Postmodernismo o New Realism? La Realtà sulla graticola

Al centro del dibattito


Il dibattito tra Postmodernismo “debole” e New Realism è stato recentemente aperto sul quotidiano Repubblica da Maurizio Ferraris, è divenuto oggetto principe della maggior parte delle conferenze tenutesi negli ultimi mesi e vede “schierati” in posizioni divergenti Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris stesso, suo ex-pupillo.

 

Classe 1956, Maurizio Ferraris, filosofo torinese, sferza colpi al proprio “padre spirituale” concentrando la disputa sull’annosa questione ontologica: se la realtà sia semplice oggetto d’interpretazione ed esista solamente in quanto interpretabile o se, piuttosto, si mantenga uno zoccolo duro di fattualità a cui difficilmente si è in grado di rinunciare.

Siccome ogni forma di dialogo presuppone un accordo preliminare tra le parti in discussione, è necessario qui accordarsi sul tema del dibattito: chiarire quale realtà e, conseguentemente, quale verità siano in gioco e, in seconda istanza, cercare di comprendere come questo dibattito possa esser fertile e produttivo per la filosofia del XXI secolo. Se può in alcun modo esserlo.

Perché la domanda fondamentale dei nostri giorni, domanda che la filosofia non può eludere è: che cosa fare? Una volta stabilita la vittoria dei guelfi o dei ghibellini, che cosa rimane in campo?

A tale riguardo, poi, intento di quest’articolo è quello di insinuare un dubbio, fermamente convinta che dall’esercizio dell’epoché sorga sempre un’accresciuta consapevolezza – se non una nuova Verità; un dubbio, dicevo, circa la “reale” dicotomia tra natura e interpretazione, tra ermeneutica ed epistemologia.

Certamente molti saranno a conoscenza del fatto che ciò che ha dato il La a questo “dialogo” tra postmodernismo e neo-relismo è stata la recente pubblicazione, per Laterza, del nuovo libro di Maurizio Ferraris, dal titolo Manifesto del Nuovo Realismo. Un libro che annuncia – proprio come Marx ed Engels fecero per il Manifesto del Partito Comunista del 1848 – l’aggirarsi di uno spettro per l’Europa. Uno spettro generato in seno a quel postmodernismo che si prefigge di combattere e sovvertire, un grido “alle cose reali” declinato in maniera del tutto differente da quanto fece il padre dei fenomenologi il secolo scorso. Perché gli obiettivi sono anzitutto il populismo mediatico, la politica camaleontica, i soldi virtuali.

Punto di partenza della considerazione di Ferraris è il tentativo tutto postmoderno, figlio delle letture nietzschiane e dell’ormai celebre motto “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, di rendere gassosa la realtà, quasi inconsistente, logarandola facendo leva sull’idea che il mondo reale esista esclusivamente in virtù dei nostri atti di coscienza (e delle nostre intepretazioni)[1].

Il New Realism – ha affermato Ferraris - nasce infatti da una semplice domanda. Che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero, o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po’ come quando si dice che siamo entrati nel mondo dell’immateriale e insieme coltiviamo la sacrosanta paura che ci cada il computer.”[2] Da questo, all’idea che tutto sia costruito socialmente, compreso il mondo naturale, il passo è molto breve ed è stato compiuto.

Il conio New Realism è nato – ci dice Ferraris – in seguito a un colloquio con un giovane collega tedesco, Markus Gabriel, convenendo entrambi sul fatto che il “pendolo del pensiero, che nel Novecento inclinava verso l’antirealismo nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmodernismo, ‘svolta linguistica’), con il tornante del secolo si era spostato verso il realismo”.

Una presa d’atto del fatto che ci troviamo di fronte a un cambio di prospettiva, a una rivoluzione copernicana post litteram.
I capisaldi del postmodernismo, analizzati da Ferraris nella prima sezione del Manifesto, vengono nel corso delle pagine trattati al fine di mostrarne i limiti intrinseci. In primis, l’ironizzazione, ossia il virgolettismo del mondo derivato dall’idea che i grandi “racconti” del moderno siano la causa dei peggiori dogmatismi. L’ironia di cui parla Ferraris è l’ironia che non diverte ma che riverte. Lo sguardo, su ciò di cui si ironizza, compie un’orbita completa, lo sorvola, lo rivolta, e sullo stesso punto si arriva da molte posizioni diverse. Per questo motivo essa risulta imparentata con il postmodernismo e ne è divenuta una dei capisaldi.

