Conoscenza condivisa

Salvatore Lazzara, Conoscenza condivisa. Il sapere dagli individui e i gruppi
Manifestolibri, Roma, 2003

di Carlo Scognamiglio

Ci sono libri che chiariscono le idee, ce ne sono altri che le confondono. Questo volumetto di Salvatore Lazzara dev’essere certamente incluso in questo secondo insieme, facendo di questa peculiarità un pregio, almeno per un paio di ragioni; in primo luogo per l’efficace panoramica che l’autore propone ripercorrendo gran parte degli orientamenti della ricerca scientifica inerente gli studi sull’apprendimento, e secondariamente per le sue incursioni critiche in alcune delle più spinose questioni relative alla gestione dei saperi nelle organizzazioni. In verità la difficoltà di rendere “unitario” l’orizzonte del problema nasce da una complessità intrinseca ad esso, nonché dalla varietà dei contributi che da tante parti delle scienze umane novecentesche sono venuti in questa direzione. Salvatore Lazzara ha ragione a partire dalla polivalenza del termine “apprendimento” per illustrare i progressi scientifici della ricerca psicologica, a partire dal positivismo wundtiano ai più recenti orientamenti cognitivisti.
I passaggi teorici necessari per accedere alle più recenti analisi del sapere nelle organizzazioni sono almeno due: la connessione di intelligenza e comportamento, e il rapporto tra comportamento e apprendimento. In ambito psicologico ormai l’intelligenza viene studiata e intesa come un insieme di fenomeni definiti per l’appunto ‘comportamenti’, per cui la classica concezione della facoltà astratta chiamata “intelligenza” viene ora sostituita dalla nozione di “comportamento intelligente”, con la quale s’intende solitamente «la capacità di manipolare degli oggetti in modo di connetterli l’uno all’altro, secondo un certo ordine» (p.35). Non poche difficoltà sono state poi riscontrate nelle modalità di misurazione dell’intelligenza, dai test mentali ai reattivi psicologici (Binet), non in grado di includere gli aspetti “motivazionali” del comportamento intelligente, anch’essi di grande incisività nei vari orientamenti cognitivi. L’intero ‘mental testing’ viene dunque messo seriamente in discussione a causa della sua incapacità a cogliere la complessità della nostra configurazione intellettuale; alla luce delle ricerche di Gardner inoltre si è giunti ad un modello pluralista e ‘multiplo’ di quella configurazione, la quale viene ora studiata nelle sue ‘combinazioni’ d’intelligenze e di modelli procedurali. Un ulteriore contributo alla nuova definizione di questo concetto deriva dal modello di Sternberg, in base al quale «fattori come la personalità e la motivazione individuale hanno un’incidenza significativa nella definizione della configurazione cognitiva individuale» (p.51). A partire da questo ragionamento si può dunque provare a ridefinire la nozione di apprendimento, che era stata inizialmente ricondotta alla semplice dinamica dell’adattamento, in termini di “modificazione del comportamento”. L’intero ambito dell’esperienza rientra dunque massicciamente nella nuova nozione di apprendimento, di tipo costruttivo, che apre la strada a tutto l’ambito di ricerca che fa riferimento all’educazione degli adulti e della formazione permanente. Con ciò l’autore non intende certamente ridurre la portata strettamente cognitiva del processo di apprendimento, ma sente l’esigenza di arricchirlo, giungendo ad individuare nel processo di costruzione della conoscenza un convergere di molteplici fattori, da quelli intuitivi a quelli emotivi e sociali. La conseguenza immediata di questo ragionamento è una prima contrapposizione tra la nozione tradizionale di conoscenza (scientifica, oggettiva e misurabile), ed una rappresentazione della conoscenza più radicata nella complessità della nostra esperienza, di cui la prima sarebbe una meno vera e più estrema irradiazione. Per uno di questi presupposti diventa oggettivamente maggiormente complicata la possibilità stessa di una conoscenza sovraindividuale.
Che cos’è dunque, un’organizzazione? «è un “luogo” in cui si depositano i flussi di conoscenza degli individui, che la sua sopravvivenza è determinata da questo processo di lenta sedimentazione della conoscenze individuali, e che la natura stessa di questo processo impone di pensare all’organizzazione come ad uno spazio delle relazioni apparentemente senza confini» (p.151). Il dualismo precedentemente citato tra una conoscenza scientifica e misurabile, ed una conoscenza “personale” ed esperenziale, ritorna nell’ambito del ragionamento sulle organizzazione grazie alle teorie del giapponese Ikujiro Nonaka, riformulato poi da Ryle come dualismo tra ‘know that’ (conoscenza esplicita) e ‘know how’ (conoscenza tacita). Secondo Nonaka il passaggio da un tipo di conoscenza all’altro avviene attraverso processi di conversione, e prende il nome di ‘socializzazione’, che attraverso il dialogo crea le condizioni per produrre una conoscenza esplicita, spesso innovativa, che a sua volta produce un nuova interiorizzazione. Com’è noto le teorie di Nonaka hanno riscosso grande interesse nel management contemporaneo, ma proprio a questo proposito opportune sono le obiezioni di Lazzara: «una consequenzialità come quella descritta nel modello di Nonaka lascerebbe pensare che tutto ciò avvenga senza scosse e senza ripensamenti, che la conoscenza organizzativa sia un flusso inarrestabile di creazione di significati, che i componenti del sistema siano sempre e volentieri disposti a condividere, a mettere in comune gli elementi cognitivi fondanti della propria esistenza o di gran parte di essa» (p.159), mentre invece è vero che in ogni organizzazione le resistenze sono moltissime, così come lo sviluppo di appartenenza all’organizzazione è certamente lento e faticoso. Le conclusioni di Salvatore Lazzara sono molto caute rispetto all’asserzione dell’esistenza di un Sé organizzativo, e di grande interesse sono anche le sue ultime considerazioni sul rapporto tra individualità e pratica della condivisione. Qualche perplessità forse può derivare dalle sue considerazioni sull’attuale mondo del lavoro, a suo avviso orientato quasi totalmente su una dimensione della conoscenza, in cui la vera produzione consiste nella socialità; ciò che Lazzara sembra tralasciare, è che l’eventuale valorizzazione delle socializzazioni è sempre funzionale ad una produzione di un valore diverso dalla socializzazione in sé. Ma questo è un altro discorso, che non toglie nel complesso a questo libro l’importanza che merita, all’interno di un settore di studi estremamente vivace ed entusiasmante.

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