I neocon contro il libero mercato

Corey Robin

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America versus America/2

I neocon contro il libero mercato

di Corey Robin

Nel 2000 ho passato buona parte della fine dell’estate intervistando William F. Buckley e Irving Kristol. Stavo scrivendo un articolo sulle defezioni di molti giovani intellettuali di destra alla sinistra e volevo sapere che cosa pensassero dei loro «figli» ribelli i padri fondatori del movimento. Nel corso della conversazione, però, divenne chiaro che Buckley e Kristol erano meno interessati a questi ex conservatori che allo stato penoso del movimento conservatore e all’incerto destino degli Stati Uniti come potere imperiale globale.
La fine del comunismo e il trionfo del libero mercato, suggerivano i due, erano stati benefìci non privi di risvolti negativi. Sebbene questi sviluppi fossero stati delle vittorie per il movimento conservatore, avevano reso gli Stati Uniti mal equipaggiati per l’era successiva alla guerra fredda.
Gli americani possiedono ora il più potente impero della storia. Allo stesso tempo sono posseduti da una delle ideologie più antipolitiche della storia: il libero mercato. Secondo i suoi aggressivi idealisti, il libero mercato è un ordine armonioso, che promette una società civile internazionale di scambi volontari e richiede dallo Stato poco più che la saltuaria introduzione di leggi e contratti. Per Buckley e Kristol si tratta di una concezione troppo fragile perché su di essa si possa fondare un ordine nazionale, per non parlare di un impero globale. Non fornisce infatti la gravità né lo slancio che l’esercizio del potere americano richiede in patria e all’estero. Essa ha inoltre anteposto l’interesse personale a quello nazionale – e questa non è la base più promettente su cui fondare un impero. E, cosa ancora più grave, la destra che dirige il partito repubblicano non sembra averlo capito.
«Il guaio dell’enfasi posta dai conservatori sul mercato», mi ha detto Buckley, «è che è un’idea che diventa subito noiosa. Una volta ascoltata, la padroneggi. La prospettiva di dedicarle la tua vita è orribile, non fosse altro perché è così ripetitiva. È come il sesso».
Il movimento conservatore, sosteneva Kristol con disappunto, «è così influenzato dalla cultura e dal modo di pensare del mondo degli affari che manca di qualsiasi immaginazione politica, che è sempre stata, devo ammetterlo, una qualità della sinistra». Kristol confessava il profondo desiderio di un impero americano: «Che senso ha essere la più grande e più potente nazione del mondo e non avere un ruolo imperiale? È un fatto inaudito nella storia umana. La nazione più potente ha sempre avuto un ruolo imperiale».
Ma, continuava, gli imperi precedenti non erano «democrazie capitaliste fortemente concentrate sulla crescita economica e sulla prosperità». A causa della loro fedeltà al libero mercato, gli Stati Uniti mancano della forza d’animo e della perspicacia necessarie per esercitare un potere imperiale. «È davvero un peccato», si lamentava Kristol, «credo che sarebbe naturale per gli Stati Uniti avere un ruolo molto più determinante negli affari mondiali. Non è quello che stiamo facendo ora; si tratterebbe di avere il comando e dare ordini riguardo a ciò che deve essere fatto. La gente ha bisogno di questo. Ci sono molte parti del mondo – l’Africa in particolare – in cui un’autorità che vuole usare le sue truppe può fare un’enorme differenza, una differenza che crea benessere». Ma con una discussione pubblica dominata da ragionieri «ecco che il partito repubblicano si lega da solo le mani». «Di che cosa si dibatte? Delle prescrizioni mediche per gli anziani? A chi importa? Penso che sia disgustoso che la politica presidenziale del maggior paese del mondo debba ruotare intorno alle ricette per gli anziani. Gli storici del futuro avranno molte difficoltà a crederlo. Non è Atene. Non è Roma. Non è nulla». Kristol riteneva improbabile che gli Stati Uniti avrebbero assunto il loro giusto posto come eredi degli imperi del passato.
Dall’11 settembre ho avuto molte occasioni di raccogliere conversazioni di questo tipo. L’11 settembre, ci hanno detto, ha risvegliato nell’intorpidita cultura civile americana un senso di profondità e serietà, il senso di cose «più grandi di noi». Ha costretto gli americani a guardare oltre i loro confini, a comprendere infine i rischi che gravano su una potenza mondiale. Ha dato agli Stati Uniti un obiettivo nazionale coerente e ha portato l’attenzione sul loro ruolo imperiale. Un paese che è stato a lungo refrattario a confrontarsi con le sue responsabilità internazionali è di nuovo pronto a sopportare ogni peso, a pagare qualsiasi prezzo per la libertà. Questo mutato atteggiamento, così suona l’argomento, è un vantaggio per il mondo. Spinge gli Stati Uniti a creare un ordine stabile, davvero internazionale. È anche un bene, spiritualmente, per gli Stati Uniti. Ci costringe a pensare a qualcosa di più della pace e della prosperità e ci ricorda che la libertà è una fede combattiva e non un comodo piedistallo.