Eppure suddetta ironia aveva un cuore antico e radicale, che affondava le proprie radici nel pensiero nietzschiano e nella rivoluzione copernicana di Kant. In questo senso il postmoderno è stato il frutto “proibito” di una svolta culturale che coincise con la nascita della modernità. Ma la volontà di emancipazione dai padri, sembra ammonire il filosofo torinese, conduce il giovane a scontri titanici anche laddove la battaglia è persa in partenza e ciò ha condotto il postmodernismo in filosofia a emanciparsi dalla tradizione filosofica a cui era legato, auspicando per la filosofia un’operazione affine a quella che Duchamp fece in ambito artistico: presentare un Hegel “filosoficamente barbuto” proprio come la “Gioconda con i baffi” di Duchamp.

In secondo luogo, la deogettivizzazione, ossia l’idea che la realtà, l’oggettività e persino la verità siano un male; idea maturata in seguito alla radicalizzazione del kantismo e che decretò come conseguente risultato l’idea secondo cui non ci sarebbe accesso al mondo se non attraverso la mediazione operata da schemi concettuali e rappresentazioni.

Espressione massima della deogettivizzazione risulta essere – secondo Ferraris – la politica e in particolar modo la teorizzazione da parte di questa che la realtà sia esclusivamente una serie di incongrue credenze da parte di sprovveduti che non sanno bene come funziona il mondo. Che persino la guerre e gli omicidi altro non sono che uno spettacolo televisivo a la Truman Show. Immobilizzati in un mondo di specchi che riflettono porzioni di realtà, deformandole, gli uomini si consolano con la magra idea che non ci sia e non ci sia d’altronde mai stato il famigerato bandolo della matassa, che la storia sia stratificazione di miti da de-costruire e de-saturare.

Terzo, la desublimazione, ossia l’idea che il desiderio possa costituire di per sé un elemento emancipativo, come auspicato dalla rivoluzione dionisiaca nietzschiana, secondo la quale l’uomo tragico, anti razionale e anti socratico per eccellenza, fosse l’uomo desiderante.[3] Ironia della sorte, proprio questa rivoluzione del desiderio che avrebbe dovuto condurre l’uomo all’emancipazione, diviene la catena che gli’imbriglia le caviglie e lo ancora a un circuito vizioso tale per cui attuare una rivoluzione desiderante coincide con l’attuare una restaurazione desiderante, nel senso che il desiderio diviene strumento di controllo sociale. D’altronde in un mondo in cui tutto è dettato dall’ultimo modello di Iphone sul mercato, in cui siamo portati a sentirne il bisogno (e quindi a desiderarlo), il postmodernismo ha sicuramente visto lungo.

 La liberazione postmoderna è davvero liberante?

Esattamente come Heidegger affermava che Kant – con la Dialettica della Critica della Ragion Pura - si era trovato dinnanzi a un baratro insormontabile, al quale aveva tentato di dare una soluzione attraverso la dicotomia tra fenomeno e noumeno e la conseguente idea che il noumeno fosse inconoscibile di per sé, il postmodernismo si è trovato nella stessa condizione.

Stessa condizione in teoria, ma declinata inversamente nella pratica, poiché il limite di questa corrente risiede, a ben vedere, nel fatto che s’è realizzata appieno per poi essersi auto-fagocitata. Il suo intento liberatorio declinato come “Non sentitevi appesantiti dalla realtà, costruitevi il mondo!”, si è mostrato essere, secondo Ferraris, tutt’altro che liberante. In un mondo in cui vale la massima nietzschiana per cui non ci sono fatti oggettivi ma ogni cosa è suscettibile di essere interpretata, in un mondo in cui la celebre posizione derridiana per cui non esiste nulla al di fuori del testo viene assunta nella sua totalità totalizzante[4], ci si trova in braccio al decostruttivismo più crudo e non si riesce a cogliere la luce al di fuori del tunnel.

Secondo Ferraris, la fallacia alla base della posizione postmoderna dev’essere ravvisata nella dicotomia tra essere e sapere, ossia nella confusione tra ontologia ed epistemologia: è chiaro che per sapere che l’acqua è H2O ho bisogno, kantianamente, di schemi concettuali e categorie, ma che l’acqua è H2O è del tutto indipendente da ogni mia conoscenza.

Kant aveva, attraverso la Critica, risposto al limite dell’impostazione cartesiana secondo cui i sensi inevitabilmente ci ingannano affermando che, se è vero che ogni conoscenza ha inizio con l’esperienza, ma quest’ultima è strutturalmente incerta, si potrà fondarla mediante la scienza, ossia trovando delle strutture a priori, in grado di stabilizzarne l’incertezza.

