Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione

Michael Hardt - Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione
Rizzoli, Milano, 2002

di Carlo Scognamiglio

Il processo di globalizzazione capitalistica, oltre a far emergere il mercato mondiale e il nuovo ordine mondiale, determina, secondo l'ultimo e attesissimo lavoro di Michael Hardt e Toni Negri, la proposizione di una nuova forma di sovranità, che scavalca, lasciandole indietro, le vecchie sovranità nazionali, superandole in una nuova logica di potere. L'impero rappresentato dagli autori non dispone di un centro di potere, né si serve di definiti confini; esso si rivela infatti deterritorializzato e deterritorializzante, liberandosi (questa sarà l'argomentazione chiave del testo) del dualismo dentro-fuori, tipica delle concezioni politiche dell'età moderna. Altro carattere fondante dell'impero è il nuovo assetto produttivo, anch'esso progressivamente orientato su quella che gli autori chiamano "produzione biopolitica", intesa come produzione della vita sociale, a discapito della produzione industriale. Rispetto alla crucialità del presente passaggio storico, la tesi è inequivocabile: la modernità è stata degli europei, la postmodernità è degli americani, i quali tuttavia non sono una potenza imperialista ("L'imperialismo è finito" (p.15)) , ma la loro sovranità si esercita in termini imperiali, facendone una realtà politica più agevolmente assimilabile a quella dell'Impero romano, che non alla supremazia imperialistica dell'Inghilterra nell'età moderna.
Si tratta indubbiamente di un volume molto ampio e complesso, al cui interno si sviluppano varie argomentazioni, nonché numerose osservazioni sulla storia della filosofia (europea). Tuttavia il cuore del libro è costituito probabilmente dal capitolo VI, intitolato "La sovranità imperiale", nel quale viene sostanzialmente sviluppata la tesi filosofica di fondo: il mondo imperiale rappresenta il superamento definitivo della dialettica tra un "dentro", inteso come sfera della soggettività, e un "fuori", concepito invece come dimensione pubblica. Questo dualismo tipico della modernità non solo risulta oggi inattuale, ma gli strumenti utilizzati dal pensiero critico moderno per superarlo si rivelano del tutto inefficaci. Anche la concezione rivoluzionaria di Marx non può che elaborare la sua critica della modernità all'interno dell'evoluzione delle varie forme di potere susseguitesi nella storia, tentando, utilizzando in ogni caso il "dentro" come trampolino, di saltare verso un fuori. Tuttavia questo "fuori" continua a presupporre il suo fondamento, che in quanto tale, lo costituisce e lo ribadisce nella sua "interiorità". L'osservazione è indubbiamente acuta, e meriterebbe di essere approfondita, senonchè la prosecuzione del ragionamento portato avanti da Hardt e Negri lascia alquanto delusi. Difatti, rispetto alla problematicità del dualismo individuato, gli autori ne constatano il superamento in maniera piuttosto dubbia: innanzitutto la dialettica pubblico-privato viene dissolta dalla crescente privatizzazione del pubblico; in secondo luogo essi dichiarano che non esistono più guerre imperialiste, bensì ogni conflitto rappresenta unicamente un'operazione di polizia interna all'ordine imperiale; infine, si ritiene che la dimensione del mercato mondiale abbia ormai superato ogni possibile "fuori". In conclusione, "nello spazio liscio dell'Impero non c'è un luogo del potere - il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L'impero è un'utopia, un non-luogo" (p.181). Prescindendo dal linguaggio affabulatorio con il quale vengono sviluppate le argomentazioni, risulta impossibile non accorgersi della difficoltà di tenere insieme questa completa indefinibilità dei luoghi dell'impero, e la parallela costruzione della soggettività rivoluzionaria che, pur nascendo dentro l'impero, da questa condizione in qualche modo deve voler venir fuori, magari proprio attraverso quello che gli autori definiscono esodo. Il termine difatti indica infatti in primis la fuga dall'autorità, e in secondo luogo la costruzione di un "contro-impero", di "un nuovo modo di vita". Insomma, gli autori giungono alla palese contraddizione quando spiegano il senso dell'esodo, della diserzione: "la diserzione non ha luogo: è l'evacuazione dei luoghi del potere" (p.203), proprio quei luoghi che precedentemente essi avevano giurato non esistessero più. Inoltre, il vero compito della nuova soggettività viene ad essere la costruzione, nel non-luogo, di un luogo nuovo.
La metafora, che chiude la seconda parte del libro, è a questo proposito emblematica: "la moltitudine deve spingersi dentro l'Impero per uscirne fuori dall'altra parte" (p.208, corsivo nostro).
Il percorso che tale soggettività dovrà sviluppare è anch'esso ben esplicitato: esso deve essere quel che i cristiani furono per l'impero romano; il riferimento è infatti Agostino: "nessuna comunità determinata può riuscire a creare un'alternativa al comando imperiale; solo una comunità universale e cattolica che riunisca tutti i popoli e tutte le lingue in un viaggio comune che può raggiungere lo scopo" (p.198). Essere comunisti si rivela dunque una gioia, un senso di innocenza, di amorevole cooperazione; ecco perché, secondo gli autori, Francesco d'Assisi può essere assunto ad esempio dalla nuova militanza comunista.

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