Habermas, Repetita iuvant: risposta a Flores d'Arcais

vedi anche
Flores d'Arcais
,
L'insostenibile distinzione di Habermas

testotesto

MicroMega


Jurgen Habermas
, Repetita iuvant: una risposta a Flores d'Arcais

documento pdf

Il punto centrale della tesi di Habermas è la netta distinzione tra
la sfera istituzionale – nella quale valgono solo argomenti laici –
e la sfera del dibattito pubblico – nella quale invece le ‘comunità di interpretazione’ possono usare anche il proprio linguaggio di fede. Questa distinzione però non regge alla prova dei fatti, soprattutto in società dominate
da uno spazio mediatico dilatato, che confonde i confini
tra luogo del dibattito e luogo della decisione.

 

"Ma davvero i vecchi intellettuali di sinistra possono vantarsi di contrastare con successo la spoliticizzazione di una sfera pubblica influenzata dalle televisioni di Berlusconi?
In ogni caso non dovrebbero negare alla Chiesa e alle comunità religiose il diritto d’intervenire con contributi sostanziali” nella sfera pubblica. Il teorico della democrazia come solidarietà tra estranei ribadisce la necessità di un ruolo pubblico delle religioni.


JÜRGEN HABERMAS


Il fatto che le Undici tesi contro Habermas (1) (che leggo in traduzione inglese) siano ormai apparse da qualche tempo, mi rende più facile prescindere dalla loro presentazione battagliera. Leggendole, mi sono spesso chiesto a chi l’autore intendesse riferirsi. Entrambi infatti partiamo dal postulato che lo Stato democratico di diritto tuteli diritti eguali per tutti. Questo ordinamento giuridico sanziona, tra l’altro, discriminazione degli omosessuali, pratiche di mutilazione clitoridea, violenze domestiche, matrimoni forzati, poligamia, rifiuto di soccorso sanitario, per non parlare di pedofilia e cannibalismo. Dunque è pregiudizialmente esclusa qualsiasi interpretazione della separazione Stato-Chiesa che induca a tollerare queste fattispecie. Siccome Paolo Flores d’Arcais non può dubitare che questi nessi logici mi siano chiari, avrebbe dovuto interrogarsi su che cosa poggi il suo fraintendimento.
Nemmeno può egli ignorare che condividiamo anche la seconda premessa (sviluppata nella sua ultima tesi), per cui la costituzione democratica resta una mera facciata finché non siano soddisfatte le condizioni materiali e culturali che consentano di «fare uso» – in maniera inclusoria, paritaria e autonoma – dei diritti della condivisione politica. Il fallimento dei mercati e le interferenze burocratiche – generate sul piano sistemico e scaricate all’esterno – non sono costi che possano essere semplicemente rovesciati sui gruppi sociali incapaci di difendersi. L’appartenenza (giuridicamente equiparata) alla comunità politica non è conciliabile con quella diseguaglianza sociale che, per effetto della globalizzazione economica, vediamo approfondirsi persino all’interno delle nostre società. Tuttavia, ai fini di una effettiva ed equiparata partecipazione politica, non meno importanti dei presupposti socio-economici restano i presupposti politico-culturali. E qui credo di intravedere, nelle nostre rispettive opinioni, il primo dei disaccordi cui ricondurre l’attacco mosso alle mie – piuttosto ovvie – proposte sul ruolo pubblico della religione.
La prima differenza concerne il concetto deliberativo di politica, la seconda il monoculturalismo confessionale italiano, la terza la mentalità del secolarismo.

