Palomar - Rivista di cultura e politica

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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Palomar - Rivista di cultura e politica, n. 14, 1/2003

Nietzsche, il ribelle aristocratico di Domenico Losurdo

di Gianluca Montinaro

Sempre meno spesso, nei tempi attuali, ci si imbatte in grandi monografie dedicate al tale scrittore piuttosto che al tal’altro filosofo, al grande statista come al celebre artista. Questa pratica di ricerca, molto in voga alla fine del XIX secolo soprattutto nei pragmatici paesi di lingua anglosassone, sembra odiernamente essere caduta in disgrazia. Per contro più diffuso risulta oggi il dedicarsi allo studio trasversale di comuni tematiche di riflessioni o il procedere aforismatico o, nel caso si parli di un singolo autore, centrare l’attenzione su aspetti particolari di vita o di produzione. Inevitabilmente, quindi, non si può non rimanere colpiti dalla monumentale monografia che Domenico Losurdo (ordinario di Storia della filosofia presso l’università di Urbino) ha recentemente pubblicato su Friedrich Nietzsche (1). Quasi milleduecento pagine, raccolte sotto il titolo, generico ma molto “tagliato”, di: Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico. Il libro di Losurdo non è un ennesimo racconto della vita del filosofo di Rocken, magari intrecciata allo sviluppo della sua filosofia (come è, per esempio, Nietzsche, una tragedia borghese di Horst Althaus) ma una sistematica analisi, non tanto diacronica quanto sincronica, del suo pensiero. Sincronica alla vita del filosofo e delle sue opere (assunte come corpus unicum), del suo tempo, degli autori a lui contemporanei.
L’opera che ne viene fuori lascia quindi il lettore stupefatto per la serratezza della tesi (la sostanziale, ultima e unificante visione di Nietzsche come filosofo totus politicus) e degli assunti e per il continuo, puntiglioso, argomentare intorno a questa e quelli. Spesso, però, una volta costruito un “sistema critico”, il pericolo maggiore per l’esegeta (ma forse anche quello più auspicato in quanto dimostra la validità intrinseca della possibile interpretazione) è quello di rimanervi inesorabilmente intrappolato, di non riuscire a leggere altre prospettive interpretative e, infine, di ricondurre tutto al “sistema”, compreso quello che, inevitabilmente, esula. Insomma non è più un autore, un letterato, un filosofo a creare, a posteriori, intorno alla sua opera, un sistema interpretativo, quanto piuttosto il sistema a creare l’autore. Ad onor del vero si potrebbe comunque obiettare, non senza una buona dose di ragione, che la percezione e la conoscenza di un intellettuale, di un’opera o di un più generale accadimento storico prende vita e muta con il passare del tempo (di per sé l’opera critica rimane quindi un continuo atto revidente).
L’opera di Domenico Losurdo, di solida formazione “hegeliana”, attento interprete del pensiero marxiano, non è esente da questa “posizione di partenza”. Si pone infatti di fronte a Nietzsche con un assunto critico di partenza esplicitato chiaramente nel titolo: il filosofo tedesco viene visto come un ribelle, aristocratico, violento, antisemita, elitario, che odia la democrazia, l’uguaglianza, le teorie egualitarie ottocentesche e quelle scaturite dalla Rivoluzione francese del 1789. La produzione di Nietzsche, a volte sicuramente contraddittoria e caotica (2), viene sussunta in toto da Losurdo in una dimensione politica che risulta però ben stretta, umana, fin troppo umana, per il filosofo che filosofava con il martello, per colui che propugnava la fine degli idoli, la morte di Dio, l’avvento di una nuova morale amorale e dell’ubermensch.
