Il crepuscolo della sovranità. Filosofia e politica nella Germania del Novecento

Angelo Bolaffi, Il crepuscolo della sovranità. Filosofia e politica nella Germania del Novecento
Donzelli Editore, Roma, 2002

di Massimo Palma

La repubblica di Weimar, questo frammento di storia del Novecento europeo, incastonato com'è tra due catastrofi, ha sempre destato notevole interesse in Italia, sarà per la tendenza a immedesimarsi nell'irreparabile fragilità delle sue istituzioni, sarà per quel fascino segreto che spetta ai simulacri incompiuti della storia, a quelle parabole promettenti e mai concluse, serbatoi di potenzialità inespresse e da riscoprire. Ma lungi dal rappresentare un esempio di 'storia fatta con i se', l'attenzione per Weimar è invece uno dei meriti di quel gruppo di intellettuali italiani della sinistra anni '70 che seppe uscire dalle ortodossie di partito per sondare terreni ancora inesplorati. Più che per trovarvi soluzioni apparecchiate, per affrontare problematiche eluse, dimenticate o messe a tacere.
Assieme ad altri studiosi (da Rusconi a Marramao, da Racinaro a Cacciari, da Tronti a Galli) Angelo Bolaffi ha avuto il merito di reintrodurre nel dibattito le figure dei politologi, giuristi e pensatori che in quegli anni decisivi discutevano dalle posizioni più disparate la costituzione del 1919, per migliorarla, lasciarla com'era o toglierla di mezzo. Il crepuscolo della sovranità è una preziosa raccolta di sei saggi composti nell'arco di un ventennio: oltre a fornire un quadro dettagliato delle figure di spicco di quel frangente, delinea anche un nitido, difficile percorso interno ai grandi temi investigati, mettendo (ulteriormente) a nudo il re, ovvero il concetto tradizionale di sovranità, per indagare i nuovi concetti - come indica l'introduzione, premessa fondamentale del libro perché fa da trait d'union filosofico all'attento lavoro di scavo compiuto nei diversi contributi. Passando attraverso una tripartizione di ordini tematici - l'intreccio costituzione-crisi della sovranità nel dialogo a più voci tra Schmitt e i giuristi Kirchheimer, Neumann, Fraenkel, più o meno vicini alla SPD; l'opposizione tellurico-talassico dello Schmitt alla ricerca del nomos; la triangolazione di etica, diritto e politica da Weber al dibattito Kelsen-Cassirer - emerge un doppio filo conduttore nel lavoro di Bolaffi.
Da una parte v'è l'attento lavoro di ricostruzione storiografica compiuto nei primi due saggi. La precisione con cui vengono esposti gli slittamenti teorici dei protagonisti restituisce l'atmosfera incandescente del 'laboratorio Weimar', diviso tra le spinte liquidatorie di uno Schmitt e le diverse soluzioni dei suoi giovani allievi, presi in un vortice in cui il peso degli eventi segnava direttamente l'elaborazione concettuale: resta esemplare a questo proposito la torsione cui Kirchheimer sottopone il proprio punto di vista sulla costituzione di Weimar. Dall'icastica immagine di una 'costituzione senza decisione' presente in "Weimar - e poi?" (1930), tesa a rimarcare l'assenza di una "comunità politica del volere", di un valore legittimante la legalità della costituzione formale, Kirchheimer passa a riconsiderare il ruolo strategico della rappresentanza parlamentare per il movimento operaio e a rivalutare il ruolo delle 'forme', tende insomma più a Kelsen che a Schmitt. E in questo contesto l'A. a mostrare le oscillazioni anche a brevissima distanza e le divergenze più sensibili con il 'pluralismo disincantato' di un Ernst Fraenkel, teorico di una complessa 'democrazia collettiva', ideale ponte di congiunzione tra Weimar e Bonn. Perché è proprio 'quel che resta di Weimar' a costituire il filo rosso dell'interesse dell'autore alla sfortunata prima repubblica tedesca. È la sotterranea presenza di Weimar nella Repubblica Federale dopo il 1945 ad attirare l'attenzione, l'evidente sussistere di alcuni suoi tratti anche nella Germania unificata, con Berlino capitale. La scoperta teorica di una società complessa, irriducibile a una qualsiasi omogeneità immediata, ispira per la prima volta la ricerca di una soluzione democratica dialettica, capace di 'mettere in forma' i molteplici conflitti senza ridurli a una mera lettura agonale.