1. Paolo Flores d’Arcais mostra di accettare, a parole, l’idea di democrazia deliberativa. Tuttavia la sua ottava e nona tesi tradiscono una concezione «non cognitivistica» delle norme morali e dei valori etici, una concezione positivistica del diritto, una concezione volontaristica della democrazia. Si tratta di presupposti filosofici che non sono conciliabili al nucleo deliberativo del procedimento democratico. Piuttosto, impediscono di capire le funzioni che, in una sfera pubblica dominata dai mass-media, devono essere soddisfatte dalle voci politiche dei cittadini (dall’uso pubblico della ragione, avrebbe detto Rawls collegandosi a Kant), se si vuole che la politica conservi il suo carattere democratico anche in società colonizzate dal mercato. Infatti, al procedimento democratico non basta un mero accertamento di opinioni e «valori» pregiudizialmente sottratti all’argomentazione. Si tratta piuttosto di mettere a fuoco problemi che chiedono di essere risolti sia sotto il profilo dell’eguale interesse di tutti i cittadini – dunque nel modo oggettivamente più utile – sia sotto il profilo della giustizia.
Se si intende la politica come un processo che risolve i problemi in questa maniera, allora la formazione democratica della volontà manifesterà un contenuto cognitivo sia dal punto di vista della giustizia sia dal punto di vista pragmatico ed empirico. La procedura democratica può infatti produrre legittimità solo a patto di collegare la «inclusione» – ossia il coinvolgimento virtuale di tutti i cittadini – con una formazione discorsiva dell’opinione e con la prospettiva di risultati ragionevoli. Si spiega così il ruolo fondamentale che può essere assunto da una sfera pubblica non deformata e da una tradizione culturale non prosciugata scientisticamente. Questo ruolo rende possibile l’appropriazione critica di contenuti vitali.
La sfera pubblica liberale rappresenta, per un verso, una sorta di agile e flessibile periferia intorno alla più pesante sfera centrale dello Stato, mentre, per l’altro verso, si radica nelle ancor più fuggevoli reti comunicative della società civile. Questa sfera pubblica è ciò che garantisce alla comunicazione politica di circolare tra la società civile e le istituzioni statali autorizzate a prendere misure vincolanti. A sua volta, la società civile è avviluppata in una cultura politica che stabilisce i parametri delle discussioni pubbliche. La cultura politica liberale rappresenta una sorta di franoso sedimento geologico, composto da collaudate ragioni empiriche, etiche e morali. Gli elementi di questa cultura politica slittano continuamente, dal momento che essa è ricettiva agli impulsi della comunicazione pubblica.
I caratteri di questa cultura dipendono dal precario equilibrio che si instaura tra la forza vitale delle tradizioni e la loro disponibilità a un’incessante revisione. A questa formazione democratica e deliberativa della volontà, le Chiese possono benissimo collaborare a patto di accedere – e limitarsi! – al ruolo di «comunità di interpretazione» nella sfera pubblica politica. Tramite le loro comunità di culto, le Chiese dispongono di forti radici nella società civile, attingendo per di più alle fonti della storia. Con le loro raffinate tecniche interpretative dei testi sacri, si presentano come le eredi naturali di quelle quattro o cinque religioni mondiali che, a partire dall’età assiale, non cessano di plasmare i modelli culturali delle grandi civilizzazioni. Nella vita religiosa delle comunità, si ritrova ancora intatto ciò che è andato altrove perduto e che nemmeno le competenze professionali di medici e psicologi possono facilmente ripristinare: voglio dire, capacità espressive e ricettive sufficientemente differenziate per afferrare gli aspetti di una «vita sbagliata».
Soprattutto dopo che si è interrotta la tradizione del movimento operaio, e dopo che si sono congelati tutti i movimenti progressisti, noi vediamo atrofizzarsi – nelle società turbocapitalistiche premianti soltanto chi mira al successo individuale – ogni sensibilità clinica per le patologie sociali, per il fallimento dei progetti esistenziali, per la lacerazione dei contesti di vita. L’Italia di Berlusconi non sarà priva di esempi, a questo proposito. Essendo ideologicamente pluralistiche, le nostre società risultano sempre più profondamente divise da conflitti di valore che vanno regolati politicamente. Per questo esse diventano casse di risonanza per quelle «comunità di interpretazione» ancora in grado di offrire contributi articolati ai problemi rimossi della convivenza solidale.
Ammettiamo pure che questa rivista e il suo direttore siano eccezioni. Ma davvero i vecchi intellettuali di sinistra possono vantarsi di contrastare con successo la spoliticizzazione di una sfera pubblica influenzata dalle televisioni di Berlusconi? In ogni caso, non dovrebbero negare alle Chiese e alle comunità religiose il diritto, o la capacità, d’intervenire con contributi sostanziali alla discussione sulla legalizzazione dell’aborto e dell’eutanasia, su questioni bioetiche della medicina riproduttiva, sulla tutela della biosfera e sul controllo del clima. Per quanto mi riguarda, io mi ritrovo spesso su posizioni lontane da quelle delle Chiese. E tuttavia, nei problemi di questo tipo, il quadro argomentativo è talmente complesso, che non si può mai sapere a priori quale partito si appelli alle intuizioni morali giuste. Su ambiti vulnerabili della convivenza sociale, le tradizioni religiose hanno la forza di articolare intuizioni morali in maniera linguisticamente convincente.

