L'autunno delle libertà

L'autunno delle libertà. Lettere ad Ada in morte di Piero Gobetti, a cura di Bartolo Gariglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In occasione della morte di Piero Gobetti, avvenuta in esilio a Parigi il 15 febbraio 1926, le figure più eminenti della cultura e della vita pubblica italiana si strinsero attorno a sua moglie Ada: tra questi, intellettuali come Croce e Fortunato, Salvemini ed Einaudi, Dorso e Salvatorelli, Rosselli e Sraffa; ma anche uomini politici come Sturzo, Tasca, Miglioli e tanti altri. Se, negli scritti degli amici, sotto il profilo umano Gobetti è presentato come una persona amabile e gentile, ma anche ardente di passione e volitiva, sotto quello politico è il prototipo dell’antifascista. L’aureola del martirio fa sì che ad alcuni corrispondenti appaia come una sorta di santo laico e la tomba, come risulta dalle lettere, diventa presto un luogo di culto. Quanti scrivono da Parigi (Prezzolini, Emery, Oberti, la famiglia Nitti) si soffermano sulla malattia, sul rapido decadere fisico: centrale diventa il corpo che Piero, preso dal suo vorticoso impegno intellettuale e politico, aveva tanto trascurato. Particolarmente ricche di pathos sono le lettere delle donne. Ada è al centro delle loro attenzioni, esse esprimono senza filtri sentimenti ed emozioni e appaiono poco interessate al contributo intellettuale del defunto marito. Numerose sono, quindi, le chiavi di lettura che emergono da queste lettere, spesso anche letterariamente pregevoli. La figura di Gobetti è già trascolorata in quel mito che con connotazioni diverse, a seconda delle stagioni politiche e culturali, giungerà vivo sino ai nostri giorni.

Il curatore
Bartolo Gariglio è professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino. Ha compiuto studi sui movimenti politici, sociali, religiosi e sulla storia della stampa nell’Ottocento e nel Novecento. Fa parte del Comitato scientifico della rivista «Italia contemporanea», del Comitato nazionale ministeriale per la pubblicazione degli scritti di Giuseppe Cafasso, del Consiglio direttivo del Centro studi Piero Gobetti. Tra i suoi libri più recenti si ricordano: Con animo di liberale. Piero Gobetti e i popolari. Carteggi (Angeli, Milano 1997) e Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici (ivi, 2004).

L'autunno delle libertà. Lettere ad Ada in morte di Piero Gobetti, a cura di Bartolo Gariglio
Bollati Boringhieri, Torino, 2009
Collana:  Nuova cultura. Introduzioni

Introduzione

In occasione della morte di Piero Gobetti, nel febbraio 1926, le figure più eminenti della cultura e della vita pubblica italiana si strinsero attorno a sua moglie Ada, alla quale inviarono lettere, telegrammi, biglietti, dal tono non formale, nonostante il periodo politicamente difficile, con la ormai avvenuta stabilizzazione al potere del fascismo, di cui lo scrittore politico torinese fu uno dei primi, principali oppositori.

Tra gli autori ricordo intellettuali come Croce e Fortunato, Salvemini ed Einaudi, Berth e Salvatorelli, Solari e Rosselli, Solmi e Sraffa. Ma non mancarono gli uomini politici come Nitti, Sturzo, Casalini, Tasca, Miglioli. Gli autori appartenevano per lo più alle correnti progressiste, ma erano presenti fascisti dichiarati come Balbino Giuliano, professore di Piero Gobetti, sottosegretario nel primo ministero Mussolini.

Come si vedrà, alcuni dei messaggi più ricchi di pathos furono di donne, come Sibilla Aleramo, Antonia Nitti Persico, Rita Crespi, Dolores Prezzolini. Le lettere rivelano lo sgomento e il dolore profondissimo che colpì gli amici alla notizia della morte di Piero, dai più maturi maestri ai più giovani collaboratori. Scriveva per esempio Gaetano Salvemini da Londra il 18 febbraio: «Io non so pensare a questa perdita senza sentirmi oppresso da una angoscia che non ha conforto. E mi immagino quel che Ella debba soffrire, quale strazio disperato sia il suo [...]. Mi sento invecchiato di molti anni. Quel figliuolo era veramente uno dei miei prediletti. Qualcosa di me era passato in lui. In lui mi sentivo rivivere per le parti migliori della
mia anima. Tutto spezzato! Tutto distrutto! Vorrei gridare furiosamente il mio dolore, e non posso».