Un secondo fulcro teorico corrisponde a una motivazione di fondo messa già in luce nel recente dialogo con Giacomo Marramao (Frammento e sistema, Donzelli Editore, Roma 2001), teso a svecchiare i luoghi comuni della filosofia politica, aprendola a un orizzonte concettuale figlio (nel senso migliore) della lezione schmittiana, vale a dire attento a cogliere le traversie e le cesure nei paradigmi comprensivi della storia concreta legandoli alla geopolitica, ai rapporti di forza, alla perdita di centro intrinseca alla deriva della modernità. È appunto secondo un paradigma 'conflittuale' a più attori, e non più secondo la dicotomia 'dominatori-dominati' che devono essere affrontati, secondo l'autore, i nodi teorici che sottostanno al conflitto-mondo nell'era della globalizzazione. Legata a una simile chiave geopolitica è naturalmente la lettura del Moderno al cui interno vengono fatte reagire le 'categorie del politico', una lettura fatta ex post, a partire dagli strumenti offerti da Weber e Schmitt, ma attenta a cogliere nell'attualità non tanto una cesura netta, un post-moderno, quanto una deriva che porta con sé degli elementi, lasciandone altri alle spalle. In questo senso Bolaffi si avvicina ad Habermas, guardando alla modernità come a un processo ancora incompiuto, definendola 'tarda modernità', e non disdegnando di sottolineare le aporie in cui incorre una visione del nomos regolatore della terra, allorché sprofonda nell'interrogazione della questione della tecnica. La seconda sezione del libro tematizza quindi l'opposizione tra due modelli, quello insulare (o marittimo, anglosassone) e quello tellurico (europeo-continentale), per definire una serie di dicotomie concettuali caratteristiche delle due tipologie, l'una basato sulla norma e sul pluralismo, l'altra sull'eccezione, sul conflitto e l'assolutismo. La necessità di una ricostruzione di una storia del nomos, inteso come appropriazione della terra ed evento politico originario che delinea i confini e le linee di amicizia o ostilità, viene ribadita sulla scia di Schmitt, per individuare nell'epoca attuale, l'era della rivincita delle potestà intermedie, un momento decisivo, in cui alcune possibilità hanno esaurito il loro compito realizzativo e lasciano aperto un campo inesplorato. Ed è assai pertinente, per questa ragione, tornare alle radici del dibattito in lingua tedesca, alla prima metà del secolo, per scoprirvi strumenti concettuali, impasses e discussioni che fungano da battistrada in questo percorso inedito.
E se alla radice di Weimar troviamo Weber, con l'autore della "Politica come professione", si apre nella terza parte del libro un orizzonte tematico ancora più profondo. È in questione infatti il nesso tra nichilismo e razionalizzazione, il legame tra la modernità e il politeismo dei valori. Perché da questo cortocircuito si possa uscir fuori con qualche profitto, bisogna tenere assieme i due lati dell'ambigua eredità weberiana, come Bolaffi sottolinea in più modi, impegnandosi nel compito più difficile, e da un punto di vista ermeneutico e da una prospettiva di proposta pratica. Non scegliere un Weber definitivo, 'disincantato' o 'convinto', 'responsabile' o 'carismatico', ma analizzarlo nella sua strutturale duplicità vuol dire restituire al Novecento, almeno in parte, la sua inquietante ambiguità, per trarne elementi insostituibili d'analisi del 'politico' senza sottostare alle fascinazioni decisionistiche. E per questo la strada, più che chiudersi in un vicolo cieco, si apre. Constatato che l'idea d'umanità non è "solo un inutile pregiudizio" (p. 208), l'eco del monito schmittiano sul concetto di 'umanità' usato come arma da guerra non ha con ciò modo di spegnersi, rinforzata dall'attualità della guerra umanitaria - come ci ha mostrato più volte Danilo Zolo -, il tragico ossimoro che nasconde l'impotenza quasi ontologica del diritto (internazionale) di fronte al 'politico'. Allora è preziosa l'indicazione di Bolaffi che invita ad andare oltre un'interpretazione polemologica del 'politico': la "praticabile terza via" tra gli eterni valori del giusnaturalismo e il relativismo storicista cui si allude dubbiosamente in conclusione del saggio più recente, "Etica moderna e diritto naturale", si sofferma sul valore ambiguo del diritto, fattore 'positivo' ma non sovratemporale, criticabile, sì, eppure "scatola" indispensabile da cui estrarre l'umano, secondo l'espressione di Norberto Bobbio.
Ma nella deriva dello Stato-Leviatano chi si faccia carico di portare questa scatola latita. Oppure c'è, e nessuno lo vede. E viene da chiedersi se sia davvero inevitabile tornare a Kafka ogni volta che si parla di diritto.

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