Freud e il Mosé di Michelangelo

Francesco Saverio Trincia, Freud e il Mosé di Michelangelo. Tra psicoanalisi e filosofia
Donzelli Editore, Roma, 2000

Recensione


Recensione di Federico Lijoi

Lo sguardo di Mosè raffigurato nel particolare della statua riportato in copertina e lo sguardo di Freud che intitola il primo dei tre capitoli di cui consiste il libro di Francesco Saverio Trincia, "Freud e il Mosè di Michelangelo", edito per la casa editrice Donzelli, introducono quel tema del "guardare" come "scoperta dell’esterno, attenzione al vedere e al visibile, alla materialità osservabile di ciò che si mostra allo sguardo" (p.4) su cui poggia la possibilità di un’interpretazione del pensiero di Freud proprio dal punto di vista del "vedere" e dello "sguardo di Freud". "Sguardo di Freud", dunque, che permette all’A. di riportare l’attenzione su due tesi fondamentali: da una parte, la comune radice di osservabilità di conscio e inconscio, cioè la possibilità di essere anche il secondo, come il primo, leggibile nell’esterno (come avente una qualche dimora nella corporeità); dall’altra, una idea di psicologia "come analisi che procede "soggettivamente" tenendo rigorosamente ferma la "prima persona" dell’indagatore, e vietandosi di fare della psiche una soltanto oggettiva "terza persona"" (p.4). La discussione del saggio di Freud sul Mosè di Michelangelo – pubblicato anonimo sulla rivista Imago nel 1914 e legittimato solo un decennio più tardi, nel 1924 – diviene, in questo modo, l’occasione emblematica per constatare la praticabilità e la sensatezza di queste due tesi, oltre che "per comprendere il rapporto tra l’universo concettuale e interpretativo psicoanalitico e ciò che resta programmaticamente estraneo ad esso, appunto in quanto si inscrive nel solo ambito del conscio" (p.5). Del resto, è proprio la scelta freudiana di mantenersi, in questo saggio, solamente nell’ambito del conscio, che motiva, a sua volta, la scelta dell’A. di interpretare un testo che si distingue, dalla restante produzione analitica freudiana, proprio per la sua marcata non analiticità.

In base alle due tesi sopra esposte, dunque, prende corpo una ipotesi interpretativa che considera la fisionomia del pensiero freudiano tanto più autentica quanto meno oggettivistica e naturalistica. "La centralità dell’osservare appartenente ad uno sguardo che produce risultati scientifici in quanto è originariamente uno sguardo fisico" - e di conseguenza categoricamente soggettivo - comporta il fondamentale divieto "di reificare il pensiero freudiano in una serie di proposizioni scientifiche, neutre, oggettive e dunque oblianti la propria origine visiva, fisica e soggettiva" (p.12). Infatti, "lo "sguardo di Freud" - scrive l’A. - non è pensato qui come lo sguardo in Freud, nel pensiero di Freud, come lo sguardo o la vista di cui Freud ha parlato" (p.14). Lo "sguardo di Freud" è lo sguardo dell’uomo Freud che "scrive avendo osservato e continuando ad osservare, ossia lasciando continuamente acceso un "vedere" attuale che non si cristallizza mai in un categoriale e filosofico "aver visto"" (p.17). "Ciò che in questo modo viene imposto all’interprete - dice Trincia - è il passaggio dallo sguardo come tema di Freud allo sguardo come soggettività di Freud" (p.22), conformemente all’importanza che Freud assegnava non tanto al tema del vedere, quanto piuttosto a quello del proprio soggettivo vedere. Tutto ciò motiva da parte di Trincia, come già si diceva, una scelta di testi che rimangono "al di qua" dell’universo delle categorie psicoanalitiche, come le lettere giovanili all’amico Eduard Silberstein (analizzate nel secondo capitolo di questo libro) e soprattutto il Mosè di Michelangelo del 1914. A questo punto, secondo Trincia, il noto rifiuto freudiano della filosofia e la potenza soggettiva dello sguardo costituiscono i due aspetti della stessa sfida che lo sguardo di Freud rivolge al pensiero filosofico: "il tentativo di pensare un vedere conoscitivo che non si risolve nel suo necessario fondamento empirico, senza peraltro dissolversi nell’oggettività di un sistema" (p.14). Nell’analisi del saggio freudiano del 1914 Trincia individua, dunque, nella sospensione dell’interpretazione analitica e dell’intervento dell’inconscio che vi si realizza, "l’altro", cioè il conscio oggetto della psicologia e della razionalità filosofica, con il quale la psicoanalisi, proprio in quanto scienza dell’inconscio, deve programmaticamente e costitutivamente fare i conti. La permeabilità orizzontale di conscio e inconscio sulla base della comune radice di osservabilità materiale e corporea di entrambi, colloca la psicoanalisi proprio sul limite che insieme separa e unisce i due territori della psiche, senza che l’indagine psicoanalitica sull’inconscio abbia la prevalenza esclusiva (deterministica e positivistica, e infine riduzionistica) sulla coscienza, che dal suo "altro" verrebbe, in questo caso, completamente determinata (e in fondo, col suo "altro" identificata). Riassumendo: la duplicità che si compone di conscio e inconscio, di empirico e oggettivo, non risulta una cattiva ambiguità, bensì indica la condizione e lo spazio su cui solamente può riposare il produttivo svolgimento della scienza psicoanalitica, proprio perché non si isola nella sua sterile analiticità. L’interpretazione filosofica dell’opera freudiana è chiamata, dunque, - secondo Trincia - "ad indagare l’inconscio come fenomeno la cui genesi affonda le proprie radici nella soggettività osservante di Freud - e non si riduce perciò ad essere il segmento oggettivo di una teoria scientifica istituzionale. Assumere una posizione di questo tipo significa indagare il sapere psicoanalitico dal limite che lo circoscrive e lo isola da altri saperi, ma al tempo stesso lo correla ad essi, e consente la costruzione di una prospettiva critica che prende le mosse al di qua della teoria istituzionalizzata" (p.40).