Per spiegare come questo fraintendimento concettuale, che ha generato il postmodernismo, debba essere riassorbito da e mediante una concezione neo-realista, Ferraris opera una distinzione tra “oggetti naturali” e “oggetti sociali”. I primi, dice, sono inemendabili, ossia non possono essere corretti proprio perché a un certo punto s’incontra il carattere saliente del reale, che resiste, fa attrito ai nostri schemi concettuali; i secondi, al contrario, subiscono o comunque possono subire questo trattamento.

Ma che cosa sono gli oggetti sociali? Si tratta di tutti quegli oggetti che esistono nello spazio e nel tempo dipendentemente dai soggetti (banconote, titoli di studio, debiti, premi, punizioni, matrimoni). Ferraris conclude la sua analisi affermando che, laddove il postmodernismo mostri il suo lato prettamente decostruttivo, è utile e necessario rispondere con un realismo che sia ricostruttivo, perché l’addio alla realtà (e con essa alla verità) è necessariamente un evento non indolore che, come tale, aggiungo, va risanato.

Un’alternativa valida?

Sicuramente quella del New Realism si presenta come una posizione affascinante, resa tale anche dalla scrittura accattivante dello stesso Ferraris, ma che tuttavia lascia aperti margini di discussione.

Si può osservare una crescente esigenza di ritorno al realismo anche in movimenti culturali non strettamente filosofici, che convergono così con la posizione di Ferraris – seppure declinandola in modo diverso. Un esempio alquanto significativo è quello offerto dall’arcipelago letterario della cosiddetta New Italian Epic e che volutamente impiega quell’ironizzazione di impianto tipicamente postmoderno per superarla e generare qualcosa di nuovo, un’attenzione più spiccata al reale e alle sue manifestazioni.

Il collettivo Wu Ming I, nella “Versione 2.0 di New Italian Epic” (NIE), scrive:

“Il ‘realismo’ è una delle tante frecce nella faretra di un autore. Alcune opere NIE sono ‘realistiche’, altre poco, altre ancora per nulla, anche nella produzione di uno stesso autore. Realismo ed epica non si escludono a vicenda, come non si escludono a vicenda l’osservare e il cantare. Il realismo è la ricerca di una rappresentazione per quanto possibile ‘oggettiva’ del mondo, vicina al (tangibile, materialissimo) ‘compromesso percettivo chiamato ‘realtà’; presuppone quindi un lavoro sulla denotazione, sui significati principali e condivisi. Quando descrivo una scena di miseria avvilente, e cerco di trasmettere con precisione tale avvilimento, sto gettando un ponte verso il lettore, mi rivolgo a quella parte di lui - quella parte di noi tutti - che trova avvilente la miseria”; e ancora: “ Molti commentatori - almeno sulle prime - si sono concentrati sulla questione ‘postmoderno sì / postmoderno no / postmoderno chevvordì? / Non lo so.’ Il focus del mio testo mi pareva fosse un altro. Asserivo l'importanza di abbandonare la tonalità ‘dominante’ nel postmodernismo (Dominante, diz. De Mauro, significato n.8: ‘fotogr., cinem., tipogr., in un'immagine, colore che prevale eccessivamente sugli altri a causa di un errore di sviluppo), e spiegavo che sta già succedendo. C’è chi ha preso per un manifesto programmatico (‘Basta col postmoderno!’) una semplice constatazione. In linea di massima, ora come ora, della definizione di ‘postmoderno’ m’importa poco, forse niente. Solo che non posso esimermi, fingere che l’argomento non sia stato dibattuto, quindi ho scritto una postilla intitolata ‘Postmodernismi da 4 $oldi’. È in coda a tutto, e dice quel che penso. Poi basta, parlatene voialtri”.

Pur non volendo insistere sulle affinità – comunque innegabili – tra la corrente filosofica cui Ferraris si fa portavoce e quella letteraria del collettivo Wu Ming I, che in realtà è ben lungi da volersi classificare come “corrente”, e concentrandosi su un punto di vista prettamente filosofico, ritengo che uno dei limiti più evidenti della posizione espressa da Ferraris sia quello della generalizzazione dell’ermeneutica, lapidariamente associata al post-modernismo. Egli si rifà – legittimamente – alla posizione di Derrida e Deleuze che, sebbene rappresentino due capisaldi indiscussi del pensiero post-moderno, anzi ne sono al contempo due voci estreme, tuttavia mal si accordano con la koinè ermeneutica all’interno della quale si sono mossi autori come Gadamer, Ricoeur e lo stesso Pareyson.

