Nietzsche filosofo "totus politicus"

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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In occasione dell'uscita del suo nuovo libro "Nietzsche, il ribelle aristocratico", Bollati Boringhieri, Domenico Losurdo chiarisce i tanti perché dell'insufficienza di un'interpretazione politicamente innocentista di Nietzsche. Quando l'ermeneutica dell'innocenza diventa esegesi colpevole di rimozioni e mistificazioni rispetto a un grande pensatore.

Nietzsche filosofo "totus politicus"

di Domenico Losurdo

Il 14 aprile 1999, mentre infuriava la guerra contro la Jugoslavia, su "la Stampa" appariva una breve lettera firmata da Gianni Vattimo che così suonava o tuonava: "Ma Domenico Losurdo, Luciano Canfora, Costanzo Preve, Livio Sichirollo e gli altri firmatari della lettera di solidarietà al popolo serbo, che invitano Milosevic a "ristabilire la convivenza tra i diversi gruppi etnici" nonostante l'aggressione imperialista (colpevole di averla turbata?), hanno sentito parlare della Bosnia, degli stupri etnici, dei campi di concentramento, della pulizia razziale cominciata da Milosevic dieci anni fa?". Due giorni dopo, sempre "la Stampa" ospitava una replica firmata dal sottoscritto. Dopo una ricostruzione assai diversa della vicenda del Kosovo, la mia lettera così si concludeva: "Vattimo si è meritatamente conquistato una fama internazionale come interprete di Nietzsche e Heidegger. Peccato che ora sembri perdere di vista un aspetto essenziale della loro lezione: il pathos morale può veicolare le peggiori crociate sterminatrici". Prescindiamo qui dagli aspetti più immediatamente politici di questo scambio di lettere (d'altro canto, sulla nuova guerra che si profila all'orizzonte, Vattimo sembra per fortuna voler assumere un atteggiamento del tutto diverso). E' più importante un altro aspetto. Già dalla polemica appena vista emergeva un contrasto filosofico, che verteva e verte non sulla grandezza del filosofo in questione, bensì sugli insegnamenti che da lui si possono e si devono ricavare. Anzi, dal mio punto di vista era ed è chiaro che la lettura innocentista di Nietzsche gli fa un grave torto, rendendo impossibile la comprensione della possente carica demistificatrice che dispiega il suo "radicalismo aristocratico".

Radicalismo aristocratico e rivendicazione della schiavitù

"Radicalismo aristocratico": in questa definizione, che si deve alla penna di un amico e ammiratore (Georg Brandes), Nietzsche si riconosce in pieno. Ed essa sembra ben caratterizzare un atteggiamento politico che non si limita a condannare come espressioni di "decadenza" e "degenerazione" lo Stato sociale, i sindacati, la diffusione dell'istruzione, la democrazia, il regime parlamentare. Andando ancora oltre, il filosofo non esita a rivendicare la permanente validità dell'istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà. L'ermeneutica oggi dominante preferisce rimuovere o leggere in chiave allegorica questo motivo che accompagna come un'ombra l'opera di Nietzsche in tutto l'arco della sua evoluzione. Epperò, a rinviarci alla storia e alla politica sono i testi stessi del filosofo, che contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l'autrice della Capanna dello zio Tom, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco suscita in Europa e nella stessa Germania. Ancora più significativa è l'osservazione contenuta in Umano troppo umano: tutti desiderano l'"abolizione della schiavitù"; eppure bisogna ammettere che "gli schiavi sotto ogni riguardo vivono più sicuri e più felici del moderno operaio (Arbeiter) e il lavoro (Arbeit) degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell'operaio", dell'Arbeiter. Di nuovo, siamo rinviati alla guerra di Secessione e all'aspro dibattito che l'ha preceduta e accompagnata: ad insistere sul fatto che la condizione degli operai liberi non è migliore di quella degli schiavi, a contrapporre la schiavitù salariata, descritta con implacabile durezza di toni, alla schiavitù vera e propria, per lo più mistificatoriamente immersa in un'ovattata atmosfera patriarcale, ad agitare tale argomento sono i difensori della schiavitù.

