Metapolitica

Alain Badiou, Metapolitica
Cronopio, Napoli, 2001

di Giorgio Cesarale

Metapolitica è il terzo volume di una trilogia che espone i frutti teorici più solidi venuti a maturazione negli anni ’90 dopo l’opera filosoficamente più impegnativa di Badiou, L’être et l’événement (1988). I primi due volumi di questa trilogia sono dedicati rispettivamente all’ontologia (Court traité d’ontologie transitoire) e all’arte (Petit manuel d’inhesthétique). A sua volta questa trilogia è propedeutica ad un’altra opera di Badiou, Logiques des Mondes, che è in corso di preparazione e che rappresenterà la traduzione nel versante di una fenomenologia dell’esperienza delle tesi e degli schemi ontologici di L’être et l’événement.
È difficile presentare, diciamolo fin dall’inizio, al lettore italiano le opere di Badiou. Nel suo pensiero si intersecano attraverso una combinatoria sempre spiazzante diversi motivi teorici che o non sono mai entrati nel novero dei problemi che in Italia si discutono con più frequenza o che pur essendolo stati in passato sono stati colti da rapida obsolescenza. È chiaro, infatti, che riferimenti del tutto imprescindibili per Badiou, come le opere di Sylvain Lazarus e del Ranciére degli anni ’80 e ‘90, dicano assai poco al pubblico italiano così come la continua e martellante riflessione condotta sul significato dell’attività politica di Mao e di Lenin. Non ci pare quindi scelta saggia soffermarsi sull’articolazione e gli esiti dei numerosi e decisivi confronti teorici che egli ingaggia in questo testo.
È più utile, allora, sottolineare di questo libro gli aspetti più propositivi e originali che di esso emergono. Per far ciò risulta però necessario compiere una attenta opera di chiarificazione dei termini teorici fondamentali del pensiero di Badiou. Se, infatti, si desse per scontato il significato di concetti come politica, democrazia, Stato poco si riuscirebbe a capire di ciò che il pensatore francese dice in questo come negli altri suoi testi principali. Forse la migliore cartina di tornasole di ciò è il concetto di politica configurato in Metapolitica. Esso non ha niente a che vedere con il tradizionale concetto di politica in uso nella disciplina deputata a indagarne la natura e le strutture, la filosofia politica. Politica per Badiou, infatti, non è un’attività tesa a comporre gli interessi e la volontà degli individui o delle classi che formano una determinata comunità politica, non è quindi un’attività volta a gestire la riproduzione complessiva della comunità politica, ma è una procedura di verità, è cioè un’attività di pensiero. Un evento è politico, quindi, quando in esso si innescano meccanismi di produzione di verità. Ma questo è ancora molto generico, dato che anche la scienza e l’arte possono accampare la pretesa di essere procedure atte a produrre verità. Pertanto Badiou ha cura di specificare le condizioni che distinguono la politica dall’arte e dalla scienza. Queste sono ravvisabili essenzialmente nella maggiore universalità dell’attività politica - cioè nella maggiore capacità della politica di azionare procedure di pensiero collettive - nella sua maggiore porosità all’infinità soggettiva delle situazioni - e cioè nella sua più spiccata qualità di istituire e dischiudere processi più aperti al possibile - e nel suo diverso rapporto con il cosiddetto stato della situazione - cioè con la codificazione e il controllo sui collettivi e i sottoinsiemi della situazione, rappresentato ai giorni nostri per Badiou dallo Stato parlamentare. Una procedura di verità di questo tipo non può quindi che essere sempre singolare, sempre produttrice di situazioni politiche nuove e inconfrontabili con quelle precedenti. Anzi la vera politica, in quanto innervata di infinito, o è singolare o non è. Qui si fanno strada gli aspetti anche più appariscenti del suo pensiero: Lenin è o non è il prosecutore di Marx, Mao è o non è il prosecutore di Lenin, il Termidoro è o non è la Rivoluzione francese? Badiou non nutre dubbi: le sequenze politiche non mettono mai capo a scansioni omogenee e continue, sono sempre affette da una discontinuità radicale. È lo stesso tema che su un altro terreno Badiou ha posto a proposito di San Paolo: che rapporto ha Paolo con Gesù? Non è forse avvicinabile, dice Badiou in Saint Paul. La fondation de l’universalisme, al rapporto che Lenin intrattiene con Marx? Stessa domanda, quest’ultima, che