Edmondo Rho, amico e collaboratore di Piero Gobetti sin dai tempi di «Energie Nove», assiduo frequentatore del suo cenacolo,2 annotava: «La notizia mi ha colpito come una dura mazzata, lasciandomi sbigottito e disperatamente atterrito. Pare impossibile che Egli sia morto. Egli che era il migliore di tutti noi. Solamente ora possiamo capire quanto lo amavamo!». Veniva ricordata la sua figura di animatore e suscitatore di energie. Scriveva Natalino Sapegno il 17 febbraio: «Certo, lo so anch’io, dovrei ora inviarLe parole di conforto, di sollievo, di rassegnazione. Ma come trovarle, ché io stesso non so trattenere le lacrime, se ripenso solo all’amicizia che mi ha legato a lui tanti anni, fra tanti casi tristi, con una comunanza così vasta di sentimenti e di idee, che in lui trovavano l’animatore fervido, energico e capace e in noi solo una troppo debole eco, troppo incerta, troppo incostante e fragile». E scrivendo quasi a nome collettivo degli amici aggiungeva: «Egli è stato per noi un centro, dal quale abbiam tratto volta a volta coraggio per la nostra miseria, aiuto per il nostro dolore, [...] esempio instancabile e saldo». Anche una figura dalla biografia quantomeno contorta e ambigua, come Carlo Silvestri, amico di Turati e di Treves, giornalista prima al «Corriere della Sera» e poi al «Popolo» di Donati, condannato al confino e radiato dall’ordine dei giornalisti per antifascismo, aderente infine nell’inverno 1943 alla Repubblica sociale italiana, attribuiva a Gobetti il merito «di essere stato pungolatore di coscienze, suscitatore di energie, sorgente di coraggio».

Gli amici ricordavano l’antifascista torinese come un maestro, a volte severo, come colui che aveva indicato una strada che andava seguita. Osservava Edmondo Rho: «Egli era per noi più che un amico e un fratello, era un Maestro, era la nostra Anima. È la parte migliore di noi, è la nostra giovinezza che se ne va con lui». E proseguiva: «Egli non è morto per noi, vive nelle nostre anime, negli insegnamenti che ci ha dato, nell’eredità che noi raccogliamo dalle sue mani. Come avrebbe voluto lo commemoriamo: promettendo di continuare per il cammino che ci ha additato, di tener fede ai suoi ammaestramenti, di perpetuare l’opera Sua, perché essa non sia stata vana». Lelio Basso scriveva che si doveva «cercar di imitarlo [...], cercar di seguirlo nell’intransigenza della lotta che Egli combatté». Natalino Sapegno si chiedeva: «Chi ci ridarà il nostro Piero e le sue rudi e franche parole che smascheravano le nostre coscienze e facevan apparire nuda e ripugnante anche a’ nostri occhi che avrebbero voluto evitarla, la nostra viltà? Come potremo credere ancora nell’utilità e nel frutto delle nostre parole e dei nostri gesti, poiché è morto lui, ch’era il migliore di tutti, il solo che sapesse fare e dirigere?». Per Armando Cavalli, Gobetti era «un maestro ed una bandiera nel nome della quale sempre ci siamo onorati di combattere». Per Giorgio Fenoaltea, egli aveva «segnato la strada, fatta di opere egregie, di fede e nobiltà».

Nelle lettere degli amici c’è in nuce l’immagine, che dell’antifascista torinese offrirà Augusto Monti, come nomoteta, il quale come lo spartano Licurgo aveva indicato le leggi da seguire finché non fosse tornato. Poi si era recato in un paese lontano, da cui non aveva fatto più ritorno.