Come qualsiasi momento storico, anche quello dell’odierna cultura politica imperiale ha molteplici dimensioni. È il prodotto, in parte, di un attacco a sorpresa ai civili, di un bisogno accresciuto di sicurezza, e della politica economica per il petrolio. Ma sebbene questi fattori giochino un ruolo considerevole nel determinare la politica statunitense, non spiegano interamente la politica e l’ideologia della stessa dimensione imperiale. Per comprendere quest’ultima dobbiamo esaminare l’impatto che ha avuto sui conservatori americani la fine della guerra fredda – il fallimento del comunismo e l’ascesa del libero mercato. Per i neoconservatori entusiasticamente coinvolti nella crociata contro il comunismo, tutto ciò che rimase del lascito di Ronald Reagan dopo la guerra fredda fu un radioso imprenditorialismo e la joie de vivre del mercato, che trovarono una casa ospitale nell’America di Bill Clinton. Sebbene i neocon non siano contro il capitalismo, non lo considerano però il maggiore prodotto della civilizzazione. Come i loro predecessori – da Edmund Burke a T.S. Eliot, da Samuel Coleridge a Martin Heidegger, da Henry Adams a Michael Oakeshott – i conservatori di oggi apprezzano il mistero e la vitalità e non si sentono a loro agio con il razionalismo e la tecnologia. Questo genere di sensibilità romantica non va d’accordo con il mercato, ma è vicina alla politica soprattutto nei momenti in cui essa è alle prese con la questione della guerra. È quindi del tutto naturale che i neocon, rapiti dalla grandezza epica di Roma, dall’ethos dei guerrieri pagani e non dagli agi della borghesia, vogliano seguire a oltranza la sirena dell’impero, desiderosi di creare un mondo che sia qualcosa di più del denaro e dei mercati.
Ma questa visione dell’impero potrebbe non risolvere le sfide a cui sono chiamati gli Stati Uniti. Già l’impero americano sta trovando un intralcio nei pesanti ostacoli incontrati in Medio Oriente e nell’Asia centrale. Ciò fa capire quanto sia sfuggente, in realtà, l’idea dominante dei nuovi imperialisti, secondo cui gli Stati Uniti sono in grado di controllare gli eventi e di fare la storia. Dal punto di vista della politica interna, il rinnovamento che molti speravano sarebbe stato prodotto dall’11 settembre si sta rivelando difficile da raggiungere: le vittime dell’ideologia del libero mercato non danno segni di abbattimento. Mentre è ancora troppo presto per dare giudizi definitivi, ci sono già molti segnali che l’11 settembre non porterà – e forse non è proprio in grado di farlo – le trasformazioni a lungo desiderate dai neocon.
Nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre, intellettuali politici ed esperti – non quelli della sinistra radicale, come si dice spesso, ma le principali correnti liberali e conservatrici – consideravano gli attacchi terroristici come l’esito di quel miasma culturale criticato da Buckley e Kristol. Il World Trade Center era ancora in fiamme, i cadaveri lì imprigionati dovevano essere ancora recuperati, e Frank Rich già annunciava sul New York Times: «L’incubo di questa settimana, ormai è chiaro, ci ha risvegliato da un sogno frivolo, se non decadente, durato decenni». Qual era questo sogno? Il sogno di prosperità, di poter superare ogni ostacolo con il denaro. Negli anni Novanta, David Brooks scriveva su Newsweek: «Abbiamo rifatto le nostre cucine, ampliato i nostri intrattenimenti domestici, investito in mobili da giardino, Jacuzzi e grill». Questo ethos ha avuto terribili conseguenze interne. Ha incoraggiato un «comportamento di indulgenza verso se stessi», scriveva Francis Fukuyama sul Financial Times, e «l’attenzione di ciascuno ai propri piccoli affari personali». Ha avuto anche ripercussioni internazionali. Secondo Lewis Libby, funzionario dell’amministrazione Bush, il culto della pace e della prosperità ha trovato la sua più pura espressione nella debole e disattenta politica estera di Bill Clinton, che «ha reso più facile per uno come Osama bin Laden guadagnare potere e sostenere in modo credibile che “gli americani non hanno il fegato per difendersi da soli. Non accetteranno sacrifici per difendere i loro interessi. Sono moralmente deboli”».
Ma dopo quel giorno di settembre, la scena interna appariva trasformata. L’America era diventata «più coinvolta, più consapevole e perciò più viva», scriveva Andrew Sullivan sulla New York Times Magazine. Come risultato, sosteneva Brooks su The Weekly Standard, «la vita commerciale appare meno importante rispetto a quella pubblica. […] Quando è in corso una lotta per la vita e per la morte è difficile pensare a Bill Gates o a Jack Welch come a persone particolarmente eroiche». In più occasioni diversi scrittori e giornalisti diedero il benvenuto alla galvanizzante energia morale che in quel momento attraversava il corpo politico, ricreando fiducia nel governo e producendo una cultura del patriottismo e del legame, un nuovo consenso bipartisan, la fine dell’ironia e delle battaglie culturali. Secondo un reporter di USA Today, il presidente Bush fu particolarmente astuto nella promessa dell’11 settembre, in cui offrì se stesso e la propria generazione come campioni del progetto di rinnovamento interno: «Bush ha detto ai suoi consiglieri di essere convinto che il confronto con il nemico sia per lui e per i suoi compagni baby boomers un’opportunità per riprogrammare le loro vite e mostrare di possedere lo stesso tipo di valore e di impegno di cui i loro padri diedero prova nella seconda guerra mondiale».