E' bene allora precisare il quadro storico in cui si collocano la vita e la riflessione di Nietzsche. La sua giovinezza cade nel mezzo della guerra di Secessione: in riferimento alla situazione del Sud degli USA, Tocqueville sottolinea come pene severe proibiscano di insegnare agli schiavi a leggere e scrivere. Siamo portati a pensare a Nietzsche: "Se si vogliono degli schiavi - e di essi si ha bisogno - non si devono educare come padroni". E' sempre Tocqueville ad osservare che nel Sud degli USA il valore tenuto in maggior considerazione dai padroni bianchi è l'otium, mentre "il lavoro si confonde con l'idea di schiavitù". E di nuovo il pensiero corre a Nietzsche, al suo sarcasmo sulla "dignità del lavoro" e alla sua denuncia della "famigerata volgarità degli industriali dalle rosse mani grassocce", essi stessi contaminati dalla moderna frenesia del lavoro. Negli anni successivi al 1865, alla cancellazione della schiavitù nella repubblica nord-americana corrisponde la cancellazione della servitù della gleba in Russia; senonché, forme di servaggio o semiservaggio persistono nei due paesi. L'Inghilterra, che nel 1833 ha abolito la schiavitù nelle sue colonie, procede poi, negli anni '70 e '80, al blocco navale delle coste dell'Africa orientale per impedire la persistente tratta dei neri in direzione soprattutto del Brasile che abolisce la schiavitù, e il relativo commercio degli schiavi, solo nel 1888, l'anno in cui ormai volge al termine la vita cosciente del filosofo. Infine, è da tener presente che, mentre giustificano la loro espansione in nome dell'abolizione della schiavitù nelle colonie, le grandi potenze sottopongono gli "indigeni" a rapporti di lavoro servili. E' la conferma, agli occhi di Nietzsche, dell'ineludibilità di un istituto che a torto e invano i filantropi moderni pretendono di abolire.

Il dibattito sulla schiavitù irrompe con forza anche sul terreno dell'antichistica: nel 1848 Henri Wallon pubblica la sua Histoire de l'esclavage dans l'antiquité e, nella lunga prefazione (un libro nel libro), prende netta posizione a favore dell'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, decisa dalla repubblica scaturita dalla rivoluzione del febbraio 1848. Ben si comprende il coinvolgimento dei filologi. Wallon osserva che, nell'opporsi alla soppressione della schiavitù nelle colonie francesi, "i partigiani dello status quo, fanno appello all'antichità". Anche negli USA la polemica anti-abolizionista celebra ripetutamente la splendida fioritura della Grecia antica, impensabile senza la presenza di quel benefico istituto, tanto odioso a sciagurati ideologi privi del senso della realtà. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra di Secessione, lo studio dei classici latini e greci è al centro del curriculum delle scuole e delle Università nel Sud. Particolare attenzione viene riservata ad Aristotele, ed è per l'appunto tenendo presente la definizione aristotelica dello schiavo che Nietzsche parla della stragrande maggioranza degli uomini come "macchine intelligenti" ovvero come "strumenti di trasmissione".

Onnipresente in Nietzsche e nel dibattito culturale e politico della seconda metà dell'Ottocento, il tema della schiavitù dilegua o si trasforma in un'innocente metafora nell'ambito dell'odierna ermeneutica dell'innocenza (Bataille, Deleuze, Vattimo, Colli, Montinari ecc.). Il filosofo viene così "salvato" ma a caro prezzo, attribuendogli una limitata capacità di intendere e di volere in campo politico: egli avrebbe fatto costante ricorso alla "metafora" della schiavitù, essendo del tutto all'oscuro dell'aspra polemica e della dura lotta che, su tale tema, divampavano attorno.

Otium et bellum, "guerra e arte"

E, invece, per Nietzsche non ci sono dubbi: sono le fatiche e gli stenti degli schiavi a rendere possibile la civiltà, consentendo ad una ristretta minoranza di uomini la libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni materiali e dunque il godimento dell'otium e la promozione della cultura e dell'arte. Tale aristocrazia si impegna a custodire la sua "distinzione" rispetto non solo alle masse lavoratrici ma anche, come sappiamo, ai capitalisti dalle "mani grassocce". Questi ultimi tendono a condividere le idee e i gusti delle prime: gli uni e le altre si riconoscono in una "civilizzazione" all'insegna del comfort materiale e di un ideale filisteo di sicurezza, sono incapaci di comprendere da un lato i valori della cultura, della bellezza, dell'arte, dall'altro i valori del rischio, del coraggio, dell'avventura, della guerra. E' in questo quadro che bisogna collocare l'inno alla guerra in Nietzsche, che non si stanca di celebrare le figure dei grandi condottieri, quali Alessandro, Cesare, Napoleone, e che, in particolare, raccomanda il "militarismo" di Napoleone come "cura" necessaria contro l'odiata "civilizzazione".