Le lettere, talora molto ampie, appartengono al genere retorico dell’elogio funebre, in questo caso scritto. In esse emerge precocemente il mito di Gobetti. Il modello prevalente mi sembra analogo a quello adottato da Carlo Levi nel noto profilo dedicato allo scrittore politico torinese nel giugno 1933, nel «Quaderno 7 di Giustizia e Libertà»: «Scrivere di Piero Gobetti, significa, per noi della sua generazione, fare della autobiografia [...]; riprendere [...] quelle idee e quelle passioni che, divenute per opera sua patrimonio dei migliori giovani italiani, avevano trasformato le singole storie ideali in un processo comune, in una comune civiltà».4 «Si, in queste parole – è stato osservato – il passaggio dalla memoria privata a quella pubblica, dall’esperienza personale di un privilegio culturale alla condivisione di un’eredità».

Sotto il profilo umano, molti dei corrispondenti ricordavano Piero Gobetti come persona amabile, dolce, gentile, ma anche ardente di passione e volitiva. Cesare Spellanzon lo descrive «sereno, sorridente gentile», Luigi Einaudi «coraggioso e entusiasta». Gino Brosio ne sottolineava «talune doti di simpatia umana, di gentilezza cordiale, di semplice bontà, che, insospettate, si rivelavano nel commercio degli uomini, acquistando durature amicizie e adesioni sincere». Giovanni Golinelli scriveva: «Ciò che più apprezzavo in lui era lo spirito ardente e la franchezza».
Giustino Fortunato affermava: «Egli mi apparve singolarissimo, sia per dirittura morale sia per energia». Moltissimi ne sottolineavano l’intelligenza: Piero Sraffa lo definiva addirittura «la più fulgida luce intellettuale [...] della nuova generazione».
Gobetti veniva visto inoltre come un «carattere», un uomo intransigente, un cultore della libertà, un antitrasformista. Numerosissime sono le testimonianze in questo senso. Gioele Solari, il professore universitario con cui aveva preparato la tesi di laurea, annotava: «Egli vive e vivrà nella memoria di quanti hanno ancora vivo il culto della libertà e del carattere». Terenzio Grandi osservava: «Permettano che io esprima loro tutta la piena mia solidarietà nel dolore e pianga insieme non soltanto la scomparsa di un’intelligenza e di un’attività, ma altresì di un carattere, poiché la sua tenace, nobile resistenza alle insidie di avversari politici e tutta la sua condotta lo renderanno degno di miglior elogio personale». Cesare V. Lodovici sottolineava la «dirittura morale» e il «coraggioso modo del combattere, che mi faceva tanto caro l’amico perduto». Stefano Oberti scriveva: «Giovane, intransigente nella dottrina e nella pratica, affrontatore sereno
di tempeste, rabbioso demolitore di vecchie usanze e di antiche leggende, scrittore fecondo di opere e di idee [...] persona seria infine e in prima linea fra gl’italiani di questo stampo, Piero Gobetti m’ispirava già per questi titoli il più profondo rispetto».

È un profilo prevalentemente morale quello che emerge da queste lettere, ma a ben vedere si tratta di un’analisi anche politica, perché di Gobetti viene proposto un ritratto che è l’esatto opposto di quello che egli aveva offerto del fascismo e dei suoi accoliti.
Per questo egli viene presentato come una speranza per l’Italia del passato, ma anche per quella del futuro, quando l’ondata delle camicie nere sarebbe stata travolta. Scriveva ad Ada Edoardo Giretti, inserendo la figura dello scrittore politico torinese nella tradizione del liberalismo italiano: «Fra le molte e gravi amarezze dell’ora presente [...] era una ragione di bene sperare dell’avvenire del nostro paese il vedere con quanto vigore di intelligenza e con quanta e nobile e coraggiosa tenacia la lotta per il liberalismo è rinnovata e continuata da un gruppo di giovani, fra i quali suo Marito eccelleva. È cosa troppo crudele il pensare che la morte cieca e spietata ha repentinamente troncato in Piero Gobetti, in età così giovanile e pur così matura di sapienza, di esperienza e di opere, una delle più promettenti speranze del rinnovato liberalismo italiano! Con questo sentimento profondo di rammarico; ma pure colla fede che il ricordo di suo Marito continuerà ad essere di incoraggiamento e di sprone a tutti i giovani Italiani, che non sono disposti a rinunciare per sempre al liberalismo, e tanto più lo apprezzano in quanto esso è offeso e dileggiato, la prego, gentile Signora, di considerarmi sinceramente e cordialmente partecipe al dolore suo».
Angelo Tasca, esponente di spicco del gruppo dell’Ordine Nuovo, al cui quotidiano Gobetti aveva, come noto, collaborato in qualità di critico teatrale, scriveva da Asti il 23 febbraio 1926, rivolgendosi all’intera famiglia: «Ero affezionato al povero Piero, che ho avuto il piacere di seguire da vicino nella sua rapida, prodigiosa affermazione nella vita. La sua fine ha tutta la tristezza della giovinezza troncata, fatta maggiore perché non si trattava per lui di “promesse”, ma di un valore già accertato, solido da tutti i punti di vista: morale ed intellettuale».