Sul piano internazionale, l’11 settembre costrinse gli Stati Uniti a impegnarsi di nuovo con il mondo, ad assumersi l’onere dell’impero senza imbarazzi o confusione. Mentre Gorge H.W. Bush Sr e Bill Clinton avevano brancolato nel buio, la missione degli Stati Uniti era ormai chiara: difendere la civiltà contro la barbarie, la libertà contro il terrorismo. Come Condoleezza Rice affermò su The New Yorker: «Credo che la difficoltà sia stata superata definendo un ruolo. Penso che l’11 settembre sia stato uno di quei grandi terremoti che rendono chiaro e acuto lo sguardo. Gli eventi possiedono ora una definizione molto più precisa». A un pensiero americano cullato dagli incanti del mercato si è sostituita un’attenzione consapevole al mondo fuori dei confini nazionali e il desiderio di sopportare anche sacrifici di vite umane in nome di un ordine globale retto dagli Stati Uniti. Joseph Nye, uno dei principali collaboratori alla Difesa di Clinton e successivamente decano della John F. Kennedy School of Government di Harvard, concludeva: «Quasi certamente gli americani non ricadranno più nell’atteggiamento indulgente che ha caratterizzato i primi dieci anni successivi alla guerra fredda».
Per capire perché siano così numerose le persone che hanno colto le opportunità politiche che, secondo l’opinione comune, sono state aperte dall’11 settembre, dobbiamo tornare ai tardi anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, quando le élite americane compresero per la prima volta che non potevano più definire la loro missione in rapporto all’Unione Sovietica. La fine della guerra fredda produsse un’ondata di trionfalismo, ma provocò anche, al tempo stesso, un’ansiosa incertezza nelle élite americane riguardo alla politica estera statunitense. Molti si domandavano in che modo gli Usa avrebbero definito ora il loro ruolo nel mondo. Quando avrebbero dovuto intervenire nei conflitti all’estero? Quanto grande avrebbe dovuto essere la forza militare da far scendere in campo? Sottolineare queste questioni produceva un forte disagio riguardo all’entità e agli obiettivi del potere americano. Gli Usa sembravano soffrire di un eccesso di potere, che rendeva difficile per le élite formulare un qualsiasi principio coerente per il suo uso. Richard Cheney, segretario della Difesa del primo presidente Bush, riconobbe a tale proposito nel febbraio 1992: «Abbiamo ottenuto una tale profondità strategica che le minacce alla nostra sicurezza, ora relativamente distanti, sono difficili da definire». Circa dieci anni più tardi, gli Usa sembrano ancora, ai loro leader, un gigante ondeggiante. Come ha osservato Condoleezza Rice durante la campagna presidenziale del 2000: «Gli Stati Uniti hanno trovato estremamente difficile definire il loro “interesse nazionale” in assenza del potere sovietico». Le élite politiche erano diventate così incerte riguardo all’interesse nazionale che Nye avrebbe infine alzato le mani in segno di resa, dichiarando interesse nazionale qualsiasi cosa che «i cittadini, dopo adeguata deliberazione, avrebbero indicato come tale» – un’abdicazione semplicemente impensabile durante il regno degli Uomini Saggi, ai tempi della guerra fredda.
Quando Clinton assunse il governo, lui e i suoi consiglieri fecero un bilancio di questa situazione senza precedenti, in cui gli Usa possedevano un tale potere che contro il paese – per usare le parole di Anthony Lake, consigliere nazionale alla Sicurezza di Clinton – non si profilava nessuna «credibile minaccia che mettesse in pericolo a breve termine la sua esistenza», e concludeva che i principali interessi della politica estera americana non erano più militari, ma economici. Dopo aver riesaminato sommariamente i possibili pericoli militari per gli Usa, in un discorso del 1993, il presidente Clinton dichiarò: «Noi siamo ancora di fronte a questa sfida, amorfa, ma potente, che soverchia ogni altra cosa: il modo in cui l’umanità organizza i propri commerci». Il grande imperativo era quello di organizzare un’economia globale in cui i cittadini del mondo fossero in grado di fare commerci attraverso i confini. Affinché ciò divenisse possibile, gli Usa e le altre nazioni avrebbero dovuto tenere le loro economie in ordine. Il principale obiettivo della politica estera americana era dunque, secondo Lake, «l’allargamento della libera comunità mondiale delle democrazie di mercato».
La valutazione di Clinton riguardo alle sfide che attendevano gli Usa era parzialmente ispirata a un calcolo politico. Aveva appena vinto le elezioni contro un presidente in carica che non aveva soltanto condotto gli Stati Uniti alla vittoria nella guerra fredda, ma aveva anche ottenuto una straordinaria vittoria sull’esercito iracheno. Come governatore del Sud privo di qualsiasi esperienza di politica estera – non aveva fatto neppure il servizio militare - Clinton concluse che la sua vittoria su Bush dipendeva dalla possibilità di accantonare questioni di guerra e di pace con gli elettori americani, al contrario di quanto si era fatto nel periodo precedente. Ma la visione di Clinton rifletteva anche la convinzione, comune negli anni Novanta, che la globalizzazione avesse diminuito il peso del potere militare e degli imperi tradizionali.
