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Giambattista Vico e il simbolo


Lectio Brevis tenuta da Gennaro Sasso presso l'Accademia Nazionale dei Lincei (2012)

La leggenda dice che quando, negli Stati Uniti, Gaetano Salvemini ricevette la notizia che Vico stava per essere tradotto in inglese, ebbe un attimo di esitazione. Quindi disse: l'inglese e una lingua onesta, di Vico non rimarra nulla. La battuta era spiritosa, e rinviava a un'antica avversione. Credo tuttavia che si possa tranquillamente lasciare l'inglese alla sua onesta, Salvemini alle sue convinzioni, e Vico alla sua grandezza; che costituisce tuttavia un problema, perche tale era il suo modo di pensare e di comporre che, non senza affanno, subito una questione ne richiamava un'altra e vi si complicava.

La conseguenza è che, quando se ne affronta a una, subito ci si trova subito nelle altre, e anche noi, uomini (supponiamo) civilizzati, rischiamo di scoprire che ci siamo dispersi nella gran selva della terra in compagnia, magari, di qualche esegetico bestione. Lo si vede subito se si prova a entrare in quella che, riguardando il simbolo, s'intreccia, in primo luogo, con l'altra dell'età oscura del mondo nelle sue origini; che furono in realtà due origini, quella anteriore e l'altra posteriore al diluvio, ossia alla grande catastrofe che ebbe per conseguenza la decadenza, dell'umanità superstite, dallo stato, in cui si trovava prima, a quello ferino. Gli uomini non furonno allora se non immani "bestioni" aggirantisi per "la gran selva della terra" e praticanti la Venere selvaggia ben prima che, con il timore religioso, il cielo tonante e saettante avesse fatto sorgere nei loro animi l'idea di una legge che mettesse fine ai "concubiti" selvaggi e stabilisse la santità dei matrimoni.
Lo si vede altresi se si considera che la questione del simbolo e intrecciata con l'altra dell'umanità che, "dispersasi" nell'erramento ferino, si ritrovo a essere, non solo isolata e risolta nella selvaggia solitudine dei suoi individui, ma "mutola": donde, per il linguaggio, la questione della sua origine nel tempo, e anche del suo contenere in sé il principio della reazione che doveva opporsi a un inizio che, non si dimentichi, era stato connotato, da Vico, in termini di schietta e drammatica decadenza, di dura e
violenta barbarie.

Sarà bene infatti che, a differenza di Epicuro e di Machiavelli, di Hobbes, di Spinoza, nonché dell'"empio", come lo definiva, Bayle, ma anche di Selden e di Pufendorf, nelle origini della storia Vico scorgesse la mano provvidente di Dio. Indiscutibile che percio si dovesse, da parte sua, escludere la tesi di chi riteneva che le nazioni potessero "reggersi" senza religione. Ma vero è anche che non conforme al racconto biblico, e all'ortodossia, era l'idea di un'umanità che, dopo il diluvio, tutta o in parte, si era ritrovata barbara, e segnata da caratteri non diversi da quelli che le erano stati attribuiti dagli scrittori con i quali, per un altro verso, egli polemizzava. Certo, come aveva scritto nella Scienza nuova prima, la provvidenza era "l'architetta di questo mondo delle nazioni", la "regina di questo mondo degli uomini", la mano che, non vista ne avvertita, li guidava, secondo la sua intrinseca necessità, sul sentiero delle razionali "pportunià". Ma restava nondimeno indiscutibile che, se la provvidenza era fin dall'inizio la guida del mondo che ne era stato posto in essere, accadeva tuttavia, e fosse pure per sua decisione che, nell'età dell'erramento ferino, per lunghi tratti la sua presenza restasse inavvertita. Fu infatti soltanto a partire dal momento del tempo in cui il sibilante fulmine di Zeus fece si che i bestioni, o alcuni di loro, alzarono lo sguardo nella direzione del cielo, che nei loro cuori comincio a delinearsi un'idea del divino. [...]

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