Ma il concetto era affermato con anche maggior vigore da Carlo Rosselli, futuro leader di Giustizia e Libertà: «Agli amici increduli o dispregiatori opponevo che il movimento di Riv[oluzione] Lib[erale] avrebbe avuto di qui a pochi anni un valore storico. Pur troppo già ora sentiamo tutti che è vero. Una cosa sola la può consolare, Signora, oltre il figliolino che forse varrà un giorno a riempirle la vita: il sapere che veramente il suo insegnamento non andrà perduto. Le assicuro che non lo dico per retorica. Piero Gobetti è ormai una divisa, un programma di vita. Sono certo che tra dieci, vent’anni, quando ciò che ci opprime e ci umilia sarà crollato egli sarà ricordato come uno dei più nobili ed efficaci precursori».

Molti corrispondenti sottolineavano la totale adesione alla vita di Piero Gobetti, che si manifestava con un entusiasmo che non conosceva prudenze, nel dare realizzazione a quanto urgeva nel profondo: Natalino Sapegno ricordava l’«attività furiosa e meravigliosa, la quale doveva, ahimè! rapircelo». È un aspetto evidenziato anche da chi viveva a Parigi e fu testimone degli ultimi giorni di Piero. Scriveva Giuseppe Prezzolini: «Tutto rispondeva in lui a questo francescanesimo non curante degli agi e persino delle necessità, pur di raggiungere il suo scopo. E lo scopo era quello di continuare qui la sua attività editrice, come già mi aveva scritto, appena ricevuta la diffida [...]. Non voleva perdere un minuto; e soltanto due giorni prima di morire, arrendendosi alla realtà del male, ammetteva di dover riposare un mesetto». Stefano Oberti lo descriveva così negli ultimi giorni:
«Piero Gobetti lavorava infaticabilmente pensando, leggendo o scrivendo; sembrava quasi che i battiti fatali del cuore avessero accelerato il ritmo delle Sue idee creatrici». Piero Gobetti pareva identificarsi totalmente con la sua missione, quasi «rapito». Il concetto è espresso con particolare chiarezza da Angelo Crespi: «È tanto raro l’imbattersi in anime così pienamente dedicate, così possedute e rapite dalla vita dello spirito, così indissolubilmente pensiero ed azione, che la loro visibile scomparsa dà un senso indescrivibile di vuoto, di sprofondamento!».
In questo contesto quasi sacrale appariva l’impegno con cui Gobetti aveva vissuto la sua missione: egli aveva affrontato problemi universali e perciò, scriveva il liberale e cattolico Papafava, «valori eterni».

