Lo stato d’eccezione

Giorgio Agamben, Lo stato  d’eccezione

Giorgio Agamben, Lo stato   d’eccezione
Carl Schmitt

Necessitas legem non habet

Giorgio Agamben, Lo stato d’eccezione
Bollati Boringhieri, Torino, 2003

di Giovanni Perazzoli

Che cos'è lo stato d'eccezione? L'adagio secondo il quale necessitas legem non habet è uno degli argomenti con i quali si argomenta lo stato d'eccezione. La formula suona come la legittimazione della sospensione dell'ordinamento giuridico in forza di una necessità, che ha il senso di un'urgenza che minaccia l'integrità della vita (dello stato). L'urgenza sospende le leggi, che di fronte all'urgenza non hanno più dominio. La formula della necessità che sospende la legge - necessitas legem non habet - vale come una delle espressioni dello stato d’eccezione.  In riferimento al sistema dei concetti giuridici il problema logico sorge nel momento in cui si chiede se l'urgenza sia interna o esterna all'ordinamento. La decisione che sospende l'ordinamento giuridico e determina l’eccezione (rispetto alla legge) è giuridica o extragiuridica? Se è giuridica, come si può dire che l'ordinamento sia stato sospeso? Se invece non è giuridica, come può l'ordinamento prevedere e includere ciò che si trova al di fuori del suo confine?

Ora, l'adagio secondo il quale necessitas legem non habet ha senza dubbio un suo significato empirico. In questo senso esso è chiarissimo. Il suo utilizzo in determinate circostanze giuridicamente definite non fa problema. Lo stesso deve dirsi per il concetto di stato d’eccezione. Il problema nasce nel momento in cui sorgono le domande che si sono formulate intorno alla formulazione dello stato d’eccezione. Le quali richiedono un particolare criterio di  coerenza. Che cosa succede se all’adagio necessitas legem non habet (e dunque allo stato d’eccezione) si cercasse di conferire, al di là del suo riferimento empirico, un rigore ulteriore – ulteriore rispetto a quello della strumentalità empirica? Si potrebbe continuare a dire che veramente necessitas legem non habet?  La questione riguarda il senso logico-giuridico dello stato d’eccezione e dei cosiddetti concetti giuridici in generale (in proposito si deve segnalare il volume a cura di N. Irti La polemica sui concetti giuridici, Giuffrè 2004, che raccoglie i testi di una celebre polemica avutasi tra G. Calogero, A. C. Jemolo, S. Pugliatti, W.C. Sforza; ai quali si deve aggiungere però anche P. Calamandrei). Ora, al di fuori della rappresentazione empirica dell'ordinamento e della sua eccezione, si può continuare a sostenere che si dia uno «Stato d'eccezione» e, attenzione, un «Ordinamento»? Si può continuare a  tenere ferme la necessità e la legge di cui si dice nella formula che necessitas legem non habet?

Il libro di Giorgio Agamben Stato d'eccezione (Bollati Boringhieri, 2003) percorre in modo affascinante - con l'eleganza della scrittura di un autore argomenta a partire da un pensiero e non da "altro" - la serie delle tradizionali definizioni, e relative aporie, che riguardano la formulazione teorico-giuridica della decisione d'eccezione.  Nella pratica politica dello stato d'eccezione Agamben rileva alla fine una realtà tutt'altro che eccezionale: oggi è "un paradigma di governo", scrive Agamben. Qui ci interessa però l'aspetto più teorico del libro (anche se la possibilità stessa di questa eccezione che diventa la regola è inclusa nel discorso).  Dunque: necessitas legem non habet. La necessità, l’urgenza di una determinata situazione di fatto (questo il senso di necessità), si configura come un qualcosa di eccezionale. Ove quell’eccezione o necessità non si verificasse, e dunque rispetto ad altre circostanze di fatto, si potrebbe procedere in modo conforme al nomos. Ma esistono circostanze che non sono eccezionali? Il rilievo può apparire un cavillo: ma non lo è affatto. Benedetto Croce avrebbe negato che fuori della rappresentazione empirica dell'ordinamento e della sua eccezione si possa parlare di uno «Stato d'eccezione» e un «Ordinamento». Per quello che ci interessa, la ragione di questa posizione  rimanda alla filosofia della pratica che Croce mette a fondamento della sua teoria del diritto: la tesi sul diritto di Croce proviene da una rigorosa analisi dell'agire. L'analisi dell'agire rileva che non esiste possibilità di volere nel vuoto. Il «vuoto pratico» è un assurdo. L'agire muove sempre da una condizione che lo fa sorgere,  come la famosa colomba che non volerebbe senza l'aria. Senza la determinatezza della condizione, non si darebbe neanche l’azione: azione che è sempre strutturalmente singolare. Ora, la tesi che si possa in senso assoluto e non empirico dare un'urgenza (la necessità) che sospenda la legge dando corso all'eccezione, immagina che si dia in assoluto la normalità, e che si dia un effettivo caso d’accezione rispetto alla legge. Ma la difficoltà che a questo punto sorge è se effettivamente non si debba dire che, dal punto di vista logico, ogni azione giuridica non sia intrinsecamente un'«eccezione». Se non fosse tale, del resto, si dovrebbe immaginare la possibilità di un agire regolato oggettivamente dalle leggi o la possibilità di un agire eccezionale rispetto alle leggi in quanto occasionato da particolari circostanze non riconducibili alle leggi. Proprio seguendo questa linea sorge l'idea classificatoria, l’idea di un agire conforme non in senso empirico, ma in senso assoluto, alla legge. L’idea della conformità alla legge non reca alcun danno finché rimane nel suo uso  empirico. Essa non è generalizzabile senza cadere nella metafisica.  Da questa prospettiva,  si darebbero realmente e logicamente circostanze previste e circostanze impreviste dalla legge. In realtà, però l'agire non ha leggi, ma solo condizioni. La tesi secondo cui necessitas legem non habet presuppone che possa darsi una qualsiasi azione senza che essa sia legata ad una necessità: che possa darsi in generale uno stato d'eccezione. Ma la volontà  è insieme libertà e necessità, nasce a partire da una circostanza data, necessaria, e non astratta o eludibile. Quindi, se l'idea della volontà ridotta assolutamente secondo la norma è un'astrazione, altrettanto astratta è la decisione d'eccezione, la decisione che non a nulla alle spalle.

