Intervista a Renata Viti Cavaliere

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Intervista a Renata Viti Cavaliere

di Federico Lijoi

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1) Il titolo della Sua relazione suona: «Spunti leibniziani negli anni di Marburg». Come mai ha scelto un titolo così poco sistematico?

La frammentazione non riguarda tanto i contenuti, perché il confronto con Leibniz si è svolto nell’ultimo corso di Marburgo, nell’estate del 1928, e quindi possediamo effettivamente un testo di riferimento all’interno del quale si svolge una Auseinandersetzung con Leibniz, un confronto ma anche un misurarsi con la tradizione metafisica moderna. Io sono stata prudente nel titolo perché non posso nella mia relazione entrare nel merito dei moltissimi temi e quindi mi limito a segnalare solo alcuni spunti teoretici che a mio avviso hanno avuto una tale profonda incidenza nella filosofia di Heidegger da risultare addirittura poi presenti nella sua filosofia ufficiale; già in quella di Essere e Tempo, che era uscito l’anno precedente, ma anche nel prosieguo e quindi dopo la famosa svolta degli anni trenta. Credo che la tematica dell’essere e la differenza ontologica tra essere ed ente, che è poi il motivo teoreticamente più interessante di tutta la filosofia heideggeriana, non solo di questi anni marburghesi, abbia molto a che vedere con la tradizione metafisica classica e moderna. Heidegger sapeva che Leibniz era un pensatore difficile da incontrare. Più di una volta dice di averne dovuto leggere i frammenti di pensiero nelle corrispondenze, negli epistolari, nelle lettere e nei brevi opuscoli che Leibniz ci ha lasciato. Questo incontro così difficile ma anche così affascinante ha prodotto risultati straordinariamente importanti, visto che il filosofo di Lipsia rappresenta il crocevia della filosofia moderna. Leibniz non è chiaramente Cartesio, ma non è nemmeno Kant. Quando Heidegger si misura con lui, si trova di fronte ad un pensiero pre-kantiano. Nella sua difficoltà di aderire al neokantismo marburghese, Heidegger utilizza l’incontro con Leibniz come spunto di confronto con la filosofia moderna. Ciò che era importante per Heidegger è che in Leibniz non vi fosse il cogito e quella sostanzializzazione della esistenza pensante che certamente egli non trovava congeniale al suo modo di pensare. Questo incontro tra Heidegger e Leibniz risulta tanto più interessante perché il filosofo di Lipsia risulta profondamente influenzato dalla tradizione aristotelica (basta leggere un po’ i suoi scritti e anche la sua biografia per sapere che, come egli stesso ha più volte dichiarato, il suo concetto di verità gli derivava direttamente da Aristotele, così come anche la passione per le questioni logiche). Il rapporto di Heidegger con Leibniz si fonda sulla discussione del principio di ragion sufficiente, che è il tema cruciale della filosofia di tutti i tempi, e che, pur non essendo una invenzione di Leibniz, venne da lui esplicitamente formulato.
Ma che cos’è appunto questo principio di ragion sufficiente?
Heidegger per un verso attribuisce a Leibniz il principio della ragione calcolante, il principio proprio della modernità che ha messo al primo posto la ratio, la ratio matematica, la ratio calcolante, la ragione moderna, e quindi la ragione tecnico-scientifica. Ma questo è un luogo comune e Heidegger lo sa bene; nel corso del 1928 (devo tralasciare gli scritti degli anni ’50, a cui pure faccio qualche riferimento), infatti, si confronta con Leibniz sulle questioni di logica e il tema più interessante non è la ragione che calcola, la ragione matematica, ma è il principio del pensiero. La questione dei principi del pensiero ci porta a chiedere insieme ad Heidegger ‘che cosa significa pensare?’ e quale sia il rapporto tra il pensiero e l’essere. In Leibniz queste tematiche sono fortemente suggestive perché egli imposta la questione sul problema del giudizio (e su questo verte principalmente la mia relazione), e quindi della inerenza del predicato al soggetto, del concetto di verità come identità. Quando noi diciamo “questo è vero” dobbiamo ammettere che c’è una identità di fondo; se manca questa identità noi non possiamo formulare alcun giudizio, non solo analitico, del tipo “il triangolo ha tre lati”, ma neppure il giudizio di fatto, quello che riguarda appunto le verità di fatto. Quindi il giudizio all’interno del quale il predicato inerisce al soggetto è anche il giudizio storico, quel giudizio che narra un evento, un fatto accaduto (Cesare passò il Rubicone). Il giudizio logico a proposito della verità di fatto diventa una sorta di enigma pressoché insolubile: noi non abbiamo di fronte agli occhi il fatto, e quindi non possiamo parlare di Vernehmen, di una visione che descriva il ‘che cos’è’ e il ‘come’ in relazione alla nostra esperienza vissuta. Abbiamo bisogno invece di mettere in rapporto quelle che Heidegger chiama le estasi temporali: passato, presente, futuro. Insomma, quando Heidegger si confronta con Leibniz a me pare si realizzi una sorta di simbiosi, quasi una immedesimazione nella metafisica leibniziana, che finisce per avere come suo corrispettivo la logica del giudizio, cioè del giudizio all’interno del quale il predicato inerisce al soggetto; insomma la monadologia, che è la metafisica leibniziana, e quindi il concetto di monade, è sul versante della sostanza metafisica quello che il giudizio è sul piano logico (c’è una perfetta aderenza di logica e metafisica che in qualche maniera precorre anche Hegel). Allora l’incontro tra Heidegger e Leibniz è un incontro che in un certo qual modo consente ad Heidegger di mettere un po’ da parte la questione categoriale-trascendentale, che pure naturalmente gli interessa. Io arrivo a fare questa ipotesi di lettura: la concezione heideggeriana dell’essere ha molto a che vedere con la sostanza monadica di cui parlava Leibniz.
Perché? Che cos’è la monade?
La monade è il principium individuationis, l’assoluta unicità del qualcosa, che può essere una persona o qualsiasi vivente (Leibniz è stato il primo a difendere la specificità di ogni vivente, a qualsiasi livello di vita si voglia restare); la monade è quella nozione, come peraltro i medievali gli avevano insegnato, completa e perfetta che contiene dentro di sé tutti i predicati passati, presenti e futuri. Magnifica questa nozione, perché concentra nella sostanza che è monade la compresenza di tutte le estasi temporali. E allora anche il giudizio logico non può riguardare o il passato o il presente o il futuro, ma nella formulazione del giudizio logico noi concentriamo tutti i momenti del tempo. E’ un po’ quello che nella sua relazione diceva Costantino Esposito: dalla storia come eredità alla storia come destino. Ciò non significa affatto che tutto è preordinato e che non c’è libertà. Leibniz si è effettivamente trovato nel labirinto del conflitto tra necessità e libertà e ne è uscito brillantemente con una metafisica creazionistica. Sebbene Heidegger non lo segua su questo versante, comunque aderisce a mio avviso alla metafisica leibniziana perché trova in essa la possibilità di dire che l’essere non è un ente, che l’essere non è qualcosa che accade ma si trova in quel che accade, cioè l’essere è kinesis, come l’essere umano: noi siamo identità narrative, non siamo mai fermi, siamo in questo momento mutevoli anche a livello cellulare e biologico, quindi c’è una unità interna di movimento che riguarda la monade anima e noi, esistenti, il Dasein. Ma c’è questa unità interna di movimento soprattutto nel pensiero dell’essere: quando noi pensiamo l’essere non pensiamo nulla di fisso, di stabilizzato, bensì, appunto, una unità interna di movimento.