L’opera di Losurdo, quindi, potrebbe essere letta anche come il massimo fraintendimento finora mai operato sull’opera del filosofo di Rocken. Come il nazionalsocialismo ha fatto proprio il pensiero nietzschiano, interpretando abbastanza fedelmente, almeno nello spirito, ciò che umanamente e letteralmente Nietzsche aveva scritto, così Losurdo utilizza il medesimo approccio. Il quesito di fondo è quindi insito nella domanda: è giusto leggere e interpretare Nietzsche (filosofo dell’oltreumano) con le categorie dell’umano? Fatta salva la massima libertà interpretativa (che in fondo dimostra la vitalità del pensiero o dell’opera criticata) ci si dovrebbe sforzare a criticare Nietzsche anche e soprattutto nella percezione che lui aveva di se medesimo e della sua filosofia. In caso contrario, implicitamente, si accetta ed alimenta il fraintendimento politico di Nietzsche ed infine lo si riduce in un campo (la politica) che lui stesso non solo non amava ma disprezzava profondamente. Anche per il padre dell’“eterno ritorno” si potrebbero utilizzare le parole di Michail Bachtin, grande semiologo russo, che, parlando della Commedia di Dante Alighieri, spiegò che ci si deve sforzare a «capire l’opera come la capiva l’autore stesso, senza andare oltre i limiti della sua comprensione» ma anche – contemporaneamente – ricercare «l’alterità del testo, perché le opere letterarie spezzano le frontiere del loro tempo e vivono nei secoli, cioè nel tempo grande, e spesso (le grandi opere sempre) di una vita più intensa e piena che nell’età a loro contemporanea» (3). Se insomma un libro, un’opera, un fatto, vive di vita propria (o viene fornito di vita propria), al di là di chi lo ha voluto o creato, si deve giocoforza accettare che gli intendimenti che erano alla base dell’opera possano essere fraintesi. Non per questo l’opera smette di esistere o perde il suo valore.
Ma la tesi di Losurdo è che sostanzialmente non c’è stato alcun fraintendimento dell’opera nietzschiana e che anzi le forzature sono arrivate da parte di chi ha cercato di rendere Nietzsche meno politico, meno umano, e di sottrarlo allo scontro ideologico. Ma per Losurdo, che si pone in una prospettiva prettamente materialista, è assodato che esista solo una dimensione, quella terrestre e quindi le parole di Nietzsche, pesanti come macigni e taglienti come il vetro, non possono essere la prefigurazione di futuri oltremondi ma che debbano, per forza, essere riferite alla nostra “situazione”: c’è solo questo mondo, con le sue regole, la sua morale e le sue leggi, sostanzialmente immodificate da secoli. Insomma “carta canta”, e le carte di Nietzsche propugnano l’annientamento dei deboli (i “malriusciti”), sono intrise di antisemitismo, e più in generale esaltano valori elitistici di disuguglianza e violenza. Poco importa se tali parole erano state scritte non perché fossero riferite in modo “umano” e reale a “questo mondo” ma piuttosto nell’oltreumano futuro, reale mondo in cui una nuova morale avrebbe capovolto i valori ed i modelli di vita e comportamento (in fondo il personaggio più famoso di Nietzsche, Zarathustra, è un profeta che propugna un nuovo modo di vivere). E’ Georges Bataille, in poche parole, a sintetizzare meglio di molti altri il senso oltreumano di Nietzsche.