2. Paolo Flores d’Arcais trova fuori posto queste considerazioni, forse perché deve confrontarsi con esempi diversi da quelli tedeschi. Ma anche se, a partire da culture politiche differenti, la cattolica Italia e la pluri-confessionale Germania hanno organizzato in maniera giuridica diversa il rapporto dello Stato con la Chiesa, esse condividono in realtà uno stesso principio costituzionale di separazione. In ogni caso, la costituzione democratica pone chiari limiti all’intervento pubblico delle Chiese e delle comunità religiose. Quando queste, nel ruolo di «comunità di interpretazione», vogliono convincere in generale la popolazione di una società già ampiamente secolarizzata, fanno bene a offrire argomenti che siano egualmente rispondenti alle intuizioni morali sia dei propri associati sia dei non credenti e dei diversamente credenti. Quando invece si rivolgono ai propri fedeli, le Chiese devono parlare loro come a membri religiosamente orientati della comunità politica, senza esercitare nessun ricatto di coscienza. Né possono far pesare la loro autorità spirituale al posto di quel tipo di ragioni che sono in grado di riscuotere risonanza generale. All’epoca di Adenauer abbiamo subito anche noi una illecita «politica dei pulpiti». E sarei il primo ad appoggiare Paolo Flores d’Arcais contro pratiche clericali di questo tipo, assolutamente riprovevoli sul piano costituzionale.
In questo contesto c’è da sottolineare una riserva ulteriore. Nello Stato costituzionale, per potersi candidare all’approvazione giuridica, tutte le norme devono essere formulate, e pubblicamente giustificate, con un linguaggio comprensibile a tutti. Questa ovvietà non vieta alle Chiese d’impegnarsi nella sfera pubblica politica, fin tanto che – sul piano del parlamento, dei tribunali, dei ministeri, e degli organi amministrativi – i processi istituzionali di consultazione e decisione restino chiaramente distinti dalla informale partecipazione dei cittadini al disegno delle opinioni nella sfera pubblica. Tra queste due sfere, la separazione di Stato e Chiesa esige che si metta un filtro che – a partire dalla babilonica cacofonia della sfera pubblica – consenta soltanto a contributi «tradotti» in linguaggio secolare di pervenire alle agende delle istituzioni statali. Da tutto ciò, John Rawls ha derivato quel «provino» (condizione, riserva) che viene oggi fieramente contestato negli Usa. Quando intendano esprimersi su temi pubblici servendosi esclusivamente del linguaggio religioso, cittadini e organizzazioni devono sapere che il contenuto cognitivo dei loro contributi può giustificare decisioni politicamente vincolanti solo a patto di venire preventivamente tradotto.
Io non riesco a capire come tale condizione possa apparire irrealistica. Certo, negli Usa essa non viene rispettata. Ma ogni giudice, ogni parlamentare e pubblico ufficiale, può essere facilmente ammonito a non usare – nell’esercizio del suo ruolo – espressioni religiose che siano incomprensibili alla totalità dei cittadini. Dopo tutto, per buone ragioni, non si è mai visto un presidente europeo in pubblica preghiera.
Certo, disponendo degli strumenti della violenza legittima, la sfera dello Stato non dovrà mai aprirsi alla lotta delle confessioni, se non si vuole che il governo diventi l’organo di una maggioranza religiosa che impone il suo volere all’opposizione. Ma ci sono almeno tre ragioni normative per preferire una sfera pubblica liberale. Primo: chi non vuole, o non sa, scindere le sue convinzioni morali e il suo vocabolario nelle loro componenti sacre e profane, deve poter partecipare lo stesso alla formazione politica dell’opinione anche con un linguaggio religioso. Secondo: tra membri della stessa comunità democratica, la solidarietà civica pretende che, nella società civile e nella sfera pubblica politica, gli agnostici non riguardino «dall’alto in basso» i concittadini religiosi, assumendoli come esemplari di una specie protetta. Terzo: lo Stato democratico non dovrebbe semplificare pregiudizialmente la polifonica complessità del pluralismo ideologico, giacché non può sapere se, così facendo, non sacrifichi anche preziose risorse semantiche, valoriali e identitarie della società.

