Violenza dell’immagine e immagine della violenza

Nancy, Deleuze, Baudrillard

di Alessandro Alfieri


Che rapporto si instaura tra immagine e violenza? E in che senso questo interrogativo riflette  un tema saliente della contemporaneità, soprattutto alla luce del più recente orizzonte mediatico-spettacolare?
Cominciamo a riflettere su cosa sia la “violenza dell’immagine”, e quand’è che un’immagine possa dirsi violenta, aiutandoci, prima di arrivare a Baudrillard, con le riflessioni di altri due noti filosofi francesi, ovvero Jean-Luc Nancy e Gilles Deleuze.

La violenza dell’immagine è una tensione incarnata, un’energia che vibra e che rifiuta di venire risolta o tradotta in linguaggio dichiarativo o in altra immagine. Il suo vibrare, e la sua tensione, sono manifestazioni di irresoluzione: l’immagine mantiene uno scarto perpetuo, e “ci fa violenza” perché “ci interpella”, ci scuote, genera in noi degli shock incidendo sul nostro sistema nervoso. Ma questo discorso non potrebbe valere per ogni tipo di immagine?

Afferma Nancy: «Il tema della violenza dell’immagine va trattato cominciando con il dire che l’immagine è per se stessa violenta […] credo che l’immagine sia violenta di per sé perchè si impone subito con la sua sola presenza, in tutta la sua verità. […] nulla è spiegato, niente è detto, è la forza dell’immagine che comunica. […] io resto davanti all’immagine e sta a me poi riprendere questa violenza e analizzarla, perché per esempio, la violenza dell’immagine non è per niente la stessa cosa dell’immagine della violenza»[1].

Si pone perciò da subito una distinzione tra violenza dell’immagine e immagine della violenza, e la problematica consiste essenzialmente nel fatto che comunque le due distinte prospettive mantengono degli elementi comuni che rischiano di farci confondere. È la violenza che «[…] è sempre una verità che non si dimostra, che non si argomenta, ma che si impone in un colpo solo»[2], perciò è specifica della violenza l’azione sul sistema nervoso, sull’apparato muscolare e più in generale sul corpo di chi subisce. Del 1981 sono le lezioni che Deleuze tenne a Vincennes sulla filosofia di Spinoza, raccolta nel volume Cosa può un corpo? Nella sua originale interpretazione della filosofia spinoziana, assume un ruolo essenziale il concetto di “affezione”. In queste lezioni, Deleuze definisce l’affezione come «[…] uno stato causato dall’azione di un corpo su un altro corpo. […] non si tratta del sole preso in se stesso, ma dell’azione del sole nei vostri confronti. […] Ogni composizione di corpi è un’affezione: l’affectio è la combinazione di due corpi, uno che agisce e l’altro che viene segnato dalla traccia del primo»[3]. Altrove, nel corso delle lezioni, Deleuze definisce l’affezione in relazione al concetto di immagine, divenendo «l’effetto immediato che l’immagine di una cosa ha su di me»[4].

L’affezione in quanto immagine è perciò violenta, di quella violenza in grado di scandire una transizione tra due diversi stati del mio corpo, della mia mente, e conseguentemente del mio orizzonte conoscitivo, comportamentale, esistenziale. L’affezione, ovvero l’immagine efficace, non è l’immagine della violenza, quanto una violenza dell’immagine (basti pensare che per Deleuze, le esemplari immagine-affezione sono le inquadrature dei volti nei film di Ingmar Bergman[5]), in grado di colpirci e destabilizzare il nostro statuto di credenza, spingendoci nel vuoto dell’indeterminato, incentivando la riflessione, l’interrogativo, il dubbio. Come sostiene Nancy «[…] esiste una violenza dell’immagine che può esistere anche in un’immagine estremamente dolce, inoffensiva, come l’immagine di un bacio in un film d’amore; un primissimo piano, per esempio, io credo sia sempre violento»[6].

Ebbene, con l’immagine della violenza che cosa accade? L’immagine della violenza è semplicemente ciò che dichiara di essere, ovvero la riproposizione (attraverso il filtro del medium della specifica modalità espressiva) della violenza, dalla quale siamo lontani e ne possiamo godere perversamente in maniera “catartica”, perché il fascino emanato dall’immagine della catastrofe e della disgrazia riguarda un fattore antropologico e psichico non rinnegabile. Ne è una dimostrazione il successo di un genere cinematografico quale quello del “mockumentario”, ovvero del “falso documentario”: una serie di film horror, thriller o catastrofisti (The blair witch project, Cloverfield, Paranormal activity…) che sfrutta tale condizione per stimolare il pubblico simulando la “diretta”. Dice Nancy: «se ricevo un colpo, lo ricevo e basta, non lo posso analizzare, mentre la violenza dell’immagine, proprio perché si tratta di un’immagine, mi ‘rinvia’ immediatamente, e il rinvio è esso stesso violento, perch{ io sono rinviato a dare un mio parere su questa immagine e a riceverne l’effetto e rispondere a tale effetto»[7].

Così come accade per Deleuze con l’arte di Francis Bacon, ad esempio, la violenza dell’immagine scuote il mio corpo, colpisce il mio fisico, ma per poi interpellare il pensiero che si sente costretto a interpretare l’immagine, a offrirgli senso, con la consapevolezza però che, kantianamente, nessun concetto è in grado di esaurire un’idea o un’immagine estetica.

