La cultura del nuovo capitalismo

Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo Il Mulino, Bologna, 2006

Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo
Il Mulino, Bologna, 2006

Fuori dalla "gabbia d'acciaio". Il nuovo capitalismo secondo Sennett
di Vincenzo Bitti

Richard Sennett si è sempre occupato di tematiche legate alla vita urbana e alla complessità sociale privilegiando il punto di vista dell’individuo. Un motivo di fondo del suo lavoro è l’analisi delle profonde contraddizioni implicite nelle forme di liberismo economico che si sono andate affermando negli ultimi decenni. In generale Sennett ha messo in evidenza come le politiche liberiste hanno prodotto conseguenze nefaste sulle persone minandone il carattere morale, virtù che è elemento imprescindibile del pensiero conservatore e liberista.

Sennett è un sociologo dalla forte vena etnografica, il suo campo privilegiato è il mondo del lavoro. Gia nel 1999 con L’uomo flessibile ci ha restituito il “livello umano” dell’epoca del “capitalismo flessibile”, descrivendo gli effetti delle nuove condizioni economiche sulle vite e le psicologie delle persone; The Corrosion of Character era in realtà l’incisivo titolo originale della versione inglese. Nelle pagine di Sennett a parlare sono soprattutto i diretti interessati, attraverso interviste, dialoghi informali e incontri sul campo. Dalle loro parole Sennett estrae una cartografia concreta della condizione contemporanea del mondo del lavoro, anche se nei suoi libri è spesso presente una vena narrativa che non disdegna l’inserto autobiografico e la riflessione personale.

In quest’ultimo lavoro, derivato dalle Castle Lectures tenute alla Yale University nel 2004, Sennett lascia un po’ da parte la vivacità del resoconto etnografico per tentare una sintesi più ampia di quanto è andato indagando in anni di ricerca sul campo, per delineare i caratteri generali della “cultura” del capitalismo contemporaneo. L’idea di “cultura” a cui Sennett sembra riferirsi oscilla tra il ritratto di una “mentalità” e il concetto semiotico e “interpretativo” dell’antropologia geertziana come insieme di valori che danno senso al mondo: una certa idea del tempo, del lavoro e del consumo sono i cardini intorno a cui ruota il discorso di Sennet.

Fuori dalla “gabbia d’acciaio”

La cultura del “nuovo capitalismo” procede dalla trasformazione del “vecchio”, ed è la metafora weberiana della “gabbia d’acciaio” che Sennett utilizza per fotografare la struttura organizzativa di quest’ultimo. La gabbia d’acciaio è la rigida macchina burocratica dello stato e dell’impresa come si è era andata sviluppando dalla fine dell’Ottocento in poi e che Weber ha ben descritto nei sui lavori nei primi del Novecento.

Tale modello si basava sulla militarizzazione delle imprese e delle istituzioni in cui ognuno ha il suo posto e adempie a una ben determinata funzione con compiti rigidamente fissati. Il fine di questo modello era l’integrazione sociale delle masse e le pacificazione sociale contro le tendenze rivoluzionarie che si agitavano a quei tempi: «Il lavoratore che sa di avere una posizione sicura, per quanto povero possa essere, sarà meno propenso a ribellarsi di un lavoratore che non capisce il senso della propria posizione nella società. Fu questo il fondamento politico del capitalismo sociale» (p. 21).

Ma il cardine di questo capitalismo sociale era soprattutto una ben precisa concezione del tempo: a lungo termine, incrementale, prevedibile e razionalizzato, in cui il singolo individuo poteva pensare alla propria vita come a una narrazione con una scansione esistenziale abbastanza probabile: “un racconto non tanto di ciò che accadrà necessariamente, ma di come le cose dovrebbero accadere, secondo un ordine dell’esperienza”.

Il cuore dell’etica protestante, così come Weber l’ha descritta, era il differimento della gratificazione immediata a favore di obiettivi a lungo termine: “gli uomini si murano all’interno di istituzioni rigide poiché sperano in una ricompensa futura”. Le persone all’interno di questo tempo strutturato dell’istituzione potevano costruirsi una biografia e delle relazioni sociali, anche se «Il prezzo che gli individui pagavano per questo tempo organizzato poteva essere la libertà oppure l’originalità. “La gabbia d’acciaio” era tanto una prigione quanto una casa» (p. 133).