La forza non era più l’unico o il più efficace strumento del volere nazionale. Il «soft power» – il capitale culturale, che aveva reso gli Usa così ammirati nel mondo – era almeno altrettanto importante per la supremazia nazionale del potere militare. Nye si appellava a un intellettuale marxista, Antonio Gramsci (ed era probabilmente la prima volta che un ufficiale statunitense faceva una cosa del genere) per sostenere che gli Usa avrebbero mantenuto la loro egemonia soltanto se avessero persuaso – piuttosto che costretto – altri paesi a seguire il loro esempio: «Se posso ottenere che tu voglia fare ciò che io voglio», scrisse Nye, «non avrò bisogno di costringerti a fare ciò che tu non vuoi fare».
Per i conservatori che sognarono e poi celebrarono la caduta del comunismo, la promozione da parte di Clinton del libero commercio e del libero mercato rappresentò una vera maledizione: sebbene i conservatori abbiano la reputazione di essere a favore del benessere e della prosperità, della legge e dell’ordine, della stabilità e della routine – insomma tutte le comodità della vita borghese – detestavano Clinton perché perseguiva queste genuine virtù. La sua ricerca della ricchezza, sostenevano, aveva prodotto una società che aveva perduto il senso della profondità sociale e della dimensione politica. «In questa età di pace e di prosperità», avrebbe scritto David Brooks, «la principale sitcom era Seinfeld, un programma su nulla». Robert Kaplan in The Coming Anarchy si scagliava continuamente contro i «benestanti e ben nutriti» membri della «società borghese», troppo presi dalle loro comodità e piaceri per dare una mano – o imbracciare un fucile – per rendere il mondo un posto più sicuro. «Le proprietà materiali», concludeva, «incoraggiano la docilità» e «la mancanza di immaginazione». In un influente manifesto pubblicato nel 2000, Donald e Frederick Kagan potevano a stento contenere la loro ostilità per «la prospera situazione internazionale che è emersa nel 1991», «caratterizzata dal diffondersi della democrazia, dal libero commercio e dalla pace», «così congeniale all’America» con il suo amore delle «comodità personali».
La visione di Clinton di un benigno ordine internazionale, affermano i conservatori, tradiva un disagio rispetto al torbido mondo del potere e dei conflitti violenti, della tragedia e delle rotture. «La cosa che colpisce dello Zeitgeist degli anni Novanta», si lamentava Brooks, «era la pretesa di armonia. L’epoca era caratterizzata dall’idea che non esistessero più da nessuna parte conflitti gravi». I conservatori prosperano in un universo dal male misterioso e dall’odio inesauribile, un mondo in cui il bene è sempre in posizione difensiva e il tempo è una merce preziosa nella corsa contro la corruzione e il declino. Avere a che fare con questo mondo richiede un coraggio pagano e virtù barbariche, qualità fatte proprie dai conservatori, che sono in contrasto con i beni più prosaici della pace e della prosperità. Non è un caso che il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz sia stato uno studente di Allan Bloom. Wolfowitz fa una fugace apparizione in Ravelstein, il romanzo di Saul Bellow su Bloom. Bloom, come molti altri influenti neoconservatori, era un seguace del filosofo della politica Leo Strauss, le cui pacifiche odi alle virtù classiche e a un ordine armonioso velavano la sua visione nietzscheana di conflitti tortuosi e lotte violente.
Ma l’insoddisfazione dei neocon per la politica estera di Clinton è dovuta anche a un’altra ragione. Clinton, affermano, era reattivo e confusionario, piuttosto che propositivo ed efficace. Non si rendeva conto che gli Stati Uniti potevano forgiare gli eventi, invece di rispondere ad essi. Rompendo nuovamente con l’abituale stereotipo, per cui i conservatori sarebbero pasticcioni privi di ideologia, Wolfowitz, Libby, Kaplan, Richard Perle, Frank Gaffney, Kenneth Adelman e le due squadre di padri e figli, i Kagan e i Kristol, si appellarono a una proiezione più coerente dal punto di vista ideologico del potere statunitense. Insistettero sul fatto che gli Usa avrebbero dovuto, come sosteneva Cheney durante la prima amministrazione Bush, «plasmare il futuro per determinare l’esito della storia», o, secondo l’interpretazione posteriore dei Kagan, «intervenire in modo decisivo in ogni regione critica» del mondo, «che lì esista, o meno, una minaccia visibile». Ciò che questi conservatori desideravano era un’America genuinamente imperiale – non perché ciò avrebbe reso gli Stati Uniti più sicuri o il mondo migliore, ma perché avrebbero voluto vedere gli Stati Uniti plasmare il mondo, creare la storia.
L’11 settembre ha dato ai neocon un’opportunità di articolare senza imbarazzi la visione del potere imperiale americano, che tenevano in serbo ormai da anni. «La gente sta ormai uscendo fuori allo scoperto e utilizza la parola “impero”» ha osservato acutamente Charles Krauthammer. A differenza degli imperi del passato, affermano i conservatori, questo sarà guidato da un obiettivo benigno: il miglioramento globale. A causa del senso del fair play e degli scopi benevoli degli americani questo nuovo impero non genererà i contraccolpi che hanno subito gli imperi precedenti. Come ha sostenuto un giornalista del Wall Street Journal, «noi siamo un impero attraente, un impero di cui chiunque desidera fare parte».