In questa prospettiva, da parecchi corrispondenti Gobetti veniva considerato una sorta di santo laico e non erano in pochi a chiedere ad Ada una fotografia del marito. Tra questi ricordo Oreste Ciattino, Pietro Fillak, Rocco Santacroce, Leonello Vincenti.
Lelio Basso era addirittura disposto a recarsi da Milano a Torino, per ritirarla e porla accanto a quella di Matteotti, l’altro grande martire dell’antifascismo. Scriveva infatti ad Ada il 25 febbraio: «Ed ora oserei chiederLe un favore: desidererei conservare accanto a quella di Giacomo Matteotti, l’effigie dell’indimenticabile Piero, e Le sarò quindi sommamente tenuto s’Ella vorrà cortesemente donarmi una sua fotografia. Ov’Ella creda che un’eventuale spedizione a mezzo posta possa sciupare il ritratto, non avrei nessuna difficoltà a venirlo a ritirare personalmente a Torino». Anche Walter Rudolph, compagno di studi di Ada, istituiva un collegamento tra Matteotti e Gobetti, i due martiri, le due icone dell’antifascismo: «Nei cuori della gioventù d’Italia non facilmente saranno estirpati i nomi di Matteotti e di Gobetti: Matteotti martire della libertà, Gobetti segnacolo della rivincita degli studi sul dilettantismo, della serietà sulla faciloneria, del buon senso sull’infatuazione, dell’amore la gran parola è detta – sull’odio».

In questo contesto, non stupisce che in molte lettere si ritrovi la promessa di continuare la battaglia dell’antifascista torinese. Ciò aveva valore per il futuro, ma anche per l’immediato, nel tentativo di salvarne l’attività editoriale e la rivista superstite. Come noto, tra gli amici più stretti si pensò a caldo di chiudere l’esperienza del «Baretti» e delle sue edizioni, tanto, come ha scritto Ersilia Alessandrone Perona, l’«azione culturale e politica» di Piero Gobetti appariva «come unica, non riproducibile». Ma tra i corrispondenti c’era chi reagiva a questo proposito, poi non realizzato, come l’ex democratico cristiano Armando Cavalli, uno dei più assidui collaboratori della «Rivoluzione Liberale», amico di Giuseppe Donati. Egli scriveva a Piero Zanetti il 22 febbraio:
«Mi permetta [...] di esprimerle il mio contrario parere a proposito del “Baretti” e della Casa Editrice. È vero che tanto l’uno che l’altra erano creature del nostro povero amico, ma non è affatto vero che anche morto Lui, non abbiano ragione d’esistere. Anzi bisogna che continuino ad esistere per non far perdere al pubblico la memoria dell’Estinto, che deve in tal modo continuare a vivere in mezzo a noi che abbiamo il dovere di continuare la battaglia d’idee così bene avviata. Così penso e così sento, ed a ciò informo la mia azione. Per questo Le mando assieme a questa mia, un articolo pel “Baretti” che non deve a nessun costo morire. Se anche fosse vero – il che non è – che il “Baretti” non è “Riv[oluzione] Lib[erale]”, può tuttavia diventarlo qualora il nostro amore pel giovane grande estinto si tramuti in volontà concorde e fattiva». Anche Leonello Vincenti si dichiarava disponibile a preparare articoli per il «Baretti».

Una tonalità particolare assunsero le lettere di quanti scrivevano da Parigi: Emery, Oberti, Prezzolini:9 essi assistettero all’intensa attività degli ultimi giorni, poi al riemergere della malattia, infine alla morte. Piero Gobetti, tutto assorbito in un impegno che alcuni giudicarono prodigioso, non aveva mai dedicato molta attenzione alla sua dimensione fisica, al suo corpo. Anche gli scompensi cardiaci, che si erano manifestati nel novembre 1925 e che lo avevano costretto a letto, gli sembrava potessero essere dominati e superati nell’azione. Prima di partire per l’esilio aveva rassicurato Ada: «Non ti devi preoccupare per la mia salute. Sai che questa è una circostanza empirica che la mia volontà ha sempre saputo e saprà dominare. Il nuovo, libero lavoro mi darà calma e gioia, mi farà guarire. Non tremare, abbi fede in me».10 Ora, nel letto d’ospedale, sentiva il suo corpo e ne aveva paura. Scriveva Giuseppe Prezzolini: «Disse che non si era mai sentito così male [...]. Era meravigliato di un fischio che sentiva nel petto, ed uscì a dire: “Mi fa paura sentire il mio corpo”». Anche il suo aspetto fisico sembrava trasformarsi. Ciò non sfuggiva all’ex direttore della «Voce»: «Nel pomeriggio dell’ultimo giorno era spossato, la testa gli ricadeva giù, preso da sonnolenza; ma se la rialzava e ci vedeva, un sorriso, il suo bel sorriso puro di cherubino, rianimava il suo volto [...]. Il suo volto, da vivo, e dopo, non uscirà mai dalla mia memoria. Somigliava, quando riposò con la coltre fino al mento, al volto del Leopardi».