Senonché, come per la rivendicazione della schiavitù, anche in questo caso interviene la lettura in chiave metaforica ad immergere il filosofo in un bagno di innocenza. In Vattimo la celebrazione nietzscheana della guerra diviene la "negazione nietzscheana dell'unità dell'essere" ovvero l'"insistenza sul conflitto, il caos, il carattere interpretativo di tutto". Di nuovo dileguano i conflitti politici e sociali del tempo, di nuovo la storia viene messa alla porta come un'intrusa. In realtà, nello sviluppare il suo discorso sulla guerra, Nietzsche si rivolge ad una classe ben determinata. La "nuova nobiltà", di cui il radicalismo aristocratico si augura l'avvento o la riscossa, è chiamata a riaffermare la sua "distinzione", di contro alla dilagante volgarità dell'utilitarismo e del pensiero meramente calcolante, agitando la bandiera dell'otium et bellum. Assai caro al nostro filosofo, tale motto descrive e trasfigura le condizioni di vita e i valori dell'aristocrazia europea della seconda metà dell'Ottocento. Mentre fonda la sua ricchezza e il suo splendore sul possesso della terra, coltivata da una popolazione agricola su cui pesa ancora il retaggio feudale, la nobiltà occupa per tradizione gli alti gradi dell'apparato militare. Il rapporto signore-servo si riproduce nell'esercito come rapporto ufficiale/soldati; il beneficiario dell'otium è al tempo stesso il protagonista del bellum, così come a sopportare e ad aborrire il peso dell'otium e del bellum è la massa dei servi o dei figli di servi.

Naturalmente, proprio perché unifica l'aristocrazia europea nel suo complesso e ha di mira in primo luogo il confitto sociale interno, la parola d'ordine dell'otium et bellum è tutt'altro che sinonimo di agitazione sciovinistica intra-europea. Ciò vale per l'Antico regime che sussiste fino allo scoppio della prima guerra mondiale così come vale per Nietzsche: l'aristocrazia riafferma la sua egemonia e la sua "distinzione" impegnandosi in guerre che hanno come bersaglio la plebaglia socialista nella metropoli capitalistica e la marmaglia dei barbari nelle colonie. Alcuni decenni più tardi, in Germania, Langbehn chiama "guerra e arte" a contrastare la deriva dell'involgarimento plebeo e democratico. Ad esprimersi così è un autore che si considera "discepolo" di Nietzsche. In effetti, la parola d'ordine appena vista riecheggia il motto otium et bellum, dove l'otium è la condizione indispensabile per il prodursi della civiltà e, in primo luogo, dell'arte. Lo dimostra in particolare l'esempio della Grecia. E alla Grecia sulla scia del suo Maestro, fa riferimento anche Langbehn: ""guerra e arte" è una parola d'ordine greca, tedesca, ariana".

"Allevamento", "superuomo" e "sottouomo"

Al fine di tener ferma e invalicabile la barriera che deve separare i signori dagli schiavi, Nietzsche rinvia come ad un modello al codice Manu e al mondo induista delle caste. Qui non c'è ombra di mobilità sociale: il dominio signorile e il lavoro si trasmettono ininterrottamente di generazione in generazione. Siamo come in presenza di "razze" contrapposte, quella degli ariani (il superiore popolo conquistatore) e quella dei nativi sconfitti e soggiogati. Norme rigorose vietano il mescolamento delle classi e delle razze (la miscegenation contro cui, in questo periodo di tempo tuonano nel Sud degli Stati Uniti i teorici della schiavitù e dell'assoggettamento dei neri). L'ultimo Nietzsche sottolinea compiaciuto come il codice Manu colpisca con particolare durezza "l'uomo-non-da-allevamento (Nicht-Zucht-Mensch), l'uomo ibrido, il ciandala".