Con le parole di Rice: «Teoricamente, il realista potrebbe predire che quando hai un potere grande come quello degli Usa, non passerà molto tempo prima che sorgano altri grandi poteri in grado di sfidarlo. Penso che quello a cui stiate assistendo questa volta, è che ora vi è almeno una predilezione a costruire relazioni produttive e cooperative con gli Stati Uniti, piuttosto che a riequilibrare il loro potere». L’America imperiale non dovrà più «aspettare gli eventi, mentre i pericoli si accumulano», come ha affermato il presidente Bush nel suo discorso del 2002 sullo State of the Union. D’ora in poi «plasmerà l’ambiente», anticiperà le minacce, pianificherà il suo impero non in termini di mesi o anni, ma di decenni, forse di secoli. L’obiettivo qui è quello delineato per la prima volta da Cheney all’inizio degli anni Novanta: assicurarsi, attraverso predizione e prevenzione, che nessun potere regionale raggiunga mai la supremazia nei propri teatri locali e che non sorga nessun altro potere in grado di sfidare gli Usa.
Per i conservatori questo è un periodo inebriante, un momento in cui può finalmente trovare una soluzione la loro ambivalenza verso il libero mercato – non verso il capitalismo di per sé, che essi rifiutano di sfidare, ma verso la cultura del capitalismo, l’elevare la vendita e l’acquisto a virtù politiche pari all’eroismo e alla lotta. Non più frustrati dalla torpida politica del benessere, credono di poter contare sulla risposta dell’opinione pubblica ai loro appelli al sacrificio e al destino. Con pericolo e sicurezza come parole d’ordine del giorno, lo Stato americano sarà nuovamente santificato e non avrà neppure bisogno di aprire le porte alla redistribuzione economica e allo Stato sociale. L’impero americano, sperano, consentirà all’America di conservare il suo mercato senza dover essere indebolita a causa di esso.


***

Sebbene sia ancora presto per fare un bilancio sulla situazione interna e internazionale degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, un numero sempre maggiore di dati suggerisce che l’impero americano sta incontrando numerosi ostacoli in patria e all’estero. Un rapporto del Pentagono del 1997 identifica «una forte correlazione tra il coinvolgimento degli Usa in contesti internazionali e una crescita degli attacchi terroristici contro l’America», suggerendo che ulteriori spedizioni militari statunitensi avrebbero solo accresciuto la probabilità di tali attacchi. L’aumento della vulnerabilità al terrorismo, non soltanto sul suolo americano, ma nelle basi statunitensi in tutto il mondo, preannuncia un futuro che può soltanto diventare più pericoloso per gli americani, in casa e altrove.
Ma essendo il terrorismo concepito dalla presente amministrazione come un sintomo del male imperscrutabile o dell’ostilità antimodernista ai valori occidentali, esso non viene percepito come una reazione al potere imperiale. Dopo l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan, che non hanno prodotto immediatamente quell’opposizione del mondo musulmano che era stata ampiamente anticipata, l’amministrazione arrivò a credere, secondo un ex funzionario di alto livello dell’intelligence, che non bisognasse temere alcuna reazione violenta al potere americano: «Andarono contro gli esperti del Medio Oriente che affermavano che [il bombardamento dell’Afghanistan] avrebbe portato a un’insurrezione in Arabia Saudita e altrove. Non è stato così, e chiunque ora predichi a favore della soluzione diplomatica viene deriso. Viene messo su una lista». Sebbene Osama bin Laden avesse impiegato circa dieci anni, dopo l’insediamento delle truppe americane in Arabia Saudita, a mettere in atto la sua rivincita contro gli Usa, il fatto che non vi fosse alcuna violenta reazione anti-americana nei tre mesi successivi all’attacco fu considerato una prova che una tale ritorsione non era più una minaccia – un punto sottolineato in una presentazione dello storico Bernard Lewis alla Casa Bianca nel dicembre 2001. Secondo un membro dello staff della Casa Bianca, Lewis affermò: «In quella parte del mondo, niente conta di più che volontà risoluta e forza». Ciò significa, secondo un resoconto del New Yorker, che «gli Stati Uniti non hanno bisogno di procedere cautamente per timore di infiammare la “strada araba”, fin tanto che sono pronti a essere forti».
La violenza contro gli Stati Uniti potrebbe non rivelarsi un problema, almeno non a breve termine; dopo tutto, altri imperi l’hanno sopportata per un certo periodo. Ciò che la rende un fattore alla lunga così destabilizzante è che, nonostante tutti i discorsi secondo cui gli Usa sarebbero pronti ad accettare sacrifici di vite umane come conseguenza della guerra contro il terrorismo, nel momento in cui la guerra ha mostrato di incontrare gravi ostacoli, sui media e nello stesso partito democratico americano – per non parlare dell’Europa occidentale – voci critiche sono riuscite a porre questioni serie riguardo alla fattibilità del progetto imperiale dell’amministrazione americana. Quando poche settimane di bombardamenti, nell’ottobre del 2001, non riuscirono a cacciare i talebani, ad esempio, i critici cominciarono a esprimere i loro timori secondo cui la guerra in Afghanistan sarebbe stata una ripetizione del disastro del Vietnam. Similmente, appena divenne chiaro che la guerra in Iraq si stava trasformando in una lunga campagna militare, crudele e brutale, e che gli Stati Uniti erano diventati una potenza occupante, i democratici partirono all’attacco muovendo una plausibile critica alla guerra. Con la campagna presidenziale del 2004 ormai in pieno dispiegamento la volontà di dare voce a questa critica è divenuta la cartina di tornasole tra i candidati. Inoltre, una coalizione di nazioni con lo scopo di battersi contro l’egemonia imperiale, che Rice e gli altri dichiaravano improbabile prima della guerra in Iraq, ora sembra un evento assolutamente possibile.