3. Sul piano storico, non è certo un caso che nei paesi europei a monocultura cattolica sia nato un secolarismo particolarmente battagliero. Ma i miei amici secolaristici non mi devono subito obiettare che – lungi dall’espellere la religione dalla sfera pubblica – essi intendono soltanto restringerla al normale ambito giuridico stabilito dalla Costituzione. Giacché, in tal caso, essi dovrebbero anche guardarsi dallo scambiare il secolarismo della Costituzione con la pretesa di secolarizzare la società. Insomma, dovrebbero imparare a distinguere nettamente «secolare» da «secolaristico». Le persone secolari e non credenti hanno un atteggiamento agnostico verso le pretese religiose, laddove le persone secolaristiche hanno un atteggiamento polemico verso l’influenza pubblica delle dottrine religiose. Essi screditano le dottrine di fede in quanto scientificamente infondate. Nel mondo anglosassone, il secolarismo si appella oggi a un naturalismo hard, che restringe alle scienze della natura il monopolio del sapere socialmente valido. Io ritengo che questo scientismo sia una pura Weltanschauung ideologica. Esso è inconciliabile con un pensiero post-metafisico che subordini – senza cancellare il confine tra scienza e fede – anche le questioni morali, etiche ed estetiche alla forza discorsiva di una ragione tanto secolare quanto non mutilata.
Proprio su questo punto, Paolo Flores d’Arcais avanza una riserva sommamente controproduttiva. Egli non capisce come – una volta separati con tanta nettezza gli ambiti della scienza e della fede – si possa ancora pensare di poter «tradurre» i contenuti da un linguaggio all’altro. Ora, è certamente vero che, traducendo un pensiero religioso in linguaggio secolare, se ne perdono alcune connotazioni. Interpretando per esempio come «dignità umana» il concetto biblico dell’uomo «fatto a immagine di Dio» noi perdiamo la connotazione della «creaturalità». Ma ciò che conta è non perdere la sostanza del nucleo semantico. Può persino essere utile evocare altri passi biblici: per esempio il giorno del Giudizio, quando severità e misericordia divina scioglieranno il paradosso di una eguale considerazione dell’unicità imparagonabile di ogni storia di vita individuale. Nei casi difficili – per esempio, nella discussione fin troppo emotiva sull’applicabilità della tortura in fatti di terrorismo – solo queste immagini religiose riescono a recuperare sentimenti morali di giustizia (persino agli occhi di chi non è credente) sottraendoli alle macerie dei pregiudizi politici.
Quando reggono al test della discorsività, i giudizi morali giusti recuperano, per così dire, il contenuto proposizionale dei sentimenti corrispondenti. Noi pensiamo che sia questi sentimenti morali sia la capacità di esaminare discorsivamente la generalizzabilità delle norme rappresentino una dote comune a tutte le persone che si credono autori responsabili delle loro azioni. Questo strato di contenuti semantici non dovrebbe rimanere incapsulato nei linguaggi religiosi.
La polemica illuministica contro il potere mondano della religione ci ha fatto dimenticare che il pensiero post-metafisico si è appropriato – in forma critica – di contenuti giudaico-cristiani che non sono affatto meno rilevanti dell’eredità della metafisica greca. Siamo davvero sicuri che questo processo di appropriazione discorsiva, relativamente a contenuti religiosi, debba oggi darsi per concluso? Può il pensiero post-metafisico escludere l’ipotesi che le tradizioni religiose includano in sé potenziali semantici capaci di ispirare l’intera società, una volta che se ne siano esplicitati i contenuti profani di verità? A partire da Kierkegaard, per arrivare fino a Benjamin, Levinas e Derrida, ci sono sempre stati «scrittori religiosi» che – a prescindere dalle loro personali credenze – hanno saputo trasferire contenuti teologici dentro il pensiero secolare.
Che si tratti di un pensiero secolare resta garantito dalla svolta antropocentrica, che si contrappone alla vecchia prospettiva teocentrica. Il fatto che il pensiero post-metafisico si lasci ispirare da contenuti religiosi non comporta alcun indebolimento del confine che separa la fede dal sapere. Le due diverse modalità del «ritenere-vero» restano reciprocamente intatte, anche nell’ipotesi che contenuti semantici passino il confine cambiando di segno. Gli enunciati poggiano infatti su basi giustificative diverse, e si collegano a pretese-di-validità reciprocamente distinte per genere ed estensione.


(traduzione di Leonardo Ceppa)


(1) P. Flores d’Arcais, «Le tentazioni della fede (undici tesi contro Habermas)», MicroMega, volume speciale «Per una riscossa laica», novembre 2007, pp. 3-13.

SocialTwist Tell-a-Friend
Feed Filosofia.it

Cerca tra le risorse

AUDIO



Focus

  • Laicità e filosofia Laicità e filosofia
    Che cosa significa essere laici nel nostro Paese, dove forte è l'influenza politica della Chiesa? Grandi personalità del pensiero e della cultura riflettono, per la prima volta insieme, su questa questione...
    vai alla pagina
  • 1
  • 2

_______________________________________________________________________________________________________________________________________________
www.filosofia.it - reg. ISSN 1722 -9782  Tutti i diritti riservati © 2016