Di particolare bellezza, come ho sottolineato, sono le lettere delle donne, siano esse presenti che lontane da Parigi. Sibilla Aleramo si pone come campionessa di un modo tutto femminile e non formale di scrivere. Intanto colpisce la sequenza di due telegrammi11 e poi di una lettera: è emotiva persino nella sequenza degli scritti, con un crescendo di partecipazione. La lettera non segue alcun filo logico nel suo svolgersi: sono frasi buttate sul foglio, come sospiri o lacrime, intervallate da puntini di sospensione che celano una miriade di altri pensieri ed emozioni. La Aleramo si consegna, quindi, nei suoi scritti, sotto il segno della discontinuità e della frammentazione. Nella lettera continua a spostare la sua attenzione da Piero ad Ada e poi a se stessa, in un caleidoscopio di emozioni ininterrotte, quasi indifferente all’oggetto continuamente mutevole dei suoi pensieri.

Nel suo scritto si ritrova una caratteristica che accomuna tutte le lettere delle donne: è Ada al centro del discorso e di ogni premura, mentre gli uomini, pur deferenti verso di lei, sembrano confrontarsi unicamente con lo scomparso marito. È significativo, sul finire della lettera, il riferimento quasi ossessivo ad Ada: «Mi scriva, appena ne avrà forza – se le darà un po’ di sollievo. Mi dica che cosa farà. Vorrei vederla».. Stessa attenzione ad Ada si trova nelle parole di Luisa Viora, vedova Sapegno: «La penso come può pensarla la mamma e vorrei farle sentire la mia carezza».

Solo le donne sottolineavano il posto che Ada aveva nella vita di Gobetti. Lo faceva Antonia Nitti Persico, che individuava nell’assenza di Ada da Parigi una concausa della sofferenza di Piero:
«Suo marito però non sta sempre bene: ha delle depressioni, un po’ di disordine cardiaco e soprattutto si annoia, solo, in paese straniero. In talune condizioni fisiche, un viso amato, un’assistenza familiare cara possono più di qualsiasi medicina. Mi consente di darle un consiglio? Poiché Ella ha deciso di venire a Parigi, perché non viene subito? Credo che sarebbe la guarigione immediata di Gobetti». Ma è soprattutto Paola Guglielmotto che ci riconsegna un Piero diverso. Oberti, con un atteggiamento tutto
maschile, si limitava a dire: «La famiglia formava il tema di qualche frase, il bambino il pretesto a qualche sorriso. Gobetti cercava di non dar a vedere il suo amore riconoscente ed affettuoso per la moglie. Ma una cosa non riusciva a celare anche col silenzio: Egli era orgoglioso di Suo figlio» (p. 000). Paola Guglielmotto, invece, così lo descriveva: «Il primo sabato che era a Paris è venuto da noi. Si parlò naturalmente di te e del tuo bambino poi discorremmo di tante altre cose, ma naturalmente si cadeva sempre nel medesimo tasto e dal primo momento (figurati dalle 8 1/2 si fermò sino le 11) l’unico suo desiderio era d’averti costà. [...] con me poteva meglio chiacchierare di te, che forse non tanto con gli amici, [...] e sempre vedo con che entusiasmo mi parlava della sua Ada».

Se verso Gobetti defunto Salvemini sembrava provare un dolore quasi paterno: «A me pare di aver perduto una radice nella vita», Dolores Prezzolini verso Piero sofferente manifestava un atteggiamento materno. Quando l’ultimo giorno della sua vita, questi non riusciva più a leggere, ella prese un libro e lesse qualche passo: «Rinchiuse ancora – scrisse – i dolci occhi e si riassopì. Ogni tanto si destava e mi faceva un grande, buon sorriso».

