particolare per i membri meno avvantaggiati della società) e se sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti. Tuttavia, la teoria di Rawls si basa su concetti specifici o, direi meglio, su indicatori e parametri economici come la tassazione, la ricchezza e il reddito, costruendosi da una prospettiva di scelta razionale (muovendo quasi dalla creazione di una situazione ipotetica di stampo kantiano). È accettabile? O, meglio, è una posizione priva di criticità? Nussbaum ne ravvisa alcune, ma la più interessante è quella che esplicitamente chiama in causa Aristotele.
Nussbaum si serve di Aristotele per superare il pregiudizio kantiano (e rawlsiano) insito nella soluzione proposta qui sopra, dato che ricchezza, reddito e averi non sono semplicemente in sé, direbbe lo Stagirita. Cosa vuol dire? Significa, ad esempio, che in politica si può parlare coerentemente della ricchezza solo in relazione ad altro, mai come “cosa in sé” e che per questa via si respinge ogni a priori in politica, ogni tentativo di porre condizioni preliminari nelle decisioni (come facciamo a stabilire, ad esempio, che cosa vada redistribuito e che cosa invece no?). Insomma, Aristotele direbbe che non abbiamo nessun diritto di fare stipulazioni di sorta, ossia di assumere in anticipo che esistano, ed effettivamente si diano, condizioni specifiche per la vita buona. E come potrebbe essere diversamente se è valida una concezione sostanziale del bene?
Condivido le obiezioni di Nussbaum all’impostazione kantiana di Rawls, ma non condivido granché una lettura di Aristotele implicitamente vicina ad ideali socialisti. Abbiamo capito che il bene è in sé ma le ricchezze possono dirsi tali solo in relazione ad altro; possono essere un bene ma anche un male. Ciò implica anche il riconoscimento di un “pacchetto di beni materiali fondamentali” il cui accesso deve essere garantito a tutti, in tutte le società, per permettere agli uomini una vita felice. Attenzione, si parla di accesso a un bene, non di redistribuzione dello stesso. Non ci sono elementi testuali sufficienti in Aristotele per farne un socialista ante litteram. Invero, la politica deve promuovere e sviluppare le condizioni di base che permettono agli uomini di procurarsi il cibo per sopravvivere, i medicinali per essere sani, una casa per ripararsi dalle intemperie, e così via. Nel linguaggio di Nussbaum, la politica deve legiferare per “creare capacità”. Si ammette dunque una concezione di base del welfare che, però, pare abbastanza ristretta: non è ammesso l’intervento indiscriminato dello Stato a posteriori (e a tutti i livelli) ledendo, ad esempio, la proprietà privata.
§2- Aristotele e l’amore di sé – Modernizzando (e forse tirando un po’ per i capelli) Aristotele possiamo dunque dire che nello Stato le leggi devono metterci tutti quanti nelle condizioni di accedere ai beni (e dunque al mercato), e devono metterci nelle condizioni di sviluppare le nostre attitudini e capacità al fine di essere felici. Lo Stato deve consentire lo sviluppo dell’individuo al punto da farne un cittadino consapevole e un elemento attivo all’interno di un sistema economico concorrenziale. L’idea è coerente con la concezione di individuo che emerge dalle opere di Aristotele, come un essere vivente dotato di una serie di qualità, caratteristiche e determinazioni naturali, desideri, attitudini e capacità, che ne fanno un buon candidato per diventare, nella polis, un animale politico (zoon politikòn).
Da una lettura incrociata dei testi aristotelici, in particolare della Politica e di quei passi dell’Etica Nicomachea dedicati all’amore di sé o egoismo (IX, 8) emerge una definizione di uomo un po’ meno stereotipata e meno appiattita al solito adagio dell’animale politico (tanto caro al comunitarismo e al socialismo). L’uomo per natura è un essere politikòn, politico, sociale o socievole (Politica, I.2,1253a). L’uomo per natura vive nella polis, instaura rapporti “politici” e si occupa della polis (contro ogni deriva moderna di antipolitica e contro ogni idea solipsistica del filosofo o epicurea). Necessariamente l’uomo instaura nessi di amicizia e philìa con gli altri, è un essere comunitario e non può vivere isolato dagli altri. L’uomo è certamente animale politico, sociale e comunitario, ma perché può esserlo? A quali condizioni può essere proiettato in rapporti intersoggettivi? Tutto il discorso che Nussbaum fa sull’educazione e sull’importanza di formare i giovani all’abitudine alle virtù ha una qualche attinenza con questo discorso. L’uomo può essere un animale politico solo se impara ad esistere e a riconoscerci come individualità, come individualità che ama se stessa, che desidera egoisticamente per sé la virtù.
Nella trattazione dell’amore di sé (o egoismo) Aristotele fa subito una distinzione importante. Di solito si biasima chi ama solo se stesso poiché siamo intrappolati in una concezione negativa dell’amore di sé, come se fosse sinonimo soltanto di amore per ricchezze, potere, piaceri e simili. L’uomo virtuoso, invece, che agisce seguendo il bene, ama sopra ogni altra cosa se stesso appunto perché vuole possedere più di ogni altra cosa le virtù. Esiste dunque un significato negativo ed uno positivo di amore di sé. L’amore di sé, inteso come atteggiamento di chi vuole per sé i più grandi beni e le più grandi virtù e, per questo, si ama massimamente è la base per la costruzione dell’individuo. Di un individuo che è anche animale politico – con tutto quello che ovviamente comporta – che è anche teso verso l’altro. Ma non solo, né primariamente.
Se ammettiamo la centralità delle pulsioni e degli atteggiamenti psicologici volti all’abitudine delle virtù (e della conoscenza), l’atteggiamento politico diventa una conseguenza non una datità originaria, un per natura, un in quanto natura (nel lessico dello Stagirita). L’individuo come soggetto politico non è mai un ente atomico e unidimensionale gettato nel mondo, questo è certo. Tuttavia, può declinarsi politicamente solo perché Aristotele ha lavorato su quell’ente atomico e unidimensionale che la logica ci consegna (basta leggere le Categorie e confrontarle con il dettato di Metafisica Zeta per farsi un’idea), solo perché Aristotele ha aperto la scatola nera dell’individuo logicamente inteso e l’ha strutturata su più livelli, costruendoci una personalità naturale e civile complessa, dedita alla costruzione del sé, impegnata a coltivare la parte migliore di sé. L’individuo è anzitutto colui che liberamente coltiva se stesso come autentico signore di virtù e solo in quanto signore di virtù potrà aprirsi all’altro e dare il suo contributo nella comunità politica.