Il tono di Sennett non è comunque né nostalgico né conservatore, il libro offre piuttosto una comparazione tra vecchio e nuovo, in cui quest’ultimo non sembra comunque avere granché di positivo. Sennett ha fatto parte di quanti nella New Left, dagli anni Sessanta in poi, hanno creduto e combattuto per una democrazia partecipata contro le rigide burocrazie dello Stato e dell’impresa che mortificavano l’individuo. All’inizio del libro viene ricordato il Port Huron Statement (1962) uno degli atti fondativi della nuova sinistra, fortemente critico nei confronti degli apparati burocratici sia del socialismo di Stato che delle multinazionali. La libertà auspicata in quel documento è stata in parte realizzata, ma, osserva Sennett, in maniera perversa: “I contestatori dei miei tempi credevano che smantellando le istituzioni si potessero produrre della comunità: relazioni faccia a faccia di fiducia e solidarietà, costantemente rinegoziate”. Niente di tutto questo sembra essere accaduto.

Nel volgere di pochi anni l’individuo è stato effettivamente liberato, almeno in parte, dalla gabbia d’acciaio dell’impresa e dello Stato, ma al suo posto non sono sorte comunità più libere e nessuna democrazia partecipativa sembra essersi sostituite ad essa. L’individuo si è trovato soltanto più solo a gestire la flessibilità e la frammentarietà della propria esperienza di vita, particolarmente nella sfera del lavoro. I valori dominanti delle grandi imprese hanno cambiato radicalmente il segno, alla stabilità, alla staticità delle pesanti burocrazie e delle routine industriali sono subentrati criteri di organizzazione del mondo del lavoro diametralmente opposti: flessibilità e leggerezza sono ora le parole d’ordine della cultura del nuovo capitalismo. Ma il singolo non sembra averne ricavato maggiore libertà o possibilità di scelta, sono piuttosto l’insicurezza e l’ansia per il futuro ad essere oggi i sentimenti più diffusi.

Il “nuovo capitalismo”

Diverse forze hanno contribuito allo sgretolamento della gabbia d’acciaio del vecchio capitalismo. Un primo fondamentale elemento è stato lo sviluppo del “capitalismo azionistico” che ha implicato nuove forme di governo delle imprese, che non avendo più il controllo finanziario su se stesse, sono diventate ostaggio di investitori esterni da cui dipendono: il potere effettivo è passato dalle mani dei manager interni all’azienda stessa, agli azionisti in cerca del massimo profitto nel minor tempo possibile. Ne è risultato un “capitalismo impaziente” dominato dalla frenesia dei mercati azionari per i quali le imprese devono cercare di “farsi belle”; dimostrare di saper essere al passo di sapere e non aver paura di cambiare. I licenziamenti per “fini borsistici” sono uno dei tragici effetti di questo nuovo corso.

Il criterio del successo economico dell’azienda non sono più i dividendi delle azioni a lungo termine, ma il loro andamento quotidiano. «Un fenomeno che ha toccato il culmine con il boom tecnologico degli anni Novanta, quando alcune aziende hanno visto una crescita rapidissima delle loro quotazioni pur non realizzando profitti» (p. 33). Se il vecchio Rockfeller assicurava i mercati eliminando la concorrenza e le tendenze al cambiamento, ora è la disponibilità a destabilizzare la propria organizzazione ad essere considerato un fattore positivo. Il cambiamento perpetuo, la volontà di ristrutturare e “razionalizzare”, vengono considerati elementi di successo dell’azienda.

Un secondo elemento è lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione. Sul piano della struttura aziendale tali tecnologie rendono obsoleti e superflui gran parte dei quadri intermedi del personale che popolavano la piramide burocratica della grande impresa. Attraverso le nuove tecnologie, che forniscono istantaneamente il quadro sinottico dello stato dell’azienda, il personale demandato all’interpretazione e alla mediazione tra il centro e la base diventa inutile e superfluo. La tecnologia inoltre rende l’esercizio del controllo e la comunicazione da parte dei vertici immediato e diretto: «L’e-mail e i suoi derivati riducono la mediazione e l’interpretazione dei comandi e delle regole che passano testualmente attraverso la catena di comando» (p. 35).