Nell'esprimersi in tal modo, il filosofo risente chiaramente dell'influenza di una nuova "scienza", l'eugenetica, inventata in Inghilterra da Galton, cugino di Darwin. Ora è possibile perseguire in modo "scientifico" l'"allevamento" (Züchtung) della razza dei signori e della razza dei servi, sbarazzando al tempo stesso la società dei "materiali di rigetto e di scarto". Emergono così motivi più che mai inquietanti, e più sollecitamente che mai l'ermeneutica dell'innocenza interviene a mettere al riparo Nietzsche da ogni contaminazione con la politica e, a maggior ragione, con la politica eugenetica. Non c'è da preoccuparsi - assicura Vattimo - "questo biologismo è allegoria". Di conseguenza, tutte le volte che può egli traduce Züchtung non già con "allevamento" bensì con "educazione". Che importa se Crepuscolo degli idoli dichiara in modo esplicito che "l'allevamento di una determinata specie umana" rientra tra i "termini zoologici"? L'ultimo Nietzsche invoca rigorose misure legislative per bloccare la procreazione dei malriusciti e dei falliti della vita. Se si vuole realmente sventare il pericolo che il delinquente contribuisca a formare una "razza della delinquenza", non si deve esitare a "castrarlo". E' così che bisogna procedere anche "per i malati cronici e nevrastenici di terzo grado", per i "sifilitici": si tratta insomma di impedire la procreazione "in tutti i casi in cui un figlio sarebbe un delitto".

Non si ferma qui la politica eugenetica di Nietzsche, che non solo irride "il divieto biblico "non uccidere"" ma che giunge ad enunciare un programma estremamente radicale: "Annientamento di milioni di malriusciti", "annientamento delle razze decadenti", s'impone "un martello con cui frantumare le razze in via di degenerazione e morenti, con cui toglierle di mezzo per aprire la strada a un nuovo ordine vitale". Più evidente che mai risulta l'inconsistenza della lettura allegorica. Di cosa sarebbe metafora l'appello alla castrazione e persino all'annientamento dei malriusciti oltre che delle "razze decadenti"? E, tuttavia, in Vattimo il processo di volatilizzazione e sublimazione si conclude con la proposta di tradurre Übermensch con "oltreuomo", invece che con "superuomo": a Nietzsche starebbe a cuore solo il "trascendimento" dell'"uomo della tradizione". In realtà, nel condannare "l'egoismo dei malati", che si attaccano ad una vita priva di valore e in tal modo aggravano la "degenerazione" (Entartung), Zarathustra proclama: "In alto va la nostra strada, dalla specie (Art) alla super-specie" (Über-Art). Chiara è la contrapposizione del "super-uomo" e della "super-specie" alla dilagante "degenerazione". E' impresa vana voler separare in Zarathustra il grande e fascinoso moralista (il critico implacabile dell'"uomo della tradizione") dal brutale teorico del radicalismo aristocratico.

Ma la traduzione vattimiana implica un'ulteriore rimozione. C'è un rapporto tra la celebrazione del "superuomo" (Übermensch) e la denuncia del "sottouomo" (Untermensch), che un ruolo così cruciale e così funesto svolge più tardi nell'ambito dell'ideologia e della pratica del Terzo Reich?

Rimozione della storia e ricerca di un capro espiatorio

Ossessionata dalla preoccupazione di evitare ogni possibile elemento di contiguità tra Nietzsche e l'ideologia nazista, l'odierna ermeneutica dell'innocenza per un verso rimuove o trasfigura i motivi più inquietanti e ripugnanti del grande filosofo, per un altro verso s'impegna nella caccia al capro espiatorio: ad aver tentato di distruggere il mondo incantato delle metafore sono la "manipolazione" di Elisabeth o le mistificazioni di Lukács. Senonché, questa caccia è al tempo stesso inconcludente e superflua. Mentre il filosofo è ancora in vita, l'amico o l'ex-amico Rohde condanna la sua "morale cannibalesca". Qualche anno dopo, un discepolo di Feuerbach, Julius Duboc, osserva che dagli scritti di Nietzsche emana un "puzzo di incendio e di bruciato", un'"aria carica di miasmi in cui è immersa l'aristocrazia canagliesca dei suoi superuomini". D'altro canto, agli inizi del Novecento grandi sociologi come Pareto e Weber e, ai giorni nostri, storici eminenti quali Mayer, Nolte, Ritter, Hobsbawm, Elias, tutti concordano, sia pure a partire da orientamenti tra loro assai diversi, nel collocare Nietzsche nell'ambito della reazione antidemocratica di fine Ottocento.

