Santi, profeti e visionari

André Vauchez, Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo
Il Mulino, Bologna, 2000

di Carlo Moggia

Era il 1924 quando uscì, per opera di M. Bloch, il volume pionieristico Les rois thaumaturges. Fu questa la prima indagine, condotta con metodologia rigorosa ed esatta, riguardante il “meraviglioso” ed il “soprannaturale” nel Medioevo. Prima di Bloch lo studio di tali fenomeni, sulla scorta delle dottrine positivistiche, fu condotto infatti all’insegna del folklorismo o dell’aneddotica. Effettivamente Bloch diede un impulso forte all’interpretazione del meraviglioso, secondo le categorie mentali e culturali dei secoli XI e XII: dopo di lui, anche grazie al “boom” degli studi sulla storia della mentalità e della religione popolare, in particolare dagli anni ’60 del secolo scorso, molteplici furono i lavori di rilievo inerenti tali tematiche. Un posto particolare meritano lo studio di J. Le Goff, Le merveilleux dans l’Occident médieval, pubblicato nel 1978 ed il volume di A. Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Age. Proprio quest’ultimo, sulla linea di continuità del primo volume, è l’autore di questo altro interessante saggio sul concetto di santità nel Medioevo.
L’autore, nella prima parte del volume delinea l’evoluzione del concetto di santità in Occidente. Egli basa la sua riflessione dimostrando dapprima come la santità non si discosti, fin dai primi secoli del Medioevo, dal concetto di potere: questa fu sentita, tanto in Oriente quanto in Occidente, come un potere, da parte di un uomo o di una donna, in grado di agire in favore di una comunità o di alcuni individui. Non a caso, come l’autore dimostra, le comunità stesse si rivolgono al santo, in genere un eremita, per ottenere la risoluzione dei conflitti sociali. Celebre è l’esempio degli abitanti di Sulmona, nell’Abruzzo, i quali durante l’inverno, organizzavano battute in montagna, per tenere aperta la via -ed il contatto- che conduceva a san Pietro da Morrone, l’eremita divenuto poi papa Celestino V. Non è neppure un caso che le città, sede di un santo, o presunto tale, durante il Medioevo, non rinuncino alle spoglie di esso, dopo la morte, per poter continuare, attraverso di esse a beneficiare della protezione divina.
Il potere è dunque nelle mani del santo, tramite privilegiato verso Dio: egli, come sottolineato da P. Brown, non è santo per se stesso, ma per gli altri. È per tale motivo che il culto dei Santi, in Occidente, ha avuto tanto successo. D’altronde ciò non deve stupire più di tanto se pensiamo che per il Cristianesimo, la divinizzazione dell’uomo tramite l’incarnazione di Dio in Cristo, rappresenta uno dei fondamenti di tale religione. La Chiesa si servì largamente del culto dei Santi e delle loro reliquie durante i primi secoli del Medioevo; come nel mondo rurale si necessitava, infatti, di un valido strumento, da affiancare alla pastorale, per eliminare le ultime credenze pagane ancora radicate nella popolazione, così in città si doveva convincere, in modo definitivo, che i vescovi rappresentassero i successori degli evergetes dell’antichità, in chiave non solo terrena, ma ultraterrena. Da qui lo sviluppo di culti popolari legati non solo a santi monaci, ma anche a laici, eremiti, anacoreti, ma soprattutto anche a nobili, re e principi. Numerosi sono i sovrani che in questo periodo (VIII-X secolo) assurgono ad odore di santità: nobili fondatori di chiese ed abbazie, fino a personaggi del calibro di Stefano d’Ungheria e Olaf di Norvegia, cristianizzatori di interi popoli. Intorno al Mille il modello occidentale di santità, contrariamente ai secoli precedenti, si è orientato sulla sacralizzazione dei natali, sulla ricchezza e sulla nobiltà, in particolare dell’aristocrazia, progressivamente più attiva all’interno della Chiesa e del quadro del monachesimo riformatore.