Ma che cosa indica questo riferimento alla filosofia della pratica (alla teoria filosofica dell'agire) relativamente al problema giuridico dello stato d'eccezione? Il  riferimento alla fondazione della prassi è tutt'altro che una sottigliezza. Il problema dello stato d’eccezione è in se stesso un importante e sottile questione logica. Quello della sospensione dell'ordinamento non è un concetto rigoroso, ma solo un concetto empirico. Altrettanto empirica è la rappresentazione della normalità dell'ordinamento.  A risolvere il problema stesso occorre tenere separati  l'ingerenza della metafisica dai concetti empirici nel loro uso concreto e scientifico.

La premessa non espressa tematicamente della tesi di Agamben è che si diano, come concetti rigorosi, l'eccezione e l'ordine giuridico. Prima dell'eccezione – secondo questa rappresentazione -  l'ordinamento è vigente, esercita la sua giurisdizione: è l'orizzonte entro il quale cadono tutte le molteplici azioni.  Ma questa idea, non si tarda a capire, non è  altro che una metafora della Necessità: è una metafora dell'Essere. Una metafora della necessità, o meglio, una falsificazione metafisica della necessità e dell'essere. Questo punto è visto - per speculum et in aenigmate - da Giorgio Agamben quando rileva che, intorno alla stato d'eccezione si è combattuta una γιγαντομαχία περì της ουσίας. In questo modo egli stabilisce un'analogia che, però, non è solo un'analogia, ma la realtà stessa del problema: la «lotta intorno all'essere che definisce la metafisica occidentale». Agamben aggiunge: «All'essere puro, alla pura esistenza come posta dalla metafisica ultima, fa riscontro la violenza pura come oggetto politico estremo, come 'cosa' della politica; alla strategia onto-teo-logica, volta a catturare l'essere puro nelle maglie del logos, fa riscontro la strategia dell'eccezione, che deve assicurare la relazione fra violenza anomica e diritto».

Ora, la strategia dell'eccezione è esattamente la trasposizione in chiave metafisica del problema. E presenta una duplice movenza. Da una parte, la scissione tra «essere» e «pura violenza»,  dà vita alle astrazioni dell'eccezione e della normalità: la pura e assoluta violenza accanto al puro e assoluto essere del nomos. Dal punto di vista dell’analisi dell’agire si dovrebbe assumere l'assoluta e pura violenza, intesa come l’assoluta libertà da condizionamenti dati. Una la violenza/libertà eslege.  Dall’altro lato si dovrebbe ammettere il termini speculare della violenza/libertà assoluta,  il puro Nomos coincidente con l'Essere. A partire da queste premesse non è più possibile intendere lo stato d'eccezione: lo stato d'eccezione viene ad essere, in questo orizzonte di concetti,  l'eccezione assoluta -  assoluta come è assoluto l'essere. Per questo Agamben è spinto dalla logica del suo discorso a parlare anche di uno stato «mistico»: infatti così rappresentato lo stato d'eccezione è molto vicino all'«eversione» dell'ordine logico/ontologico della mistica. L’altro dell’assoluto altrettanto assoluto, il nulla. E qui interviene il secondo punto. Il senso della γιγαντομαχία è piuttosto quello della μετάβασις εις  άλλο γένος. La confusione di generi, il passaggio da un genere all'altro, produce la trasformazione di una questione empirica e pratica, tutto sommato conclusa entro i termini della scienza giuridica, in una questione logico-metafisica. Ma l'ordinamento giuridico non è la necessità, piuttosto è la finzione della necessità. Il diritto è finzione della necessità. Il diritto, solo se trascinato nell'orizzonte delle categorie della metafisica, produce dei concetti «limite», chiaramente antinomici, come quello dello stato d'eccezione. Nella prospettiva della metafisica è ovviamente difficilissimo, anzi impossibile, definire lo stato d'eccezione: lo stato d'eccezione sarebbe l'eccezione della necessità.

Che cos'è allora lo stato d'eccezione? Il concetto di stato d'eccezione è, come si è detto all’inizio, un concetto giuridico: lo stato d'eccezione è pensato e costruito, infatti, a partire dall'ordinamento e dal pensiero giuridico. Non esisterebbe eccezione all'ordinamento senza ordinamento: e l'eccezionalità è tale da non infirmare il pensiero giuridico, perché è il pensiero giuridico che la fa essere. Lo stato d'eccezione  è un concetto relativo. A distinguere tra ordinamento e stato d'eccezione è, insomma, ancora il nomos, inteso come sistema empirico di concetti giuridici. L'eccezione non è analoga al nulla assoluto: l'eccezione non è eccezionale rispetto alle categorie giuridiche, ma è costruita a partire da queste. Tutto questo però non toglie il senso politico ed empirico dello stato d’eccezione. Al contrario, lo rafforza.

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