Accade ora che gli elementi teorici sottolineati nel primo capitolo di questo libro, appena analizzato, vengano forniti di senso e concretizzati attraverso il diretto confronto interpretativo con la scrittura freudiana del 1914. Trincia vi procede nel terzo e conclusivo capitolo, a cui segue in appendice proprio il testo originale del Mosè di Michelangelo. La soggettività interpretante di Freud, l’interpretazione diretta a rilevare le intenzioni consce di Michelangelo e la potente razionalità di Mosè, la visibilità come imprescindibilità di un "vedere" la statua sono i tre aspetti fondamentali che vengono verificati "interpretando" l’interpretazione freudiana nel saggio mosaico. "E’ solo in un tale confronto - scrive Trincia - che la presenza visiva dell’opera d’arte accanto al testo freudiano si mostra come una condizione imprescindibile per "capire": per capire quel che Freud ha scritto, ma anche per interpretare la sua stessa interpretazione" (p.57). Ed è, dunque, proprio la circostanza che il rapporto di Freud con Mosè (quello di Michelangelo) è di tipo psicologico (soggettivo), non di tipo psicoanalitico (non oggettivo, non scientifico) che definisce la caratteristica principale del saggio, che vale qui ancora la pena di riassumere e ribadire: "l’interpretazione psicologica di Mosè e di Michelangelo si svolge totalmente sul piano del conscio, dell’esplicito, di ciò che è visibile e deve essere interpretato nella sua visibilità[…], ossia a partire da quest’ultima e restando nel suo ambito,[…] escludendo cioè il rinvio psicoanalitico al piano dell’inconscio" (p.64). Dall’analisi minuziosa del "visibile" nella statua, e non da altro, dunque, Freud pone la premessa generale e fondamentale della sua tesi sul Mosè michelangiolesco: "la statua non rappresenta il Mosè furioso della tradizione biblica, ma il Mosè eroicamente umano, che ha controllato le proprie passioni e l’affetto che avrebbero travolto un uomo comune" (p.69). In questa premessa della lettura freudiana, perciò, si produce l’esibizione di quella duplicità della scienza psicoanalitica che ora si manifesta in uno dei suoi aspetti essenziali: essa, infatti, non concerne unicamente il destino e la natura della scienza psicoanalitica, bensì anche l’identità dell’ "ebreo ateo" Freud. L’infedeltà freudiana non è infatti perpetrata nei soli confronti della psicoanalisi, ma consiste anche in quella ipotesi interpretativa che "cancella il Mosè della tradizione, "uomo iracondo e soggetto agli impeti della passione"" (p.84). Il tema dell’identità ebraica di Freud risulta a questo punto centrale e saldata a quella della psicoanalisi, e il tema del "conflitto identitario" diviene il modo attraverso cui Trincia vede raccogliersi i motivi emergenti dall’analisi del testo freudiano del 1914: Freud e l’ebraismo, Freud e la psicoanalisi. Sul modello di una "doppia infedeltà", la soggettiva condizione emotiva che accompagna e determina l’interpretazione freudiana del Mosè viene radicata nella genesi e nello svolgimento dell’argomentazione scientifica oggettiva, esibendo, ancora una volta, la coalescenza strutturale e simbiotica di soggetto e oggetto, di coscienza psicologica e di inconscio psicoanalitico. Doppia infedeltà, abbiamo detto: quella nei confronti di un Mosè " "trasformato" - da Michelangelo - nel suo carattere rispetto al racconto biblico" (p.84), e quella, principale, nei confronti della psicoanalisi, in quanto scorge, "in questa rappresentazione infedele di Mosè […] quella suprema "spiritualità" di un agire soggiogante le passioni, di cui la psicoanalisi, in quanto tale, non può parlare" (p.84).