Tra quanti inviarono messaggi ad Ada si ritrovano esponenti di tutte le tradizioni politiche e culturali che si contesero l’eredità di Gobetti, o parti di essa, nel periodo tra le due guerre e nell’Italia repubblicana, dai liberali ai futuri giellisti, ai comunisti. Se tra i primi sono presenti tutte le figure storiche, da Luigi Einaudi a Edoardo Giretti,13 i secondi sono rappresentati oltreché, come si è visto, da Carlo Rosselli, e dal fratello Nello, da uomini come Max Ascoli, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Mario Vinciguerra, per non parlare che dei maggiori. Tra i comunisti ricordo Angelo Tasca e Mario Montagnana, che scrisse anche a nome delle «redazioni dell’ex “Ordine Nuovo” e dell’“Unità”»: ma altri aderirono al partito in seguito, come Sibilla Aleramo, o vennero eletti nel secondo dopoguerra come indipendenti nelle file del Pci, come Luciano Mastronardi, il padre del romanziere Lucio.

Se, dati i rapporti con Gramsci e il gruppo dell’Ordine Nuovo, la presenza comunista era in certo senso scontata, tra i corrispondenti stupisce il numero davvero notevole di quanti provenivano dalle file del socialismo: si trattava non solo di socialisti critici come Ermanno Bartellini e Lelio Basso, ma anche di riformisti come Giulio Casalini, Domenico Chiaramello, Biagio Riguzzi e di massimalisti, tra cui Guido Mazzali. Anche in questa luce andrebbero perciò ripensati i rapporti tra Gobetti e i socialisti italiani, sinora troppo influenzati dal giudizio negativo espresso dal direttore della «Rivoluzione Liberale» su Turati e Treves sino al delitto Matteotti. Non pochi furono, poi, i cattolici: da Luigi Sturzo ad Angelo Crespi, da Igino Giordani a Vito G. Galati, da Armando Cavalli a Guido Miglioli. Ma, come è noto, nonostante le collaborazioni avvenute nel primo dopoguerra, la cultura cattolica egemonizzata dalla Democrazia cristiana rimase nel periodo repubblicano in larga misura estranea alla elaborazione gobettiana.

Tra le figure professionali, numerosi sono gli editori, segno evidente del prestigio che Gobetti aveva ormai conseguito tra di loro. Molti lo consideravano un collega, anzi un «valoroso collega», come scrisse Giovanni Laterza, editore di Croce e di tanti gobettiani. Enrico Bemporad lo definì, invece, «una delle migliori intelligenze d’Italia, delle più fervide, delle più operose» .

Parecchi sono gli episodi di pietas, nei confronti del defunto, che emergono nelle lettere. Particolarmente toccanti erano le parole di Dolores Prezzolini, che scrisse ad Ada qualche mese più tardi:
«Questo è un ramoscello d’edera che abbiamo staccato dalla tomba del suo povero Piero per mandarlo a Lei. Piccola cosa, povera cosa, ma il suo Piero è tutto protetto ora da questa coperta verde folta, che lo ripara in tutta la lunghezza del suo povero fragile corpo, che lo abbraccia e lo protegge fedelmente coi suoi mille piccoli rami [...] e tutto il suo letto è verde [...]. Non è solo il suo Piero, Signora, qui, la sua presenza è viva in noi – sempre». Bongioanni, nell’impossibilità di farlo personalmente, inviava a depositare dei fiori sulla tomba di Piero un’amica francese, una per noi sconosciuta Valentine, che sarebbe tornata finché – scrive – non si fosse potuto recare egli stesso.16 La tomba dell’antifascista torinese viene descritta come sempre curata e fiorita: evidentemente era presto diventata un luogo di culto.

Numerose sono quindi le chiavi di lettura, che emergono da queste lettere, spesso anche letterariamente pregevoli. È una figura ricca, intensa quella di Gobetti, già trascolorata in quel mito che con connotazioni diverse, a seconda delle stagioni politiche e culturali, giungerà vivo sino ai nostri giorni.

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