La situazione si modificò a partire dall’XI secolo, in concomitanza con la cosiddetta “Riforma Gregoriana”: la necessità di porre un freno alla “laicizzazione” delle strutture ecclesiastiche e all’ingerenza della aristocrazia sulla nomina del clero secolare e regolare, spinse le gerarchie della Chiesa ad un controllo più efficace sul culto dei santi. Vauchez dimostra come tra 1170 e 1234 fu progressivamente istituita la riserva pontificia sulle procedure di canonizzazione: in poche parole solo il papa, in ultimo, poteva decidere la santità di un personaggio e autorizzare ufficialmente il suo culto.
Si capisce come tale provvedimento rappresentasse per la Chiesa un efficace mezzo di controllo e selezione sociale, nonché politico, poiché la canonizzazione di questo o quel santo diventava strumento di azione politica: nel promuovere determinate prassi liturgiche o pastorali, o, di contro, nel combattere pericolosi focolai di eresia (si pensi ai Catari in Francia). Per i pontefici, in questo periodo, è essenziale non tanto il miracolo (che il papa avrebbe approvato solo se avvenuti post mortem), quanto che il presunto santo risponda alle necessità della Chiesa e alle sue istanze ortodosse. Questo spiega la rapidità con la quale furono canonizzati i fondatori degli Ordini Mendicanti di spicco -san Francesco e san Domenico- , che unitamente all’ideale di povertà associavano lo zelo apostolico e una sottomissione all’istituzione ecclesiale.
Nella seconda parte del libro l’autore analizza le tipologie e la natura del miracolo nei secoli centrali del Medioevo, dimostrando la predominanza di quelli legati alla guarigione. Si può così scoprire, mettendo al servizio le fonti agiografiche allo studio della società del tempo, l’incidenza di determinate malattie o le realtà economiche e sociali. Lo storico francese P.A. Sigal, studiando la Francia nei secoli XI e XII, ha constatato che i paralitici rappresentano un terzo dei miracolati totali; di seguito vi sono i ciechi (17%), i sordomuti (11%) e i malati di mente (8%): la maggioranza dei miracolati appartenevano alle classi popolari e meno agiate. Secondo Vauchez il compito dello storico di fronte a questi dati deve incentrarsi non sulla veridicità o meno dei miracoli, ma sullo studio della mentalità e del rapporto miracolo-fedele. Vale a dire che cosa rappresentasse e che cosa si intendesse per gli uomini di allora con la malattia e con il concetto di guarigione. Compito non facile, poiché spesso malattia e guarigione assumevano in sé un significato religioso: la guarigione non era solamente corporea o fisica, visto che il male era considerato alla stregua di un attacco diabolico all’anima. Si richiedeva quindi una terapia non solo medica, ma miracolistica, sacra, delegata ai santi. Da qui si capiscono i raduni collettivi sulla tomba di questi, causa di miracoli “a valanga” o la fortuna dei pellegrinaggi verso i santuari o le chiese depositarie di reliquie. Ma quale fu l’atteggiamento della Chiesa di fronte a tale ondata di miracoli, crescenti dall’XI secolo in poi? Sostanzialmente oscillante, secondo Vauchez. Da un lato si scorgeva il pericolo, per il cristianesimo, a causa delle clamorose guarigioni miracolose, di cadere verso una religione materialistica e “magica”, dall’altro il ricorso ad esse garantiva un prezioso strumento di aiuto ogniqualvolta gli interessi della Chiesa fossero messi in gioco. Nel corso del XIII secolo la teologia delimitò il campo del miracolo alla sfera dell’intervento improvviso e non richiesto di Dio. Parallelamente il papato, nell’ambito del progetto di asservimento e controllo del miracolo alla Chiesa di Roma, tentò di sottrarlo alla sfera del magico e del superstizioso. Si istituì, dunque, come si accennava prima, la validità dei miracoli post mortem, in particolare di quelli sacramentali. Lo stesso Concilio Laterano IV (1215) aveva posto l’attenzione sull’importanza della trasformazione Eucaristica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Proprio in questo periodo cominciano a diffondersi i culti legati a questi miracoli: Bolsena nel 1264 o il miracolo di Billetes a Parigi alla fine del secolo, o Fécamp e Bruges.