L’automazione poi rende superflua una gran massa di lavoratori non-specializzati, viene meno così uno dei fini fondamentali del capitalismo sociale: l’integrazione delle masse.. L’automazione coinvolge sia i quadri impiegatizi sostituiti dai software dell’office automation, sia i lavoratori manuali, i primi ad essere stati colpiti dallo sviluppo tecnologico.

Un esempio concreto di questa nuova centralizzazione si materializza nei percorsi di un cliente tra i reparti di un Wal-Mart o di qualche altro grande magazzino dove il “commesso” inteso come categoria è scomparso dal processo del consumo, non c’è più mediazione e persuasione a tu per tu. Il consumatore è sempre più spesso lasciato solo in un rapporto diretto con le merci: «In questo l’azienda assomiglia ad altre burocrazie evolute, che hanno cancellato i livelli intermedi del personale, a cui prima erano affidati compiti interpretativi. La decisione su quale prodotto a basso costo acquistare è ora affidata all’offerta visibile e al marketing globale».

Una voce “fuori dal coro” quella di Sennett , rispetto alla retorica celebratoria che circonda le nuove tecnologie, che mette in evidenza gli effetti “non progressisti” di tali strumenti.

Dalla piramide all’Ipod

Alla struttura piramidale della vecchia azienda si sostituisce un nuovo modello organizzativo, per il quale Sennett utilizza una curiosa analogia: il lettore MP3 . Questo dispositivo ha la caratteristica di poter essere programmato in maniera estremamente flessibile: per eseguire in qualsiasi ordine un certo numero di brani. L’accesso può essere diretto o casuale, si può saltare da un punto all’altro a piacimento dell’ascoltatore, non c’è un nastro da mandare fisicamente avanti o indietro o un braccetto di giradischi da spostare. Allo stesso modo il centro dell’azienda può decidere come, quanti e per quanto tempo utilizzare i suoi lavoratori a seconda delle esigenze e delle convenienze del mercato.

Una conseguenza di questo nuova organizzazione è la separazione della base dal centro sia in termini fisici che economici. La delocalizzazione della forza lavoro e l’enorme e crescente divario tra gli stipendi dei manager e degli impiegati sono gli effetti più vistosi dell’azienda stile MP3. Dalla struttura piramidale del vecchio capitalismo a quella a rete (il popolo delle partite IVA, i collaboratori a progetto) in cui la maggior parte dei nodi non hanno alcun potere di tessere alcun filo. È in fondo il modello della globalizzazione della dislocazione della forza lavoro da parte dell’azienda, la dove conviene di più: «Tra i cucitori di scarpe tailandesi e gli stilisti milanesi non c’è alcuna relazione sociale. Come dice George Soros, la loro non è una relazione, ma una transazione». (p. 43). Spesso in questo tipo di organizzazioni anche l’autorità viene separata dal controllo, il potere decisionale è spesso demandato (temporaneamente) a “consulenti” che si assumono la responsabilità a “breve termine” di provvedimenti che trasformano l’azienda e il destino dei lavoratori.

In questo tipo di contesto l’individuo deve saper improvvisare la propria biografia, cavarsela senza pretendere che il senso della propria identità trovi sempre delle conferme, deve saper gestire relazioni a breve termine, vagando da un’attività all’altra, da un lavoro all’altro, da un luogo all’altro: le istituzioni non costituiscono più un quadro stabile a lungo termine che possa fornire una base.

Uno spettro si aggira: l’inutilità

Il lavoro non è un possesso e non ha più un contenuto fisso, cambia completamente fisionomia rispetto all’ “ufficio” dell’istituzione weberiana. L’effetto combinato dell’automazione con l’offerta di forza lavoro a livello globale rende vane le strategie di avanzamento o di mera sopravvivenza basate sulla formazione, sull’investimento scolastico o le qualificazioni specifiche. L’obsolescenza delle qualifiche, la loro breve durata è intrinseca al progresso tecnologico, l’automazione è indifferente all’esperienza. Il “mantra” della qualifica e del titolo di studio come leva di progresso sociale non vale più di tanto.