Gramsci si poneva nei suoi Quaderni del Carcere, ma che Badiou risolve in maniera opposta a quella del pensatore marxista, mettendo in rilievo, cioè, la funzione inaugurale di San Paolo. Ma se la politica è sempre produzione singolare di verità che destino subiscono le grandi categorie del pensiero politico, la democrazia, l’eguaglianza etc? Badiou ha orrore della democrazia piegata in senso mercantile, la democrazia elettorale, quella che si esplica con il voto alle elezioni alla stessa maniera in cui il consumatore sceglie al mercato il bene a lui più utile. In questo modo, la politica, la democrazia e l’eguaglianza non sono nient’altro che pure appendici dello Stato, forme di manifestazione di quella figura che sopprime il pensiero collettivo nell’evento che è lo Stato parlamentare. C’è un altro modo, invece, per ricongiungere democrazia e eguaglianza ridando nel contempo significato ad entrambi i concetti: si tratta di intendere la democrazia come pura esposizione del collettivo sulla scena pubblica che non tollera che si applichino ad esso prescrizioni particolari, vale a dire enunciati non egualitari. Insomma, per Badiou la democrazia è egualitaria nel suo senso più profondo proprio perché permette di sfuggire alle codificazioni particolaristiche cui è costretto a ricorrere lo Stato. Democrazia, dice il pensatore francese in un luogo del testo, è dismissione delle categorie di “immigrato”, “arabo”, “francese”, in quanto parole che “rinviano necessariamente la politica allo Stato e lo Stato stesso nella sua funzione più essenziale e più bassa: il novero non egualitario degli uomini” (ivi, p.110).
A muovere da questa prospettiva, è la stessa nozione di filosofia politica ad essere revocata in dubbio. Essa è colpevole di compiere una operazione di distanziamento del pensiero dall’evento politico, dal farsi collettivo della verità nell’infinità della situazione e dello stato della situazione. Perché mentre per la metapolitica le politiche reali sono pensieri, la politica è pensiero, per la filosofia politica la politica è oggettività brutale che richiede l’intervento del pensiero per cogliersi in trasparenza. In virtù di questa singolare capacità di portare a consapevolezza ciò che non vive nella consapevolezza, il filosofo politico può perciò assegnarsi altri due obiettivi: additare i princìpi della buona politica, esplicando quindi una dubbia funzione normativa sulle politiche reali, ed estraniarsi, per svolgere al meglio il suo lavoro riflessivo, dai processi politici reali, abdicando al compito di essere partecipe militante di essi. Né la filosofia politica può essere utile spettatrice del plurale e multiverso gioco di pareri e di giudizi che si profila nell’arena pubblica, secondo i compiti che le ha assegnato Hannah Arendt. E ciò, stavolta, non solo perché riproduce il dualismo fra essere della politica e suo pensiero, ma anche perché il confronto fra le opinioni nello spazio pubblico presuppone come non più attingibile la verità, giacché per verità Arendt designa ciò che si impone senza discussione. Per Badiou vale proprio il contrario, essendo proprio il processo politico reale il vero soggetto del giudizio politico e non le opinioni che popolano l’arena pubblica.
Questi sono alcuni dei lati più consistenti della proposta teorica presentata in Metapolitica. All’indirizzo delle argomentazioni di Badiou vogliamo, molto brevemente, muovere solo due osservazioni. La prima punta sull’autoconsapevolezza teorica del filosofo francese, ed è questa: pur elaborando una tematica molto affine, almeno a nostro avviso, a quella di Heidegger, e lo testimonierebbe da sola la tesi della verità politica come evento, Badiou non discute mai, in questo testo, il pensiero del filosofo tedesco. Sarebbe, invece, interessante capire in che punti egli si distanzi e in quali converga con il pensatore di Essere e tempo. In secondo luogo, rimane un po’ oscuro il motivo per il quale esistono e sono vitali le categorie politiche che rompono la verità come singolarità: perché allora pur producendo politiche singolari Lenin si pensa in continuità con Marx e viene a tutt’oggi pensato in questo modo o perché sono ancora giudicate come valide categorie storiche come “Rivoluzione francese” che costruiscono sequenze storiche omogenee? È solo lo Stato a compiere simili inversioni?

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