Sebbene nessuno di questi critici debba ancora sfidare il militarismo a motori spiegati della politica di Bush, il loro periodico ripresentarsi, particolarmente in tempi di difficoltà o di sconfitta, suggerisce che la visione dell’amministrazione è politicamente vincolante fino a quando ha successo. Ed è così che deve essere. Poiché l’asse portante della promessa dei neoconservatori è che gli Stati Uniti possono controllare gli eventi – anzi che possono determinare l’esito degli eventi – la loro visione non è compatibile con l’ipotesi che gli eventi siano al di fuori del loro controllo.
In effetti, appena la violenza nel Medio Oriente cominciò ad avere un’escalation, nel marzo 2002, persino i difensori dell’amministrazione cominciarono a cambiare cavallo suggerendo che qualsiasi invasione dell’Iraq avrebbe dovuto essere posposta indefinitamente. Come fu osservato da uno dei consiglieri alla sicurezza di Reagan: «L’ironia suprema è che la più grande potenza che il mondo abbia mai conosciuto si è rivelata incapace di gestire una crisi regionale».
Fino a quando l’amministrazione Bush evita i conflitti in cui potrebbe fallire, come quello tra Israele e i palestinesi, è costretta a rinunciare all’autentica logica dell’imperialismo che cerca di perseguire. L’ideologia dell’impero, fondata com’è sul presupposto che gli Usa sono capaci di controllare gli eventi, non può tollerare il fallimento, ma nell’evitare il fallimento gli imperialisti sono costretti a riconoscere che non possono controllare gli eventi. L’ex segretario di Stato Lawrence Eagleburger, a proposito di una discussione sulla crisi in Medio Oriente, ha osservato che Bush è consapevole che «intromettersi semplicemente in questo caos, senza nessun possibilità di ottenere un successo, è assolutamente pericoloso, perché mostrerebbe che in effetti non abbiamo al momento nessuna capacità di controllare o provocare eventi». Questo dilemma insolubile non è un mero problema di logica o coerenza; esso rivela l’estrema fragilità della stessa posizione imperiale.
Tale fragilità si riflette ugualmente nella vuotezza della visione imperiale dei neocon. Sebbene essi vedano l’imperialismo come la controparte culturale e politica del libero mercato, non hanno ancora compreso come l’opposizione conservatrice alle spese del governo non metta gli Stati Uniti nella condizione di fare gli investimenti necessari a costruire quella nazione che l’imperialismo vorrebbe. Soltanto due anni fa gli Stati Uniti promisero alla popolazione dell’Afghanistan che non l’avrebbero mai abbandonata ed è già chiaro che l’amministrazione Bush ha fatto proprio questo. Fuori Kabul, i signori della guerra governano il paese, i diritti delle donne sono inesistenti, la produzione di eroina cresce, strade e altri tipi di infrastrutture non sono stati costruiti e i talebani hanno annunciato pubblicamente la loro intenzione di cacciare dal territorio un’America squattrinata. Secondo Ahmed Wali Garzai, il fratello del presidente afgano Hamid Garzai, «è come se stessi vedendo lo stesso film due volte; nessuno sta cercando di identificare il problema. Quello che è stato promesso agli afghani attraverso la caduta dei talebani era una nuova vita di speranza e cambiamento. Ma che cosa è stato davvero portato? Niente. Ognuno è tornato ai propri affari».
Sul fronte interno, ci sono pochi elementi a favore del fatto che il rinnovamento politico e culturale immaginato dalla maggior parte dei commentatori si sia davvero verificato o che ciò accadrà in futuro. L’11 settembre potrà avere temporaneamente accresciuto la fiducia popolare nel governo e l’interesse negli affari pubblici, ma non ha soppiantato l’ideologia del libero mercato, che rende l’azione del governo una fonte immediata di sospetto fra i repubblicani e i democratici conservatori. Quando i politici hanno proposto l’intervento del governo a favore della sicurezza nazionale, settori interessati dell’economia e fautori del libero mercato sono stati sorprendentemente efficaci nell’ostacolarli. Nel marzo 2002, ad esempio, sessantadue senatori, inclusi diciannove democratici, hanno respinto degli standard più severi sui carburanti che avrebbero ridotto la dipendenza dal petrolio del Golfo Persico. Il repubblicano del Missouri Christopher Bond dichiarò di fronte al Senato: «Non voglio dire a una mamma del mio Stato che non deve prendere una SUV [Sport Utility Vehicle: sorta di jeep di grossa cilindrata, dai consumi elevati e più alte del normale, preferite dagli abitanti delle zone residenziali] perché il Congresso ha deciso che sarebbe una cattiva scelta».