L’emancipazione che Nietzsche voleva non era quella di una classe rispetto ad altre, ma quella della vita umana, nella figura dei suoi migliori rappresentanti, rispetto alle schiavitù morali del passato. Nietzsche ha sognato un uomo tale da non fuggire più un destino tragico, ma da amarlo e incarnarlo a suo piacimento, da non mentire più a se stesso e da innalzarsi al di sopra del servilismo sociale. Questo genere d’uomo sarebbe stato diverso dall’uomo attuale, che di solito si confonde con una funzione, cioè con una sola parte del possibile umano: sarebbe stato in una parola l’uomo totale, libero dalle schiavitù che ci limitano. Quest’uomo libero e sovrano, a mezza strada tra l’uomo moderno e il superuomo, Nietzsche non ha voluto definirlo. Pensava con ragione che non si può definire ciò che è libero. Nulla è più vano che fissare, limitare ciò che ancora non esiste; bisogna volerlo: e voler l’avvenire è riconoscere prima di tutto il diritto che ha l’avvenire di non essere limitato dal passato, di essere il superamento di ciò che si conosce. (4)

Se davvero – come pare – nessuna interpretazione risulta definitiva ma tutte sono funzionali all’interpretante ed al tempo a lui contemporaneo si dovrebbe assumere una posizione più conciliante nei confronti degli esegeti che hanno preceduto Losurdo nella critica all’opera di Nietzsche. Tutta letteratura la critica, senza dubbio, ma comunque sintomatica del frangente individuale e storico da cui scaturisce. I presunti edulcoratori delle teorie nietzschiane, Giorgio Colli e Mazzino Montinari, hanno comunque avuto il merito di far conoscere un ulteriore Nietzsche, forse decisamente estetico e ben poco politico, ma comunque una visione di Nietzsche che ha la sua ragione di esistere (cioè si legittima da se medesima in quanto esistente) tanto quanto quella proposta da Losurdo (5). Anzi forse la dimensione estetica (non a caso fatta propria dagli adelphiani), molto più trascendente di quella politica, è probabilmente quella che meno tradisce il senso profondo delle parole di Nietzsche. Pure l’interpretazione “marxiana” data da Gianni Vattimo viene considerata da Losurdo una forzatura, una proposta edulcorata e sviante (oltre che scorretta dal punto di vista filologico) (6). E, a conferma di ciò, scrive Mazzino Montanari: «di Marx, Nietzsche lesse a mala pena il nome» (7).
Per il nostro mondo, per la nostra epoca, Nietzsche è sicuramente anche il Nietzsche descrittoci magistralmente da Losurdo. Ma forse il vero Nietzsche (quello che lui stesso avrebbe sottoscritto) è ancora tutto da scoprire in un angolo remoto di un mondo pluridimensionale ed a-morale.

La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla base del «superuomo» appartiene all’essenza dello stesso pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea e del modo in cui essa sostiene i valori dell’uguaglianza. A tale essenza appartiene anche quel Gramsci che incautamente «sardonico» riconduceva il superuomo di Nietzsche al conte di Montecristo e ai romanzi d’appendice. Nietzsche rifiuta questi valori perché essi sono legati al Dio che muore. (8)


NOTE
1) D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 1186, 68 euro.
2) Losurdo riporta, ad epigrafe del libro, una frase di Tucholsky: «Chi non lo può rivendicare? Dimmi ciò di cui hai bisogno e ti troverò una citazione di Nietzsche. [...] Per la Germania e contro la Germania; per la pace e contro la pace; per la letteratura e contro la letteratura».
3) M. M. Bachtin, Risposta ad una domanda del Novyj Mir, p. 196, in AA.VV., La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo, Torino, Einaudi, 1980.
4) G. Bataille, Su Nietzsche, Milano, SE, 1994, pp. 197-198. Sulle molteplici possibilità interpretative, anche in ambito politico, si può ricordare: G. Penzo, Nietzsche e il Nazismo, Milano, Rusconi, 1997.
5) Losurdo riporta (p. 1077) un interessante appunto di Mazzino Montinari: «la tesi di Giorgio Colli è che bisogna ascoltare Nietzsche come si ascolta la musica – ora io non ammetto, neppure per la musica, un modo incomprensibile ed estetico di ascoltare qualcosa. [...] Se Giorgio parla così è proprio perché per lui la razionalità non ha importanza e tutto si riferisce in ultima analisi all’unità estetica dell’individuo».
6) Ci si riferisce ovviamente alla vasta produzione di Gianni Vattimo su Nietzsche. Soprattutto a: G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Bompiani, 1974. Id., Introduzione a Nietzsche, Bari-Roma, Laterza, 1985. Id., Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Milano, Garzanti, 2000.
7) M. Montanari, Nietzsche, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 97.
8) E. Severino, Nietzsche, chi ha paura del superuomo, p. 35, in «Corriere della sera», 23 gennaio 2003.

 

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