In questo modo il rapporto di Freud con il Mosè di Michelangelo rappresenterebbe (e questa è solo una delle chiavi interpretative che Trincia svolge, sebbene quella più importante) la stessa liminarità e conflittualità identitaria che riposa produttivamente in seno alla scienza psicoanalitica. In questa vittoria della razionalità sulla irrazionalità, della dimensione conscia su quella inconscia, "il saggio resta non psicoanalitico, esso abbandona suo padre – come gli ebrei abbandonarono Mosè - per tornare alla psicologia della coscienza, alla ragione dei filosofi che controlla comunque la passione, dato che questa è la definizione filosofica della ragione" (p.72). Perciò: "il saggio mosaico del 1914 consentirebbe di indagare uno dei luoghi dell’opera di Freud in cui la psicoanalisi esibisce l’esistenza di un altro da sé, che pur essendo scienza, ragione scientifica, o, comunque, sapere, non è tuttavia scienza psicoanalitica […]. Si avrebbe in tal modo una dualità tra sapere psicoanalitico e sapere non psicoanalitico: i due saperi sarebbero per così dire entrambi egualmente legittimati ad interpretare lo stesso ambito tematico (quello della soggettività psicologica) e la psicologia, o la filosofia, coesisterebbero alla psicoanalisi senza più trovare in quest’ultima il proprio fondamento di verità, come Freud ha ritenuto che dovesse accadere in conseguenza della rivoluzione psicoanalitica" (p.83).

Intervista all'autore


Intervista a Francesco Saverio Trincia
di Federico Lijoi e Fabrizio de Luca


FL-FDL (Federico Lijoi e Fabrizio De Luca): Innanzitutto La ringraziamo per la sua disponibilità a concederci questa intervista, finalizzata a concentrare l'attenzione su alcune interessanti questioni trattate nel suo libro.

La prima domanda che Le poniamo richiede una premessa: in base al presupposto della comune radice di osservabilità di conscio e inconscio, quest’ultimo non può essere intenzionato dalla coscienza del soggetto al quale appartiene, ma deve esserlo da un "altro guardare" che è inevitabilmente il "guardare di un altro". In questo modo emerge l’intrinseca dialogicità della scienza psicoanalitica, che fonda il proprio concetto di verità non su di un’univoca e oggettiva corrispondenza proposizione-stato di cose, come accadrebbe nel caso di una indagine semplicemente oggettiva e scientifica, bensì su una declinazione intersoggettiva della verità. In tal senso la verità si trasforma in verosimiglianza, divenendo "debole", molteplice, contingente e sostituibile di volta in volta. Anche la filosofia, come si sa, giunge, in particolare nei suoi ultimi esiti novecenteschi, ad una relativizzazione del concetto di verità.

Dunque questo nuovo concetto di coscienza quanto è responsabile, secondo Lei, dello "indebolimento" del concetto di verità? E più precisamente, la psicoanalisi quanto influisce nell’imporsi, anche in filosofia, di tale concetto "debole" di verità? E ancora più radicalmente è possibile, e quanto è corretto, parlare di un "indebolimento" del concetto di verità?

