Severino critico del Nuovo Realismo


Severino critico del Nuovo Realismo
 
    Dentro il Nuovo Realismo ci sono voci diverse, posizioni non sovrapponibili. A differenza di Ferraris, col quale condivido il senso generale del Nuovo Realismo, non ho mai provato l’ebbrezza di una svolta realista. Quel «Nuovo» che accompagna il termine realismo è occasionale: è l’aggettivo usato da Ferraris in un suo intervento a un convegno e poi ripreso per esigenze di divulgazione filosofico-giornalistica.
    Esposito su «Repubblica» (23 luglio) ha ricordato che la complessità e il rigore filosofico non possono esprimersi pienamente nei festival e, aggiungerei, nemmeno nelle colonne di un giornale. Nonostante utilizzare sistemi di comunicazione di massa obblighi a semplificazioni, la prosa sorvegliata di Severino dimostra come lo si possa fare con ineguagliabile eleganza. Severino («la Lettura», 17 settembre) si limita a richiamare il suo discorso, ma come sempre riesce a far emergere i nuclei teorici decisivi in gioco.
    Ferraris porta avanti una filosofia realista che nasce come reazione alle posizioni fino a oggi prevalenti quali ermeneutica, pensiero debole, postmoderno eccetera. Troviamo forme di antirealismo in Italia, in Europa e, per ragioni diverse, nel mondo anglofono: in conseguenza della «svolta linguistica», la filosofia analitica infatti non si è sviluppata su posizioni realiste. Il mondo, come dirà Wittgenstein, è la totalità dei «fatti», qui intesi come proposizioni, e non delle cose. Posizioni parimenti antirealiste le troviamo nei modelli epistemologici tratti dalla scienza, in particolare dalla fisica, posizioni che ci hanno allontanato dal «mondo sensibile» per farci scoprire la realtà come «verità del mondo fenomenico»: ci hanno allontanato, più precisamente, da quel mondo al quale il motto della fenomenologia «tornare alle cose stesse» intende ricondurci.
    Severino mostra come «libertà» e «democrazia» siano concetti strettamente legati all’analisi della metafisica sottostante. Non a caso il Nuovo Realismo è stato declinato anche politicamente da Ferraris: egli ritiene che il postmoderno sia stato, suo malgrado, funzionale alle politiche delle destre, dato che, se possiamo negare i fatti, la macchina neoliberale può costruire realtà tutte ugualmente vere. L’efficacia retorica dipenderebbe in questo caso dall’impossibilità di far appello a una realtà vera e incontrovertibile. Il mondo si è fatto favola, e la destra è stata brava a raccontarci favole: in Italia con Berlusconi, nel mondo con Bush. Ma non è qui che si concentrano i rilievi critici di Severino al Nuovo Realismo.     
    Ho appreso la fenomenologia da Paolo Bozzi che è stato un inguaribile realista in anni in cui andavano di moda altre posizioni; lo stesso Ferraris ha un forte debito teoretico, oltre che teorico, con il filosofo e psicologo sperimentale goriziano. Severino ha ragione quando nota come un’eccellente sartoria filosofica, quale quella italiana, venga ignorata per inseguire modelli meno originali. Egli ricorda spesso Leopardi e Gentile, ma ci sono casi meno eclatanti, come quello di Bozzi, rimasto ai margini della psicologia perché non allineato agli standard dei convegni internazionali o dei paper scientifici delle università americane. Potrei aggiungere che lo stesso Severino, o meglio la sua opera difficilmente eguagliabile per rigore e originalità, dovrebbe stare sugli scaffali delle librerie di tutto il mondo.
    Severino si è mosso per lungo tempo controcorrente: quando uscì Essenza del nichilismo, pochi in Italia parlavano di verità, parola bandita per coloro che volevano occuparsi di filosofia “seriamente”. Ma la radicalità del suo discorso si spinge ben oltre gli ultimi decenni del dibattito filosofico. Egli indaga il senso dell’eterno che ci porta al cuore del discorso metafisico, ossia verso l’interpretazione del divenire propria della metafisica occidentale: l’impossibilità che la «cosa» possa diventar altro da sé. Da qui il riferirsi di Severino al principio di identità e di non contraddizione.
    Ferraris chiude la sua risposta su «Repubblica» (18 settembre) auspicando un confronto. Il primo richiamo l’abbiamo indicato implicitamente col termine «verità», che ci consente di fare un tratto di strada assieme; il secondo tratto comune può essere dato da quella «metà di secolo», evocata da Severino su «la Lettura», che lo porta ad affermare «un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico». Questo tratto di strada forse è destinato ad interrompersi presto, quando comincia il vero confronto sul significato dell’apparire e della verità, ma qui usciamo dai confini che la divulgazione ci impone. Ancora una volta dobbiamo limitarci a indicare le prime linee fondamentali della contesa teoretica, il senso dell’affermazione del «Tutto». Scrive Severino: «il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente». Qui Severino ci sta indicando il «sentiero del Giorno» che trova inizio ne La struttura originaria (1958, Adelphi 1981), ossia nell’opposizione fondamentale tra essere e nulla.
    Contrariamente a quanto dichiarato su questo giornale da Vattimo (21 settembre), ritengo il confronto auspicato da Ferraris sull’«apparire fenomenico» una questione serissima, che investe il significato del trascendentale. Certo, nasce nel segno della distanza, ma può prendere corpo a partire dal senso dell’apparire della cosa e di un mondo: di questo mondo indubitabile sia per noi che per Severino, se pur per ragioni diverse.

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