Archeologia della storia. Ethos, natura e poesia

Raffale Bruno, Archeologia della storia. Ethos, natura e poesia
Franco Angeli editore, Milano, 2000

di Monica Serrano

Nel testo "Archeologia della storia", Raffaele Bruno delinea un percorso di ricerca volto a congiungere in una medesima tensione concettuale la vita naturale dell'uomo, la sua esigenza di costruire un orizzonte etico-politico di azione e quella peculiare capacità umana di dar senso al mondo che è l'attività artistica.
Bios, inteso come nudo e primitivo impulso alla vita, Ethos, concepito come modo di abitare il mondo proprio dell'uomo e Poiesis, definita come capacità di mettere in forma e dar inizio a qualcosa di nuovo, sono accomunati da un infinito lavoro: portare alla luce, alla visibilità,quel fondo opaco, informe, caotico su cui essi stessi poggiano le loro membra e da cui traggono il loro nutrimento. Sin dall'inizio dell'esposizione, e per tutta la sua realizzazione, l'autore pone come base concettuale il binomio dionisiaco/apollineo, secondo quanto definito in "L'origine della tragedia" da Nietzsche. Ogni singolo uomo, così come i rapporti interumani e le istituzioni politiche, devono fin dall'inizio (e prima di ogni inizio, di ogni archè) 'fare i conti' con quella parte buia che li costituisce ed è velatamente compartecipe di ogni forma, azione ed espressione umana. Questo buio è detto dall'A. in modo plurivoco: Notte o Caos, Natura, Eros, Volontà di potenza, Terra.
Seguendo un itinerario filosofico che inizia con Platone e Aristotele per giungere a Nietzsche, Heidegger e Foucault, l'autore prende in esame alcuni dei luoghi più significativi del pensiero occidentale in cui si è dato alla riflessione l'infinito, indeterminato altro dal Logos.
L'intero libro è un lavoro 'al limite' del Logos e della filosofia stessa, della concettualità e del linguaggio suo proprio.
Il filosofare 'in ascolto' dell'altro da sé, consapevole della sua interna limitatezza e ambiguità espressiva, nel primo capitolo prende la forma di una ricerca dell'origine dell'uomo e del senso della sua esistenza storica nei termini di una "genealogia del potere". Il potere è qui considerato nel suo lato nascosto, oscuro, indefinibile, informe, celato agli occhi della storia e dei fatti umani, ma che pur forma e dirige ogni comportamento, scelta e svolgimento dell'esistenza storica.
Seguendo l'impostazione foucaltiana di ricerca filosofica, L'A. afferma che solo a uno sguardo "archeologico", sguardo cioè volto alla radice del passato pur nella sua radicale differenza dal presente vissuto, si dà a vedere il senso della storia come fluire disarticolato e accidentale, refrattario sia a una comprensione dialettica che a una spiegazione semiotica, intuibile solo in termini di volontà di potenza, "visibile non nei termini epistemici della logica del discorso, bensì in quelli strategici della guerra, della lotta, della violenza, dei rapporti di potere" (p.18).
Da Aristotele a Hegel, il secondo capitolo affronta il tema, o meglio l'intreccio di Ethos, natura e Logos, facendo dell'etica il luogo di conciliazione e sintesi della natura ( l'uomo è per natura, "physei", volto al sommo bene e all'azione etica) e della ragione ( è capacità costitutivamente umana il saper discernere e determinare il come dell'azione etica). Nella dimensione etica prefigurata, l'azione umana sarà sempre e insieme necessaria, perché inscritta nell'animo umano dalla natura prima di ogni possibilità di scelta, e allo stempo tempo libera, perché è propria di ogni individuo la libera scelta dei mezzi e dell'occasione, ogni volta particolare e contingente, della realizzazione del bene. Detto con le parole di Aristotele, l'uomo non solo possiede, ma è quella capacità di movimento (kynesis), abilità pratica e saggezza (ogni volta da conquistare vivendo) che fanno reale, attuale, lo scopo ultimo prefissato dalla natura, ovvero il bene.
Se nel primo capitolo la tensione concettuale teneva uniti la chiara forma della vita e l'invisibile volto di Dioniso, l'accadere storico di fatti e individui e il suo senso profondo, buio e a-teleologico, mentre il secondo legava pur nella loro abissale differenza la libertà e la necessità dell'agire umano, il terzo capitolo prende in considerazione la creazione artistica sullo sfondo della dicotomia heideggeriana di Mondo/Terra.
In quella singolare attività umana che è l'arte, "accade" un dis-velamento del lato oscuro e informe dell'esistente: l'opera d'arte, intesa come pro-duzione, lascia venire all'apparire ciò che prima non era visibile, non aveva forma o contorni, e che da sempre costituisce il terreno di ogni ente determinato; il suo nome è il Ni-ente, Essere, o Terra, "l'assidua-infaticabile-non costretta" (L'origine dell'opera d'arte, in "Sentieri Interrotti", p.31, Nuova Italia, Firenze).
Nell'opera d'arte sono esemplarmente uniti il Mondo, come ciò in cui noi abitualmente siamo e che quotidianamente significhiamo, e la Terra, madre occulta, potenza pura di ogni determinato creare, fare, dire umano.
La creazione artistica, sia essa poesia, pittura, musica, tiene in sé dunque forma e informe, luce e notte, visibile e invisibile, Mondo e Terra.
La parola poetica, che l'autore stesso riporta più volte analizzando poesie di Rilke e Jabès, porta esemplarmente in sé "le cose che dice e insieme l'universo di tutto ciò che può dire e adombra"(p.94), così come lo sguardo dell'artista "è l'universo delle cose che vede, che determina, contorna e insieme l'universo delle cose che non vede ma che sente, percepisce, riflette, perché capace di custodire il senso del tempo, del 'prima' e del 'poi', dei giorni e delle notti, della luce e dell'ombra"(ibidem).
Il libro termina con una inattesa panoramica sulla situazione storico-politica dell'attuale Occidente, denunciando come ogni forma di convivenza umana radicata in un ethos " delle certezze del possesso del luogo, della dimora, della terra ancestrale" sia necessariamente violenta, intollerante, discriminatoria; non è infatti affermazione nuova che tutto ciò che più unisce, afferma e definisce, allo stesso tempo divida, separi, emargini i diversi.
Nella figura di Caino e Abele sono rapportati l'ethos politico della dimora e del possesso da un lato, l'ethos opposto del nomadismo e dell'erranza dall'altro. La loro relazione si chiude con l'omicidio del povero Abele da parte del possessore Caino.
La via di conciliazione tra Caino e Abele, l'unica strada che non porti a bagni di sangue, sembra essere all'autore quella della presa di consapevolezza dell'originaria frattura interna dell'uomo, inguaribile ferita inflitta dal Dio-Uno, ingiusto proprio perché garante dell'assolutezza della giustizia.
Ma da quando il profeta Zarathustra corse a dire agli uomini che "Dio è morto", ogni discrimine tra giusto e ingiusto, buono e malvagio, vero e falso, è parimenti saltato. La morte di Dio, ad avviso dell'autore, apre le porte a un mondo senza più vincoli, a una terra che è "immensa distesa vuota" (p.136), spazio a-topico e onnicomprensivo, Nulla in cui "già sempre siamo com-presi, tenuti insieme, ospitati"(ibidem).

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