Ma, oltre che inconcludente e ingiusta, la caccia al capro espiatorio è fondamentalmente superflua. E' precipitoso leggere come una diretta anticipazione del nazismo l'"annientamento delle razze decadenti" invocato da Nietzsche: è una pratica in atto nella seconda metà dell'Ottocento (si pensi alla cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa negli Stati Uniti e degli "indigeni" in Australia e nell'Africa del Sud); e questa pratica è così largamente accettata e condivisa che ad essa non hanno nulla da obiettare neppure autori che si dichiarano liberali (Burckhardt, Renan ecc). Certo, è a partire da questo contesto ideologico e politico che bisogna prendere le mosse per comprendere poi la genesi dell'ideologia nazista; ma questa vicenda va al di là non solo di Nietzsche ma anche della Germania nel suo complesso.

Ritorniamo alla coppia concettuale Übermensch/Untermensch. Rosenberg, l'ideologo pressoché ufficiale del Terzo Reich, osserva che il merito di aver per prima elaborato la categoria di Untermensch spetta a Lothrop Stoddard. Chi è costui? E' un pubblicista statunitense che ha studiato in Germania e che conosce e cita Nietzsche, dal quale è largamente influenzato. In polemica contro l'"idolo" della democrazia, Stoddard celebra anche lui la "nuova nobiltà" e rende omaggio non solo a Galton e all'eugenetica - chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-razza" (super race) così come da Zarathustra è chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-specie" (Überart) - ma anche a Teognide e alla sua battaglia contro i matrimoni misti tra nobiltà e plebe. Come si vede, la lettura di Nietzsche ha lasciato tracce vistose persino nei dettagli. Denunciando l'ulteriore accelerazione della degenerazione moderna e democratica, Stoddard mette in guardia contro il pericolo mortale che per la civiltà rappresenta l'Under Man (ovvero l'Untermensch della traduzione tedesca), dal pubblicista statunitense esplicitamente contrapposto allo Übermensch di nietzscheana memoria, sia pur diversamente interpretato.

Questa vicenda linguistico-ideologica è la conferma per un verso della vacuità della lettura innocentista di Nietzsche, per un altro verso dell'insostenibilità della teoria che pretenda di spiegare l'ideologia nazista a partire esclusivamente da un diabolico Sonderweg tedesco. Ad elaborare una categoria-chiave del discorso ideologico nazista è un autore (Stoddard) che dialoga sì con Nietzsche ma che, al tempo stesso non solo è americano ma può anche vantare il solenne elogio di due presidenti USA, e cioè Harding e Hoover.

Una critica anticipata della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani"

Abbiamo visto che trasformare in un'innocente metafora il discorso di Nietzsche sulla schiavitù significa fare grave torto ad un autore che, sin dalla sua adolescenza, si è misurato profondamente con la storia e la politica. Proviamo ora a far intervenire il contesto storico. Ecco allora che la stessa celebrazione della schiavitù finisce col dispiegare un'insospettata efficacia critica. Essa cade nel momento in cui il colonialismo europeo trasfigura la sua espansione come un contributo decisivo alla causa della lotta contro la barbarie della schiavitù. Viene così bandita una Crociata, talvolta intesa nel senso letterale e cristiano del termine; senonché, la sua avanzata va di pari passo con l'assoggettamento della popolazione "indigena" al lavoro più o meno coatto e persino con una vera e propria recrudescenza del lavoro servile, nonché con la disgregazione e la distruzione della cultura indigena. E dunque, la celebrazione nietzscheana della schiavitù s'intreccia, paradossalmente, con la demistificazione delle reali pratiche coloniali di asservimento ed etnocidio: ""L'abolizione della schiavitù", questo presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità".

Negli ultimi decenni dell'Ottocento, Bismarck decide di agitare anche lui la parola d'ordine dell'abolizione della schiavitù nel mondo coloniale e dell'espansione della civiltà e dei principi umanitari. Ed ecco rivolgersi a suoi collaboratori in questi termini: "Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?". Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato poi più agevole bandire la crociata contro l'Islam schiavista e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Si potrebbe commentare con Al di là del bene e del male: "Nessuno mente tanto quanto l'indignato". Non c'è dubbio che una critica della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" non possa prescindere dalla lezione di Nietzsche. E' un fatto assai positivo che Vattimo non si lasci più incantare dalle sirene della guerra umanitaria. Forse può essere per lui l'occasione di ripensare e di rimettere in discussione la lettura innocentista di Nietzsche.

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