In questa direzione si comprende il nuovo valore dato alla “potenzialità” dell’individuo, altra parola chiave del “nuovo capitalismo”, piuttosto che alla capacità di saper fare effettivamente qualcosa tipica dell’artigiano. Le organizzazioni nelle quali i contenuti cambiano continuamente richiedono duttilità e flessibilità nelle capacità di risolvere i problemi e adattarsi a condizioni incessantemente mutevoli: adattarsi a lavorare con persone sempre diverse, creare lo spirito giusto: sono queste le capacità “potenziali” che occorrono all’impresa flessibile del capitalismo contemporaneo.
La selezione è dunque demandata a un criterio più sottile e perverso: la potenzialità. Dire “ ti manca il potenziale «è molto più devastante dell’affermazione “hai combinato un pasticcio”, perché contiene un giudizio di fondo su chi tu sei. Essa comunica la percezione dell’inutilità in un senso più profondo» (p. 92).

Consumatori e artigiani

Un altro elemento della cultura del nuovo capitalismo che pervade trasversalmente numerosi ambiti del vivere sociale, è individuato da Senett in un certo modo di “consumare” che esalta la superficialità e la frenesia del cambiamento come valore fine a se stesso. Dalla politica all’economia fino alla “liquidità” della vita intima, il consumo declinato in modalità diverse, è l’altro minimo comune denominatore dei nostri tempi.

Il consumo come passione divoratrice lo ritroviamo nelle identità del lavoro che si consumano e si esauriscono quando le aziende cambiano, che nella frenesia di rinnovamento e ansia di rimettersi in gioco delle aziende stesse: «Molte ristrutturazioni aziendali hanno sotto vari aspetti il carattere, analogo, di una passione che consuma se stessa, soprattutto là dove si opera nella prospettiva delle “sinergie”, cioè delle unioni tra imprese» (p. 105).

Un aspetto della cultura del consumo contemporanea è quello della “tecnica di piattaforma”: a un prodotto base più o meno simile vengono aggiunte piccole differenze, per renderlo unico e appetibile. È la “doratura”, che diventa più importante del prodotto stesso e che sta alla base della creazione del marchio, alla cui creazione è fondamentale l’apporto immaginativo del “consumatore” stesso. Il marketing ha proprio come fine l’esaltazione delle “piccole differenze” inducendo nel consumatore un’attenzione agli aspetti superficiali del prodotto.

Anche le piattaforme politiche dei nostri tempi, i programmi elettorali di destra e di sinistra tendono sempre più a somigliarsi, ma a differenziarsi per una forma di “doratura politica” . Il marketing politico e la retorica dei partiti in competizione ha proprio il compito di accentuare le piccole differenze, di dirigere l’attenzione su aspetti marginali: «In Gran Bretagna i partiti hanno preso posizioni radicalmente diverse sulla questione se consentire o meno la caccia alla volpe con i cani. Recentemente, il parlamento ha dedicato circa settecento ore ala discussione a questo problema mentre il dibattito sulla creazione di una Corte suprema per il Regno Unito è durato diciotto ore» (121).

Proposte

Un perno del discorso di Sennett è l’individuo, la sua biografia come identità che si snoda nel tempo. La difficoltà di costruire una propria biografia coerente è il risultato delle nuove condizioni in cui l’insicurezza è un dato destinato a durare, che anzi è programmata nelle burocrazie delle nuove istituzioni.

Quali contromisure sono possibili? Le strategie da adottare devono avere come scopo quello di ridare un continuum biografico alle persone. Creare “istituzioni parallele” che cerchino di dare ai lavoratori la continuità e la durevolezza che mancano nelle organizzazioni flessibili. Secondo Sennett potrebbe essere il nuovo ruolo del sindacato, in veste di agenzia di collocamento e ricollocamento, che si faccia seriamente carico della difesa non solo di chi ha un posto di lavoro, ma anche di chi non lo ha o lo ha a intermittenza.

Un'altra ardita proposta è quella del reddito minimo di base per tutti:
«In questo modo lo Stato, con le tasse, garantirebbe a ognuno un livello minimo di qualità della vita, ma scomparirebbe lo Stato-Balia. Se getti i tuoi soldi dalla finestra, sono affari tuoi. Inoltre , ognuno riceverebbe il reddito minimo, indipendentemente dal fatto che lo usi o no, in questo modo scomparirebbe il test d’indigenza». (p. 138).

Un ultima proposta di Sennett, ma sembra più un consiglio, è quella di recuperare in un qualche modo lo spirito dell’artigiano del fare bene qualcosa come fine a se stesso, anche senza aspettarsi di ricevere nulla in cambio, come ancoraggio di senso in una cultura diffusa che esalta sempre più la superficialità.

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