Il lavoro di Dioniso

Michael Hardt - Antonio Negri, Il lavoro di Dioniso
Manifestolibri, Roma, 2001

di Carlo Scognamiglio

Edito per la prima volta nel 1994 e ripubblicato tempestivamente a tre mesi dall'attesissima uscita del nuovo lavoro degli autori (Empire), questo libro acquista nell'attuale fase politica un rinnovato interesse. L'opera si articola principalmente su tre livelli tematici, strettamente connessi e confluenti in un unico quadro analitico. Il primo di essi è, come lo stesso titolo suggerisce, è quello della rivisitazione della categoria del "lavoro", del valore da esso prodotto e delle forme da esso assunte nella società post-moderna. La concezione del lavoro proposta dagli autori è per l'appunto una concezione dionisiaca, ossia essa parte dalla presupposizione che il lavoro produca vita, costituisca società, ed abbia in sé una potenza "dionisiaca", sottomessa e disciplinata dal capitale. Contemporaneamente gli autori evidenziano, simmetricamente all'attuale crisi del capitale, l'avvio di un processo (parallelo ma separato da quella crisi) di autovalorizzazione del lavoro. Tale processo non può affondare le sue radici nella dinamica dei rapporti di produzione, bensì nell'affermarsi di una soggettività costituente, una soggettività alternativa, che produce una nietzchiana crisi dei valori attraverso un momento negativo, consistente nella critica distruttiva di ogni forma di razionalità strumentale del diritto e dello Stato, ed un momento positivo, che passa attraverso la creazione di nuovi valori. E' evidente che per gli autori, ammettendo una simile concezione dell'autovalorizzazione del lavoro, vada completamente rivisitato il rapporto struttura-sovrastuttura: "ciò che viene assunto come lavoro, dipende sempre dai valori esistenti in un contesto sociale e storico dato" (p.17). A suffragio di questa tesi gli autori richiamano l'esperienza del movimento femminista e del riconoscimento dell'attività familiare delle donne come lavoro, ossia come attività produttiva di valore; ciò starebbe a dimostrare la mobilità del valore, storicamente definito attraverso la contestazione, la quale tuttavia, preciseremo noi, modifica il valore proprio in quanto muta i rapporti di produzione (e l'esempio del movimento femminista ne mostra tutta l'evidenza, dal momento che il superamento dello sfruttamento familiare produce l'affermazione sociale del riconoscimento di un'attività produttiva di valore).
Questo processo di autovalorizzazione del lavoro è favorito ed accompagnato da una progressiva modificazione del mondo della produzione, nella misura in cui il lavoro diviene tendenzialmente "immateriale", ossia intellettuale, caratterizzato da un alto livello di conoscenze tecnico-scientifiche. L'immaterialità del lavoro non consiste semplicemente in un maggiore coinvolgimento dell'intelletto rispetto al corpo (prevalente, ad es., nel tradizionale lavoro di fabbrica), ma anche della sfera affettiva, e nella sua organizzazione cooperativa. Gli autori fanno esplicito riferimento alle dimensioni lavorative delle organizzazioni non-governative, del volontariato, del no-profit in generale, cioè essi guardano ad un mondo del lavoro sempre più intellettualizzato, che si emancipa dalla gestione del capitale, costituendo delle soggettività alternative. Sul concetto di soggettività occorre fare una precisazione: essa può essere descritta oggi solo attraverso la dimensione del cyborg, mezzo uomo e mezzo macchina: "cyborg: queste sono le nuove figure soggettive; le sole figure soggettive oggi capaci di comunismo".
Nella seconda parte di questo studio, gli autori si concentrano sull'analisi delle teorie sullo Stato post-moderno di Rawls e Rorty al fine di ricavare dal loro disegno di "elusione" giuridica del conflitto sociale, ridotto a questione di ordine pubblico, il riconoscimento di una fase. Negri ed Hardt infatti ritengono che l'attuale momento storico rappresenti la fase della sussunzione reale della società al capitale. In altre parole, Rawls esclude dalla sua teoria giuridica la produzione , in maniera sovrastrutturale al processo reale che vede il passaggio dalla sussunzione formale (costituzionalizzazione del lavoro) a quella reale (occultamento da parte del capitale del ruolo del lavoro). L'elusione dei conflitti sociali voluta da Rawls si accoda ai ragionamenti di Rorty e Vattimo che conducono ad una Polizeiwissenschaft post-moderna. Questo passaggio produce l'annullamento dello spessore della società civile e delle sue istituzioni, di cui il capitale non si serve più per mediare l'antagonismo sociale; la somma della sussunzione reale e della società di controllo consente agli autori di celebrare i funerali delle istituzioni della società civile, strada che condurrà verso la teorizzazione della fine degli Stati nazionali. Ad ogni modo, parallelamente, l'elusione viene accompagnata da un movimento simmetrico di "autoesclusione" della società: l'esodo. Questo è il percorso dell'autovalorizzazione sociale di una moltitudine (movimento inarrestabile di trasformazione) che sfrutta l'energia creativa del suo esodo (dal politico) come potere costituente. Elusione ed esodo sono due processi paralleli, nel senso che la soggettività collettiva rivoluzionaria non si costruisce dialetticamente, ma attraverso un suo processo ontologico. Sebbene appaia a tratti che l'autovalorizzazione della nuova soggettività descritta dagli autori sia generata da una contraddizione interna propria dei cambiamenti del mondo del lavoro delle società a capitalismo avanzato, scopriamo invece una sostanziale indipendenza dei due processi, dal momento che l'esodo viene fatto risalire, nelle sue forme più significative, agli avvenimenti recenti di allontanamento dalla politica nei paesi dell'Est europeo.
La sezione conclusiva del testo ha un impianto più decisamente filosofico. Gli autori richiamano esplicitamente, per spiegare il processo ontologico del soggetto costituente, le filosofie di Nietzsche, Spinoza, Deleuze, e soprattutto di Focault, dal quale si ricava il concetto di un'ontologia storica di noi stessi, del nostro essere sociale, in quanto soggetti di conoscenza, di potere, di azioni morali. Il processo ontologico viene inteso dunque come costituzione progressiva dell'essere, nel quale le pratiche e i desideri dei soggetti esistenti costituiscono la comunità. Questo concetto di comunità tuttavia risulta alquanto vago poiché se da un lato esprime un'esigenza di separatezza dalla sovranità, invocando una teoria giuridica dell'Uno come superficie, e non come fondamento della moltitudo, dall'altra la comunità si afferma in forza della singolarità del soggetto (forma produttiva immateriale e cooperativa). Ora, come può un simile potere costituente, che pone la sua forza nel suo "participio presente", evitare di negarsi in una Costituzione? Negri ed Hardt propongono una soluzione sfuggente, sostenendo che tale soggettività esclude qualsiasi configurazione normativa, "cancellandola positivamente in un processo istituzionale dinamico, aperto e continuo". Dopo aver cercato di uscire da un'ontologia che ponesse l'Uno come fondamento della moltitudine, la quale avrebbe dunque perso i suoi caratteri fondamentali, e da uno sbocco "normativo" del potere costituente, gli autori finiscono per chiudere il ragionamento in una problematica tutta gentiliana, dichiarando che "il monismo metafisico è l'unica e sola base del pluralismo storico dei soggetti, della vita della libertà". La democrazia come potere costituente dunque, non offre spazio a fini ad essa esterni, è una democrazia senza teleologia, ma anche senza fondamento.

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