FST (Francesco Saverio Trincia): Nella teoria psicoanalitica la verità è costitutivamente collegata con la dimensione della trasformabilità, della modificabilità e della effettiva cura di una situazione di sofferenza psichica. L’affermarsi di una declinazione intersoggettiva della verità nel pensiero psicoanalitico è sia qualcosa di effettivamente avvenuto, che un carattere decisamente problematico, perché ciò che è intersoggettivo non è propriamente all’interno dell’universo psicoanalitico, ove non si tratta della ricerca di una verità nella quale intervengano su una base dialogica degli interlocutori che siano originariamente tesi alla fondazione di essa. La dialogicità che entra in ballo nella psicoanalisi è specifica e si fonda su un rapporto comunque asimmetrico fra un terapeuta ed un paziente. La verità a cui essi giungono, ed alla quale è finalizzato l’instaurarsi del loro rapporto in cui i vissuti psichici disturbati del paziente vengono interpretati, deve essere tale da condurre ad un miglioramento della situazione psichica dell’analizzato: in tal senso la "verità" raggiunta è fatta propria, soggettivamente acquisita ed elaborata dal paziente stesso.

Questa è la configurazione del concetto di verità che deriva dal processo terapeutico a cui il sapere psicoanalitico è intrinsecamente finalizzato. Ma c’è un altro significato del concetto di verità che non conduce affatto nella direzione dell’indebolimento, della trasformazione in senso molteplice e contingente del concetto stesso. Benché il pensiero psicoanalitico si basi su una cornice teorica caratterizzata da quella tipica apertura al novum, esso ha delle solidissime strutture portanti, condizioni trascendentali della modificabilità, dell’accrescimento, della progressività: in tal modo la scienza psicoanalitica non è travolta dall’immagine del proprio oggetto. Da questo punto di vista Freud ha respinto in modo netto ogni concezione "debole" della verità ed ha sostituito a questa una concezione che non esito a definire aristotelica in senso specifico, perché aristotelico è stato, per il tramite di Franz Brentano, uno degli stimoli fondamentali della sua formazione filosofica negli anni ’70.

Quindi la situazione che si configura è la seguente: da una parte il pensiero freudiano relativizza l’assolutezza della coscienza ed affianca alla ragione un territorio della non ragione, che tuttavia la ragione è tenuta ad indagare ed è in grado di indagare; dall’altra la psicoanalisi non produce affatto un indebolimento ma un ampliamento del concetto di verità proprio della tradizione filosofica, tale da poter ospitare al proprio interno un tentativo di delineazione della fisionomia della non ragione. L’inconscio può essere indagato proprio perché il concetto di verità non è caratterizzato da un "indebolimento". Più volte Freud ha combattuto l’idea che la filosofia e la psicoanalisi fossero confondibili, visto che la filosofia è per lui Weltanschauung: ad esempio quando si è trattato di parlare delle leggi logiche Freud non ha svolto operazioni di riduzionismo nei confronti del principio di non contraddizione, altrimenti non avrebbe neanche potuto indicare che una delle caratteristiche strutturali dell’inconscio è quella appunto di produrre una infrazione di questo principio.

FL-FDL: La psicologia (filosofia), che descrive la struttura "normale" della coscienza, viene saldata insieme alla psicoanalisi, che cura le alterazioni della vita psichica, nell’impresa di descrivere il territorio comune della soggettività psicologica. Ciò non contribuisce ad allargare il concetto di "normalità" e a riconnettere, in parte, la frattura tra sano e malato?

FST: Non credo che il freudismo allarghi il concetto di normalità, a meno che non si voglia dire che l’ampliamento del concetto di normalità porti quest’ultima ad ospitare nel proprio ambito tutta una serie di fenomeni che, osservati da un punto di vista più tradizionale, verrebbero espulsi da essa. Dal pensiero di Freud si può ricavare una ricomposizione della frattura tra sano e malato, tuttavia ho l’impressione che la forte e nascosta componente etica del discorso freudiano ci obblighi a ritenere che la ricerca o il perseguimento della sanità la più ampia possibile, intesa come il raggiungimento di una condizione di vita la meno sofferente possibile, rappresenti un obiettivo della scienza freudiana. Da questo punto di vista il non accettare una frattura radicale fra la sanità e la malattia agisce e funziona nella direzione che Freud chiamerebbe del prosciugamento della dimensione dell’inconscio; di conseguenza avviene un’estensione della dimensione della sanità, in cui si concretizza la consapevolezza delle proprie sofferenze ed il tentativo di padroneggiarle: respingerei quindi ogni immagine della psicoanalisi come idoleggiamento romantico della malattia. Se si volesse dire che Freud ha costruito un’antropologia nella quale la dimensione della malattia, che va eventualmente connessa con la creatività o con un universo di produttività spirituale, è centrale, io non sarei d’accordo. In tal senso rimanderei al modo in cui nei suoi famosi saggi Thomas Mann ha ben colto questo punto del pensiero freudiano, ossia come Freud debba esser lodato per il fatto di aver affrontato le zone oscure dell’animo, senza che in questo esercizio si trovi travolto dal suo tentativo.