L’immagine della violenza, che domina il circuito mediatico del web (siti come Rotten colmi di filmati di incidenti, morti violente, malformazioni fisiche) ma soprattutto la programmazione quotidiana della TV generalista, tra le risse e le urla dei talk show e le oscenità dei reality show, istiga al pari della violenza dell’immagine la nostra reazione fisiologico-percettiva, nonché psicologica (il thanatos, la pulsione di morte), ma non giunge alla stimolazione del pensiero che invece resta anestetizzato, passivo, spento, lasciando totale campo libero (come nella pornografia) alla reazione irriflessiva e meccanica. Il pensiero non interviene, neanche per comprendere a posteriori che cos’è ad averlo mosso, come sia potuto accadere, perchè. È manifestazione di totale subordinazione all’immagine, che a quel punto perde anche le specificità proprie dell’immagine: essa non è più immagine, perché non è lì per qualcos’altro dal mero godimento: «[…] quando un’immagine di violenza non si propone come immagine ma, in qualche modo, come realtà, cioè quando esiste una sorta di comunicazione diretta , immediata del godimento della violenza, essa si annulla anche come immagine»[8].

Come sostiene Baudrillard, il Grande Fratello è espressione di appiattimento, per quanto possa gridare, bestemmiare e trasmettere “violenza”. Ma è una violenza senza tensione, perché è completamente sviluppata, sfrenata, a-dialettica; potremmo sostenere che più la violenza domina come contenuto l’immagine, meno quest’ultima potrà esprimere una violenza della prima specie, ovvero un’autentica “tensione”; più l’immagine decide di scaricare la tensione decidendo di mostrare “di più”, di mostrare “tutto”, di puntare a contenuti di ovvia riuscita, più essa abdica alla sua funzione di “affezione”, di apertura di senso, di motore del pensiero.

 Come avevamo detto sopra relativamente al “falso documentario”, col Grande Fratello è evidente la strategia della diretta, che convince lo spettatore (neanche il più ingenuo) di assistere a qualcosa che sta accadendo realmente e spontaneamente in quel preciso momento, senza filtri, manipolazioni o costruzioni fittizie. In realtà quello della “diretta” è un falso mito, perché l’immagine non riesce mai ad essere neutra e totalmente spontanea, specie nell’ambito dell’intrattenimento televisivo. Facendo abbassare le difese mentali e intellettive del pubblico, la televisione, la pubblicità, senza il filtro della rappresentazione artistica che dichiara suo malgrado comunque di essere altro dal reale (che confermerebbe perciò il dualismo tra immagine e realtà), fagocita e assorbe in sé la realtà stessa. Decade la dicotomia tra immagine e realtà, e se tutta la realtà diviene immagine, come ci insegnano Baudrillard e Nancy, è sbagliato persino parlare di immagine.

Questa è un’altra “violenza dell’immagine”, tipica dell’argomentazione di Baudrillard è per niente “positiva” o “progressista”, bensì sinonimo di appiattimento e di simulacrizzazione radicale del mondo: è la violenza dell’immagine che si impadronisce della realtà, ma senza rendersene conto scompare appena terminato il “delitto perfetto”. Mentre l’immagine-tensione era espressione dialettica di due entità in perenne conflitto senza sintesi (immagine/pensiero), il simulacro scarica la tensione, fa svanire la posizione del pensiero, domina l’ambito del visibile senza un’alterità, uno iato in grado di mettere in moto il processo di significazione da parte del fruitore.

L’uso estetico della miseria partecipa allo scenario del simulacro: il male diventa efficace per il suo fascino, perdendo la sua funzione di documentazione o di denuncia, garantito solo dal rimando all’effettiva realtà esperenziale. Il linguaggio pubblicitario e quello della comunicazione degenerano nella normalizzazione dell’orrore quando rinunciano a palesarsi in quanto immagine, quando non denunciano il loro essere immagine e pretendono di fare tutt’uno con la realtà confondendosi con essa. L’unico modo di evitare la definitiva deriva del “delitto perfetto” da parte della televisione, è dichiarare l’uso del medium, perciò esprimere un livello di metamessaggio capace di re-instaurare la sana dicotomia tra immagine e realtà; spesso è l’ironia a assurgere a tale funzione, spesso attraverso il parossismo cosciente che giunge all’iperrealismo e all’ipersemioticizzazione che fa del “male”, per esempio, una rappresentazione plastificata non travisabile e confondibile con la realtà (pensiamo all’ immagine della violenza nel cinema di Tarantino).

Per chiudere, vorrei ricordare come l’intervista di Baudrillard sia avvenuta nell’aprile del 2001, precedentemente all’evento assoluto che sconvolse il mondo e sul quale Baudrillard si concentrò nell’ultima fase della sua riflessione: gli attentati al World Trade Center, compimento definitivo della fusione di realtà e immaginario. Baudrillard non dovette assolutamente rimettere in questione le basi della sua speculazione, bensì assistette alla manifestazione più crudele e radicale della sua teoria: per la prima volta nella storia dell’umanità, un attacco terroristico è avvenuto sui monitor, sugli schermi televisivi, assumendo un senso solo in base alla sua trasmissibilità televisiva, in “diretta” appunto, la stessa diretta che i reality show sfruttano per garantirsi il successo in ordine di share.

 


[1] J-L. Nancy, Abbas Kiarostami. L’evidenza del film, Donzelli, Roma 2004, pp. 99, 100.
[2] Ibid.
[3] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2010, p. 50.
[4] Ivi, p. 114.
[5] Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, pp. 109 e sg.
[6] J-L. Nancy, Abbas Kiarostami. op. cit., p. 99.
[7] Ivi, p. 101.
[8] Ibid.

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