Ancora più rivelatore il fatto che coloro che proponevano tali misure fossero estremamente vulnerabili a queste obiezioni. John McCain, ad esempio, si mise immediatamente sulla difensiva, promettendo che «nessun americano sarebbe stato costretto a guidare un’automobile diversa da quella desiderata», ritenendo evidentemente quest’ultima una imposizione inconcepibile anche in questa nuova era di sacrificio e solidarietà bellica.
Persino all’interno dell’esercito e negli ambienti ad esso più vicini l’etica del patriottismo e del destino è stata tradita a favore della logica del mercato. Il desiderio del governo di non spendere troppo denaro e di alzare a tale scopo le tasse ha costretto i soldati americani in Afghanistan e in Iraq a utilizzare i loro soldi per procurarsi articoli come occhiali da visione notturna, stivali mimetici da deserto, pannolini, equipaggiamento per radiocomunicazioni e zaini. I reclutatori dell’esercito ammettono di attrarre ancora i giovani non con l’appello al patriottismo, ma con la promessa di vantaggi economici. Come spiega un reclutatore: «Si tratta di affari, come sempre. Non assecondiamo la retorica dell’“Aiuta il tuo Paese!”. Quando i patrioti irrompono negli uffici di reclutamento al grido di “Voglio combattere”», spiega un altro, «devo calmarli e spiegare che noi non ci diamo da fare per combattimenti e bombardamenti, ma per il lavoro e la formazione». I reclutatori confessano che il loro target continua a essere costituito da immigrati e gente di colore, sulla base del presupposto che la carenza di opportunità professionali di queste categorie le spingerà verso l’esercito. Il Pentagono ammette pubblicamente di sperare che il numero dei latino-americani arruolati nell’esercitò crescerà dal 10 al 20 per cento. Reclutatori nella California del Sud hanno persino oltrepassato il confine promettendo la cittadinanza immediata ai messicani poveri disposti a prendere le armi per gli Stati Uniti. Secondo un reclutatore di San Diego, «è una pratica piuttosto comune per noi andare a distribuire volantini a Tijuana o, in certi casi, cercare qualcuno che ci aiuti a diffondere informazioni nelle zone vicino ai confini, in Messico».
Il fatto che la guerra non abbia ancora imposto alla popolazione quel tipo di sacrifici che normalmente accompagna le crociate nazionali ha provocato occasionali attacchi di preoccupazione tra i politici e le élite culturali. «Il rischio, sul lungo periodo», ha scritto R.W. Apple sul Times, «è la perdita di interesse. Dal momento che la guerra viene condotta in luoghi lontani dalla vista dei cittadini, e riguarda solo unità speciali, diplomatici e agenti dell’intelligence, come potrà una nazione che ha trascorso decenni in uno stato di comoda autoindulgenza mantenersi concentrata sulla guerra?». Un ex assistente di Lyndon B. Johnson afferma: «La gente dovrà essere coinvolta. Per il momento si tratta di uno sforzo del governo, come deve essere, ma le persone non sono coinvolte». Se la causa non verrà consacrata con il sangue gli americani non metteranno alla prova il loro impegno, né renderanno più salda la loro risoluzione.
Doris Kearns Goodwin si lamentava a tale proposito su The NewsHour with Jim Lehrer: «Bene, credo che il problema sia che noi comprendiamo che sarà una lunga guerra, ma parteciparvi per noi sarà molto più difficile rispetto ai mille e più modi in cui siamo stati partecipi nella seconda guerra mondiale. Allora si potevano avere centinaia di migliaia di persone che si arruolavano nelle forze armate. Si poteva andare nelle industrie per essere sicuri che ci venissero costruiti carri armati, navi e armi. Si poteva sentire in maniera diversa da come sentiamo noi; a noi viene detto semplicemente di tornare alle nostre vite normali. Ora è più difficile. Non abbiamo un quadro della situazione allo stesso modo in cui lo avevamo un tempo, sebbene ci siano alcuni segnali, in cui voglio credere, che anche la generazione più giovane desidera partecipare. Il mio figlio più giovane, che si è laureato a Harvard lo scorso giugno, si è arruolato nell’esercito per tre anni. Vuole partecipare a tutto ciò che sta accadendo, invece di andare a lavorare per un anno e iscriversi alla Law School. Vuole essere parte di tutto questo. E sospetto che ci siano moltissime altre persone come lui. Ma in qualche modo continuiamo a desiderare che il governo ci sfidi. Forse desideriamo un Manhattan Project per la produzione di vaccini antibiotici. Durante la seconda guerra mondiale, nel bel mezzo di questa grande impresa collettiva, siamo stati capaci di ottenere navi da carico non più in 365 giorni, ma in uno».
