Non serve filosofare davanti a un semaforo rosso

Non c’è bisogno dei massimi sistemi per le leggi del vivere comune. Né di tirare in ballo l’etica come fanno i (neo?) realisti

Gianni Vattimo

("La Stampa", 22 nov. 2012)

 


Una affermazione di Richard Rorty che non è mai parsa più attuale suona: «Prendetevi cura della libertà, la verità si difenderà da sé». Ecco, nel gran parlare di realismo, vecchio o nuovo, che si fa in questi tempi (vedi da ultimo il volume di curato da Maurizio Ferraris e Mario De Caro, Bentornata realta, con scritti di vari autori, Einaudi, 2012, pp. 234 euro. 17) c’è forse un eccesso di «cura» della verità, o meglio della «realtà» – una differenza di espressione che forse merita più attenzione. Provate per esempio a sostituire «realtà» a «verità» nella frase evangelica «la verità vi farà liberi». Davvero siamo tanto più liberi quanto più siamo «realisti», o non sarà per caso proprio il contrario, dato che troppo spesso il realista è chi non si fa illusioni, accetta le cose come sono e magari smette di lottare per l’evidente squilibrio delle forze nei confronti del mondo? Si ricorderà che Kant fondava, postulava, addirittura l’esistenza di Dio sulla constatazione che nella realtà del mondo sono in genere i cattivi a vincere e i buoni a perdere; ma se fosse davvero solo così proprio la nostra vita reale e la nostra morale non avrebbero più senso, dunque dobbiamo postulare che ci sia Qualcuno che, alla fine, faccia coincidere virtù e felicità.

I neo-realisti che si agitano tanto oggi non vogliono certo rivendicare un mondo di guerra di tutti contro tutti, anzi si presentano come i veri difensori della morale. Davvero la «realtà» ha bisogno di essere difesa? Contro che cosa e contro chi? A quanto dicono, contro quel pericoloso rivoluzionario di Nietzsche, per il quale «non ci sono fatti solo interpretazioni». Ma chi ha paura dell’interpretazione? E ancora una volta: provate a sostituirle la parola realtà alla parola verità in tante espressioni di cui non possiamo fare a meno. «A dir la realtà...».O: «In realtà vi dico». O ancora «Sono disposto a morire martire per la realtà..». Se riflettiamo, la differenza sta tutta nel fatto che la verità è sempre detta, mentre la realtà è lì davanti e basta. E qui tornano in scena Kant e l’interpretazione: per essere detta, la verità ha bisogno di un soggetto che la dica. Chi dice la verità, però, è chi descrive «le cose come sono», dunque la realtà come tale. Davvero? Si sa che una mappa identica in tutto al territorio non serve a niente, coinciderebbe con il territorio stesso. Per essere utile, deve scegliere una scala, un punto di vista, un tipo di cose che mostra (per esempio l’altimetria, o le differenze climatiche). Non si potrà qui parlare di interpretazione? Va bene, si risponde, però le cose che mostra a preferenza di altre «ci sono», mica se le inventa. D’accordo, però che «ci siano» può considerarsi un «fatto» fuori da ogni interpretazione? Già, ma chi lo potrebbe dire, se non in nome di un’altra interpretazione ? Che ci sia una mappa «non interpretativa» a cui far riferimento non sarà un “fatto” convenzionalmente accettato per non andare all’infinito? Per il metro, ci si riferisce a quello conservato a Parigi, per i fusi orari al meridiano di Greenwich, eccetera. È scandaloso e preoccupante? Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? Che queste convenzioni funzionino, sembra significare che sono «fondate nella realtà». E cioè che il meridiano zero esiste davvero là fuori? Noi diciamo che quelle misure sono fondate solo perché funzionano, così come qualunque ermeneutico discepolo del cattivo Nietzsche prenderà normalmente treni aerei o ascensori senza dubitare delle scienze e tecnologie che li costruiscono. La domanda è: perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la «realtà» così com’è?

Torniamo alla questione sul chi e perché abbia paura dell’interpretazione e senta il bisogno di difendere la verità-realtà. Un sospetto non infondato è che Rorty abbia ragione, e cioè che sotto alla (non richiesta) difesa della verità-realtà ci sia un timore della libertà. Signora mia non c’è più religione, direbbe a questo punto Arbasino. Se non possiamo far riferimento a un fondamento certo ed inconcusso tutto sarebbe permesso, come paventava Dostoevskij per il caso che Dio non esistesse. Sembra che senza il fondamento di una ultima verità «oggettiva» (qualunque cosa ciò significhi), che tutti devono o dovrebbero ammettere, non ci possa essere né vera morale né vera lotta alla menzogna della propaganda o della superstizione. Eppure qualunque cocciuto ermeneutico, come prende treni e aerei, così ha sufficienti mezzi per distinguere le bugie dalla verità, senza aver bisogno di metri assoluti, senza aver bisogno, cioè, di toccare sempre con mano ciò che gli viene detto. Gli basta il metro di Parigi, il meridiano di Greenwich, almeno fino a che qualcuno non pretenda di fargli pagare una tassa immobiliare sulla base di un altro criterio di misura. È quando accade qualcosa del genere, quando siamo toccati (non solo nei soldi) da una misura sbagliata che cerchiamo il riferimento a un criterio più certo e più fondamentale. Anche e soprattutto nel caso delle leggi del vivere comune. Ebbene, abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no. Ci poniamo il problema del fondamento quando si tratta di fecondazione assistita, diritti sociali, in genere di etica. In questi terreni, pretendere di regolarci sulla base di una verità-realtà non ha senso, o potrebbe avere solo il senso di obbligarci ad accettare «realisticamente» le cose come stanno. Il sospetto che la smania di (neo?) realismo che si sente in giro oggi sia in fondo solo un richiamo all’ordine, una sorta di appello ai tecnici per uscire dalla confusione del dibattito democratico e delle sue lentezze, non è poi così peregrino. Qualcuno suggerisce di ritrovare la vecchia distinzione di origine kantiana tra scienze della natura, “la scienza” cioè, e scienze dello spirito (etica, politica, religione ecc.) lasciando alle prime il dominio della verità “vera”, sperimentale, e relegando l’interpretazione alle seconde. Bella idea (viene appunto da Kant) se non fosse che nessuno ha ancora risposto alla domanda: la divisione dei due campi chi la dovrebbe stabilire?

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