2. Quali differenze ci sono secondo Lei tra l’interpretazione che Heidegger effettua di Leibniz nell’ultimo corso marburghese del 1928 e quella che invece realizza nel corso del semestre invernale 1955-56 su “Il principio di ragione”?

Le differenze sono notevoli, e ciò fu dovuto al profondo rivolgimento del pensiero heideggeriano dopo il 1933 e comunque a partire dagli anni trenta. Non credo affatto che Heidegger sia passato “dall’esistenza all’Essere”, secondo una formuletta di moda alcuni anni or sono. Certo è, però, che Heidegger ha via via abbandonato i risultati conseguiti negli anni venti sul piano logico-teoretico per accentuare la dimensione storico-ontologica del pensiero dell’essere. Heidegger ha dato sempre più importanza alla questione della tecnica, ai cambiamenti epocali, alle scansioni della storia della metafisica come destino dell’Essere. Si è sempre più inoltrato per i cammini del pensiero poetante, trascurando a mio avviso di ribadire le articolazioni necessarie al compito critico, “politico”, discussivo e comunicativo del discorso (non a caso in concomitanza con il declino della democrazia in Germania). Tornando al nostro tema – vale a dire alla lettura del principio di ragione – occorre dire che Heidegger negli anni cinquanta imputava a Leibniz la vittoria incondizionata del principio della ragione calcolante e scientifica. Incorse pertanto in una sorta di abbaglio ermeneutico che nasceva anche dal suo fiero atteggiamento antimoderno. Non colse nella leibniziana metafisica della ragion sufficiente le tante aperture alla ragione storica. Provò a leggere diversamente il problema del fondamento, che è tutt’uno con l’essere, e proprio per questo resta sullo sfondo (senza fondo ultimo) a sorreggere una ragione magari non irretita nel dogma ma neppure così forte da sostenere le sue posizioni nel concreto degli eventi. Heidegger chiudeva il corso degli anni cinquanta con l’immagine del Gioco, uno, unico, supremo. Tema di grande fascino, ma ancora una volta non utilizzato per accrescere il ruolo del pensiero nella storicità delle singole vicende individuali e collettive.

3. Rispetto al libro che Lei ha pubblicato su Heidegger e Leibniz nel 1989 (Il Gran principio. Heidegger e Leibniz) in quali direzioni si è evoluta nel frattempo la sua interpretazione della lettura heideggeriana di Leibniz?

Rispondo a questa domanda in maniera lapidaria. A parte obiecti, per dir così, non ci sono state nel frattempo pubblicazioni ( testi inediti o interpretazioni nuove) tali da indurmi a rivedere i risultati di quegli studi. Se considero invece la prospettiva della mia maturazione intellettuale, devo dire allora che qualcosa è cambiato, perché si è ad esempio rafforzata la convinzione che i temi “classici” della filosofia d’ogni tempo sono tutt’altro che inadeguati a capire i nostri tempi. L’antica formula del logon didonai è forse la più adatta a rispondere oggi all’esigenza di pensiero avanzata da tante parti.

Il dar conto, il principio socratico della conoscenza di sé nella pratica di una autonomia sia teoretica che morale, sono gli elementi essenziali del pensiero, che pur sempre si rivolge all’Essere (cioè va in cerca di senso, che è verità) ma non distoglie per ciò lo sguardo dal concreto intreccio delle particolari situazioni di vita in cui è destinato a venire consapevolmente esercitato.

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