Quello che mi pare Ferraris perda di vista nella sua esposizione manichea degli oggetti, divisi tra sociali e naturali, è il medium, il collante, l’uomo. Se è vero che la realtà – beninteso, spirituale (nel senso delle scienze dello spirito) – secondo la tradizione ermeneutica è sempre suscettibile d’interpretazioni – nessun ermeneuta ha mai seriamente affermato l’infinita interpretabilità del mondo oggettuale - e che una molteplicità esponenziale di quest’ultime potrebbe apparentemente condurre alla logica conclusione della non esistenza di una Verità assoluta e dogmatica, è altresì vero che l’interpretazione, per un filosofo come Gadamer, ad esempio, è un’esperienza viva che mette in questione, nell’incontro con il testo, tutta la personalità dell’interprete. Per comprendere la sua ermeneutica non bisogna cercare suggerimenti metodici, estranei ai suoi interessi, ma rendersi conto che i suoi intenti sono tutti rivolti all’aspetto filosofico dell’interpretazione.

Sulla linea di Heidegger, Gadamer è interessato alla partecipazione ad un evento di verità, che non è il prodotto di un ragionamento né è il frutto della concezione della verità come adeguazione, ma rivelazione, apertura ad una realtà nascosta. Nel rapporto tra testo come domanda ed interprete si realizza una condivisione di verità nell’ambito del linguaggio, concepito heideggerianamente nel suo valore ontologico, come “casa dell’Essere”. Nel dialogo, il testo, peraltro - a differenza di quanto avviene nel processo di ricezione auspicato da H.R. Jauss, per il quale il testo è sostanzialmente inglobato nella situazione dell’interprete - conserva una sua alterità, come voce che interpella e chiede di essere ascoltata, costringendo i lettori a riflettere su se stessi per rispondere alle sue sollecitazioni.

È indubbio che l’analisi di Ferraris sia affascinante e fascinosa, specie perché pone uno iato con il pensiero moderno e postmoderno che ci ha cullato e ha fatto scuola per anni, ma è oltremodo vero che non sia possibile inglobare e ridurre l’intera realtà in due categorie come quelle di oggetti sociali e naturali. Così facendo, mi chiedo, dove inserire l’incontro con l’altro, l’intersoggettività tanto cara a Husserl e Ricoeur, il dolore, la perdita, l’amore, la morte? In base a quale criterio definire “l’altro” un oggetto sociale o naturale?

Ricoeur nel 1990 affermava che l’ “ermeneutica del sé”, elaborata nell’opera Sé come un altro, rappresenta l’unica via percorribile oggi per la filosofia riflessiva dopo la lezione dei maestri del sospetto, così il filosofo definiva Marx, Nietzsche e Freud. Nel titolo stesso – Sé come un altro – è racchiuso il nodo essenziale della concezione ricoeuriana di soggetto: la valenza non comparativa, ma esplicativa del «come» (se stesso «in quanto» altro) costituisce la base di un modo di pensare l’identità e il soggetto non più in termini di autoposizione soggettiva di stampo cartesiano, ma di eterodeterminazione. Secondo questa prospettiva l’alterità è implicata a un livello originario e profondo nel processo di costituzione del sé.

Il New Realism si presenta come un’alternativa di pensiero non così alternativa come da intenzioni, lasciando implicita l’analisi di quegli aspetti che “veramente” e “realisticamente” hanno valore per l’uomo. Con questo intendo dire che, se l’idea di oggetto è molto feconda per alcune classi di esperienze – cambiali, assegni, matrimoni – bisogna chiedersi se davvero esperienze in cui la soggettività è completamente in gioco nel rapporto con l’altro, possano ancora essere ridotte alla mera sfera oggettuale. Tale riduzione non rischia di ricadere forse nel ben noto paradigma positivista, che un autore vicino al realismo, e dunque al di là di ogni sospetto, come Husserl, stigmatizza in un passo della Krisis?

“Il concetto positivistico della scienza del nostro tempo è dunque un concetto residuo. Esso ha lasciato cadere tutti quei problemi che erano stati inclusi nel concetto – ora troppo angusto ora troppo ampio – di metafisica […]. A ben guardare, questi problemi, come tutti quelli che sono stati esclusi, hanno una loro inscindibile unità in questo: espressamente o implicitamente, essi contengono i problemi della ragione – della ragione in tutte le sue forme. Tutti questi problemi, intesi nel senso più ampio possibile, travalicano il mondo in quanto universo di meri fatti. E lo travalicano appunto in quanto problemi che mirano all’idea della ragione. E tutti pretendono a una maggior dignità rispetto ai problemi che concernono i fatti, i quali sono loro subordinati. Il positivismo decapita per così dire la filosofia. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”.[5]

 

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