FL-FDL: Conseguentemente a questa situazionalità e intersoggettività della psicologia-psicoanalisi, quanto quest’ultima può essere definita scienza nel senso tradizionale del termine? In che termini non si tratta più di una scienza che descrive l’unica struttura trascendentale (e unica proprio perché trascendentale) della coscienza?

FST: Se per trascendentale intendiamo la condizione di possibilità dell’esperienza considerata non semplicemente come fattualità, dobbiamo dire che Freud non conosce questo concetto, benché sappia cosa sia la speculazione filosofico-metafisica che a volte usa esplicitamente, affermando che si allontana dalla dimensione empirica. Tuttavia quello che costituisce il terreno su cui egli resta solidamente radicato è l’osservabilità dei fatti; il rinvio a quella che egli chiama la speculazione, cioè quello che potrebbe portare nella direzione della scoperta della struttura trascendentale, si configura come il passaggio verso un altro genere di operazione teorica. Il lettore avverte molto nettamente che fra la dimensione empirica e la dimensione trascendentale non c’è rapporto, dunque il trascendentale non esiste. In Freud c’è bensì la consapevolezza che il pensiero debba sollecitare a se stesso dei momenti di creatività e di produttività immaginativa che non possono essere soddisfatti dall’osservazione dei fatti. In questo senso egli è conscio che fra questo esercizio speculativo del pensare e i fatti un qualche rapporto si debba dare, ma questa consapevolezza non giunge mai ad una delineazione di ciò che noi possiamo chiamare trascendentale.

FST: Questa sospensione della psicoanalisi a me sembra si debba comprendere come una sorta di consapevolezza da parte di Freud, che definirei filosofica, che il metodo psicoanalitico debba delimitare il suo ambito di osservazione, integrandolo con un metodo psicologico-fenomenologico, per arrivare ad analizzare la totalità della soggettività psicologica. Il lettore percepisce che Freud, che è un grande teorico e pratico del riduttivismo, cioè di quell’atteggiamento che vede nei fenomeni qualcosa che deve essere riportato ad altro, è consapevole che la psicoanalisi deve, proprio in quanto scienza dell’inconscio, autolimitarsi e riconoscere che ci può essere qualcosa che non può comprendere. La psicoanalisi non è "psicoanalitica", così come non è una scienza ebraica, benché sia legittimo sottolineare tutti gli elementi della sua appartenenza all’universo ebraico che sono entrati negli stimoli che hanno prodotto le opere di Freud: i due saggi mosaici (quello del 1914 e L’uomo Mosè e la religione monoteistica del 1934-38) ne sono la testimonianza.

Del saggio del 1914 a me è sembrato di dover mettere in rilievo proprio l’insistenza di Freud nell’evidenziare la non analiticità di questo scritto ed il fatto che è un figlio illegittimo che lui riconosce molto più tardi: il sospendere la psicoanalisi non è un gesto che in termini filosofici possa passare inosservato. Le scienze spesso sono inconsapevoli del significato filosofico dei gesti che compiono, che per il filosofo hanno invece grande importanza. Il fatto che la psicoanalisi riconosca come strutturale la presenza di un ambito che non sarà mai suo (ad esempio il fenomeno religioso nel secondo saggio mosaico) è la pre-condizione affinché la teoria freudiana si affermi come scienza e non semplicemente come descrizione, terapia di tipo empirico.

FL-FDL: Circa il rapporto fra il saggio mosaico del 1914 (Il Mosè di Michelangelo) e quello degli anni 1934-38 (L'Uomo Mosè e la religione monoteistica) quali elementi connettono e quali differenziano le due opere ?

FST: Delinerei i rapporti fra i due saggi mosaici in questa tesi: è solo nel secondo saggio (quello del 1934-38), per motivi storici molto chiari in quanto si stava ormai preparando la catastrofe che avrebbe distrutto l’Europa e il Mondo, cioè la catastrofe prodotta dall’affermarsi del nazismo e dalla ferocia dell’antisemitismo, che Freud si pone le seguenti domande: che cosa significa essere ebrei e cosa significa che io (Freud) sono un ebreo ? E perché in connessione a questo l’essere ebrei significa ormai evidentemente essere oggetti di una persecuzione che sembra connaturata all’essere ebrei ?