Dopo aver analizzato l’evoluzione di alcuni culti legati a santi particolari, come quelli di nobili e laici o di figure celebri nella santità tardomedievale (Santa Brigida di Svezia, Maria d’Oignes), nelle loro molteplici relazioni con la società ed il potere politico del tempo (scopriamo per esempio come il culto e l’agiografia legata alla santa svedese fossero poco circolati, anzi fossero stati addirittura osteggiati dal clero, nella Francia del XIV secolo, a causa della posizione fedele all’osservanza romana, in contrasto con le posizioni filo-avignoniste della curia francese, o come la canonizzazione e l’opera agiografica di Maria d’Oignies, redatta da Gicomo di Vitry, mirasse a combattere l’espansione dell’eresia catara in Francia), l’autore, nell’ultimo capitolo (potere soprannaturale e poteri istituzionali nel medioevo, pp. 251-263) traccia un bilancio, nocciolo del volume, sulla concezione del soprannaturale nel Medioevo. Il più deciso controllo dei fenomeni soprannaturali, come i miracoli, rivela, innegabilmente, a mio avviso, uno stacco tra pratiche istituzionali ed ortodosse e il vissuto religioso, concreto, della massa dei fedeli, la quale aldilà delle normative e dell’azione pastorale del clero, conservava una propria concezione del sacro, fatta di miracoli e prodigi, nella quale il posto dei santi, fossero essi clerici o laici, mediatori diretti con Dio, occupava un posto insostituibile. Come sostenuto da Max Weber il soprannaturale legato alla sfera dei santi si identificava con il potere carismatico. Si pone, secondo il sociologo tedesco, una distinzione di forma tra sacerdote e profeta/santo: il primo, che è posto al servizio di una tradizione sacra, dispensa i suoi beni di salvezza (i sacramenti) in virtù del suo ufficio; il secondo in virtù di un potere trascendente ed autonomo, di carattere divino, non mediato dalla istituzione Chiesa. Vi è quindi opposizione tra uomo di Chiesa e uomo di Dio, in genere un laico. Questa opposizione si ritrova già nella Bibbia, e rimane un fattore caratterizzante dell’universo giudaico-cristiano e del Medioevo. Fin dall’altomedioevo la Chiesa si preoccupò di reintegrare la santità e le sue manifestazioni eclatanti all’interno dell’istituzione: vi era la necessità di non fornire ai dissidenti o agli eretici una pericolosa arma contro la Chiesa stessa. In quest’ottica debbono essere considerate le normative, da Gregorio VII in poi, inerenti alla cura d’anime ed al comportamento del clero secolare. Il quarto Concilio lateranense, convocato da Innocenzo III nel 1215, fu in questo senso un esempio perfetto. Le normative che estendevano l’obbligo ai laici di praticare la confessione (unitamente alle altre disposizioni in materia di cura d’anime) presso il “proprio sacerdote” miravano a fare del sacerdote il mediatore privilegiato -e unico- tra Dio e il fedele.
Nei secoli tardi del Medioevo e nella prima età Moderna, invece, si assiste ad una progressiva formalizzazione ed istituzionalizzazione dei fenomeni “carismatici” e soprannaturali. A causa di ciò si inaspriscono i rapporti tra potere istituzionale e potere informale. Nel ‘400 con la pretesa da parte della Chiesa di una assoluta sottomissione dell’irrazionale e del soprannaturale al credo ortodosso, si cancellavano le istanze della vox populi, ancora fortemente legata alle forme di devozione spontanea e popolare che assicurava una risposta immediata alle problematiche della vita quotidiana (malattie, conflitti, povertà). Il tentativo di avvicinare la sfera del soprannaturale alle strutture ecclesiastiche, compiuto in maniera poderosa, dal XIII secolo in avanti, non era riuscito. La Chiesa non seppe o non volle, per autoconservazione, colmare la distanza con il fedele. Continuava ad esercitarsi quella “spaccatura”, teorizzata da M. Weber, tra l’istituzione ed il vissuto religioso. Le persecuzioni nei confronti del “sapere empirico” delle donne, chiamata comunemente stregoneria, o nei confronti di personaggi del calibro di Giovanna d’Arco o Savonarola, dichiaratosi contro la corruzione della Chiesa, stanno a dimostrarlo.
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