In quello che è forse lo spettacolo più strano dell’intera guerra, i leader della nazione stanno cercando delle cose da far fare alle persone – non perché ci sia molto da fare, ma perché temono che senza qualcosa da fare l’ardore dell’americano medio si raffredderà. Dal momento che questi compiti non sono necessari – e commissionarli violerebbe l’ideologia del mercato – la cosa migliore che l’amministrazione si è potuta inventare è annunciare indirizzi di siti web e numeri verdi che imprenditori e imprenditrici possono contattare per collaborare agli sforzi bellici. Come ha dichiarato Bush il giorno successivo al suo discorso del 2003 sullo State of the Union: «Se avete ascoltato il mio discorso, la notte scorsa, allora lo sapete, la gente si sta domandando: “Bene, Dio mio, questo è bello, sono stato invitato ad agire, ma dove mi devo rivolgere?”. Ecco qui: a usafreedomcorps.gov. Oppure potete chiamare questo numero – suona come un azzardo e in effetti è così; questa è la cosa giusta da fare per l’America: 1-877-USA-CORPS». Quali sono i compiti che questi volontari devono svolgere? Se sono dottori o operatori sanitari, possono arruolarsi per aiutare durante le emergenze. E tutti gli altri? Possono collaborare ai programmi del Neighborhood Watch [Sorveglianza di quartiere] e vigilare contro gli attacchi terroristici – in Nord Carolina.


***

Ci troviamo ad affrontare una situazione pericolosa. Da un lato abbiamo le élite neoconservatrici, la cui visione del potere americano è irresponsabilmente utopica e sembra essere sempre più scollegata da ogni concezione coerente dell’interesse nazionale. Dall’altra parte abbiamo una popolazione locale che mostra poco interesse per questo impero dall’estensione ampia.
L’ordine politico proiettato da Bush e dai suoi sostenitori sui media e sul mondo accademico è proprio questo: una proiezione che può durare soltanto fino a quando gli Stati Uniti sanno far fronte, con un impegno minimo, alle sfide lanciate al loro potere. Se questa affermazione è corretta, potremmo davvero essere entrati in uno di quei famigerati momenti machiavelliani discussi da J.G.A. Pocock venticinque anni fa, in cui una repubblica opta per il brivido dell’impero ed è costretta a confrontarsi con la fragilità e la finitezza di tutte le forme politiche, inclusa la propria.
Potremmo anche trovarci ad assistere – è solo un’ipotesi – alla lenta decomposizione della classe dirigente americana. Fin dal termine della guerra fredda – alcuni potrebbero dire fin dal Vietnam – si è prodotto uno iato crescente tra la cultura e l’ideologia delle élite economiche americane e i guerrieri politici come Wolfowitz e altri neocon. Mentre la guerra fredda vide la creazione di una classe semi-omogenea di Uomini Saggi, in grado di mettere insieme, sia pure in modo discontinuo, i due mondi del business e della politica – uomini come Dean Acheson, i fratelli Dulles e Averell Harriman – gli anni di Reagan e oltre sono stati testimoni di qualcosa di completamente differente. Da un lato abbiamo una generazione più giovane di magnati delle grandi aziende, che, nonostante la loro spregiudicatezza negli sforzi di assicurarsi benefici dallo Stato, non hanno neppure una minima dose del rispetto e della passione per il governo posseduti dalle loro antiche controparti. Questi nuovi amministratori delegati rispondono alle loro controparti a Tokyo, Londra e in altre città globali. Fino a quando lo Stato fornisce loro ciò di cui hanno bisogno e non interferisce in maniera eccessiva con le loro attività lasciano l’attività di governo agli uomini dell’apparato. Come un dirigente della Silicon Valley ha detto una volta a Thomas Friedman, quando gli fu domandato quanto spesso parlasse dell’Iraq, della Russia o di guerre all’estero: «Non più di una volta all’anno. Noi non ci occupiamo neppure di Washington. Il denaro viene estratto dalla Silicon Valley e poi sprecato a Washington. Voglio parlare di persone che creano benessere e lavoro. Non voglio parlare di gente insana e improduttiva. Se non mi curo dei distruttori di ricchezze del mio paese, perché dovrei curarmi dei distruttori di ricchezze di altri paesi?».

Dall’altra parte abbiamo una nuova classe di élite politiche, che hanno poco contatto con la comunità degli affari e la cui esperienza primaria al di fuori del governo è avvenuta all’università, nel giornalismo, nelle think tanks, o in qualche altro settore dell’industria culturale. Come le élite imprenditoriali guardano a una economia sempre più globale, i neocon hanno ottenuto, a quanto pare, il libero controllo di tutta la baracca. Commerciano con le idee e vedono il mondo come un vasto schermo per proiezioni intellettuali. Non vincolati neppure dal più interessato degli interessi, sono liberi di portare avanti la loro causa, nel Medio Oriente e altrove. In realtà, secondo resoconti della stampa, la maggior parte delle élite delle grandi corporations industriali negli Stati Uniti e altrove, persino nel settore petrolifero, non era interessata o era fermamente contraria alla spedizione in Iraq voluta dall’amministrazione Bush. Come le loro controparti aziendali, i neocon considerano il mondo come il loro palcoscenico, ma, al contrario delle prime, stanno costruendo un palcoscenico per un dramma più teatrale e ultramondano. Il loro finale di partita, se ne hanno in mente uno, è costituito da un confronto apocalittico tra bene e male, civilizzazione e barbarie – categorie di conflitto pagano diametralmente opposte alla visione di un mondo senza confini dell’élite americana interessata alla globalizzazione e al libero mercato.

(traduzione di Sara Fortuna)

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