Nel saggio del 1914 la serie di identificazioni successive (di Freud con Michelangelo, di Michelangelo con Mosè e poi di Freud con Mosè) può essere compresa alla luce della scoperta - in cui aggiungo la psicoanalisi non entra - della potenza dell’anima che conosce il proprio dovere etico. In questo scritto si evidenzia la superiorità dei compiti sopraindividuali rispetto al desiderio umano di essere travolto dalla passione, dalla rabbia (nel caso specifico nei confronti del popolo ebraico). Questo elemento, che nel primo saggio è così evidente, rimane presente nel secondo, solo che in quest’ultimo l’essere ebrei è qualcosa che ha a che fare con l’esaltazione della dimensione spirituale del monoteismo ebraico, con l’assoluta superiorità dell’ebraismo nei confronti degli altri monoteismi. La spiritualità di cui si parla nel secondo saggio è qualcosa di cui il lettore sente l’eco dell’entusiasmo etico che, nel primo saggio, Freud prova nei confronti di Mosè e di Michelangelo, ma certamente soltanto nell’ultimo lavoro mosaico viene affrontata la questione del significato dell’essere ebrei e del rapporto degli ebrei con la loro religione. Soltanto nell’opera del 1934-38 Freud matura la consapevolezza che l’affermarsi di un grande Dio unico è una verità "non materiale", cioè non è l’oggetto di una fede, ma è una verità storica che rinvia ad una ricerca che ha nell’assassinio del padre da parte dei figli la sua origine. E’ interessante tuttavia osservare proprio che solo se il primo dei due saggi viene isolato dal secondo e letto nella sua autonomia, esso esterna tutta la sua ricchezza ed è interpretabile meglio di quanto non sarebbe se i due saggi venissero collocati unicamente sotto la etichetta: "riflessioni sull’ebraismo". Dico questo perché non concordo con gli eccessi delle interpretazioni di Freud in chiave ebraica, in cui la esclusività della tematica ebraica rischia di far perdere molti elementi, conducendo in quella direzione che vede la psicoanalisi come scienza ebraica, che francamente a me sembra una posizione esegetica nobile e piena di significati simbolici, ma non del tutto accettabile.

FL-FDL: Infine nelle ultime pagine del suo libro Lei presenta la questione della "natura trascendentale" non umana e non storica del Mosè, che fonda, proprio in virtù di tale natura, un'umanità e una storicità fornite di senso.

Qual è il significato di questa Sua tesi ?

FST: A me è capitato di pensare che il Mosè michelangiolesco fosse agli occhi di Freud un grande modello umano proprio perché non era solo tale. Il Mosè michelangiolesco non è, secondo la mia tesi, un Mosè storico né nel senso banale del termine né nel senso della riferibilità alla storia sacra narrata. In tal senso ci troviamo di fronte alla narrazione di una storia nella quale Freud ritiene che intervenga una potenza etica che non è storica e proprio per questo è in grado di indirizzare, guidare la storia, dandole un senso. Quindi si deve dire che questo Mosè, così profondamente umano, è anche colui che rappresenta la grande incarnazione del tipo etico weberiano che conosce, oltre l’etica della responsabilità e della convinzione, l’etica in senso generale, non ricavando il proprio impegno morale da una successione di eventi, perché sono essi che impongono l’intervento dell’etica e la mettono in condizione di intervenire su di essi in una direzione che assegna un senso alla storia. L’espressione "natura trascendentale" del Mosè, benché sia un po’ forte, è accettabile se s’intende definire la fisionomia più profonda del Mosè. Concludo dicendo che in questo caso ci troveremmo di fronte ad un raddoppiamento della presa di distanza del pensiero freudiano dalla dimensione del puro divenire, della pura storicità. Qui colgo uno degli elementi che possono far interferire il pensiero di Freud con le vicende novecentesche della filosofia e con la crisi degli storicismi, perché la teoria psicoanalitica non è storicistica, sebbene costruisca l’interpretazione in chiave narratologica, sovrapponendo alla storia le strutture dell’interpretazione. Nel saggio del 1914 accanto a questo antistoricismo epistemologico ne troviamo uno di tipo etico, che si affianca al primo e ne conferma il significato e l’importanza per la delineazione complessiva delle caratteristiche del pensiero filosofico del Novecento.

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