Disinformacija 'stelle e strisce'

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America versus America/2

Disinformacija 'stelle e strisce'

dialogo tra Christopher Caldwell e Eric Alterman




La disinformazione diffusa (e riportata dai media) dalla Casa Bianca e i reporter inseriti nelle truppe in Iraq, i casi Jayson Blair e Judith Miller, il timore che criticare significhi antipatriottismo…Un neocon e un liberal discutono dello stato (preoccupante) del ‘quarto potere’ nell’America di Bush.


Christopher Caldwell: La mia prima considerazione è che i media americani, in una prospettiva mondiale, hanno molti pregi, nonostante abbiano sempre rivestito due ruoli in conflitto tra loro. Direi che nel decennio appena trascorso il conflitto tra questi due ruoli ha provocato una crisi d’identità. Da una parte, l’establishment americano ha sempre assegnato alla stampa il compito, semicostituzionale, di accertare nella loro oggettività i fatti relativi alle varie politiche d’interesse nazionale. Questo è il motivo per cui la gente definisce la stampa il «quarto potere». La gente prende molto sul serio questa metafora. La stampa ha finito quasi col rivestire responsabilità di governo, col rappresentare la verità agli occhi del pubblico. D’altra parte, la stampa è anche tenuta a rappresentare ogni opinione. Così c’è stato un conflitto tra coloro che si consideravano i custodi ufficiali della verità e coloro che si proponevano di rappresentare uno spettro di opinioni molto ampio, che includesse anche quelle antigovernative. La situazione è delicata.
Prendiamo il caso Watergate. In quella vicenda il Washington Post è stato il quotidiano sia dell’establishment della capitale sia del movimento contrario a questo stesso establishment, che stava affondando. È solo una considerazione generale, ma non del tutto irrilevante, credo, riguardo all’incidente di Jayson Blair (1). Il New York Times – «The Grey Lady», come viene spesso chiamato – dovrebbe in teoria stabilire i fatti in base ai quali si opera nella scena politica americana, sennonché negli ultimi dieci anni, per tutta una seria di ragioni su cui non ci soffermeremo adesso, ha anche avvertito la necessità di diventare più vivace, più iconoclastico. Ritengo che Jayson Blair sia stato rappresentativo di questo genere di nuovo giornalismo. Lo avevano assunto perché raccontasse storie interessanti. E alla fine ci si è preoccupati di più dell’aspetto narrativamente avvincente del mestiere del giornalista, tanto per non metterla giù dura, che non di dire la verità.

Eric Alterman: Parlando di Jayson Blair, non ho nulla da obiettare su quello che ha appena detto Caldwell. Caldwell ha dato una buona definizione del conflitto, anche se ce ne sono molte altre che potrebbero rendere non meno bene altri aspetti della vita dei media e del sottobosco della politica americana, aspetti che non sono del tutto ufficiali. Eppure qualcosa di ufficiale ce l’hanno, specie per quanto riguarda istituzioni come il New York Times e il Washington Post. Aggiungerei che il problema del conflitto appena delineato da Caldwell è che molti, nel mondo dei media, si comportano come se volessero il potere senza però doverne rispondere.
È fuor di dubbio che negli Stati Uniti il New York Times è un’istituzione potente, ma ancora di recente – finché, dopo lo scandalo di Jayson Blair, non hanno deciso di assumere un redattore incaricato di controllare i fatti – nessun cittadino aveva la possibilità di ottenere una rettifica dal New York Times, a meno che il New York Times stesso decidesse di concederla in un atto di generosità estrema, o in seguito al suo onesto giudizio. Il motivo per cui, a mio parere, un Jayson Blair ha potuto pubblicare così a lungo tutte quelle storie inventate, è che la maggior parte delle persone aveva l’impressione che fosse insensato contestare un’istituzione come The New York Times. Quasi tutte le persone su cui Jayson Blair si è inventato storie erano prive di potere, erano persone che si sentivano a disagio all’idea di affrontare una potenza di quel calibro.
È stato solo quando il peso schiacciante di tanti errori è diventato evidente che il Times si è visto costretto ad affrontare il problema. E alla fine se ne è occupato in modo piuttosto goffo, perché il redattore capo del New York Times, Howell Raines, ha dato l’impressione di non avere molto polso, ha sbandato da un estremo all’altro: prima ignorando il problema, poi comportandosi come se quel problema fosse la cosa più importante del mondo. Ci sono stati molti più articoli su come ha sviato il pubblico Jayson Blair, di quanti ce ne siano stati sul modo in cui lo ha fatto il presidente Bush relativamente all’Iraq.
A ogni modo, ritengo che la vicenda di Jayson Blair abbia avuto un effetto edificante sulla considerazione americana dei media: se da un lato ha diminuito la fiducia riposta in simili istituzioni, dall’altro è servita a metterli sotto accusa mostrando che i giornalisti sono più che fallibili e devono rendere conto delle loro azioni non meno dei politici. Ha anche reso la stampa molto più sensibile a questo problema, e in larga misura la nota redazionale pubblicata la settimana scorsa sul New York Times (2), a proposito degli articoli pubblicati sulle armi di distruzione di massa, rappresenta una reazione a questa nuova atmosfera insorta sulla scia dello scandalo di Jayson Blair. Ritengo che, senza questo scandalo, non sarebbe avvenuto nulla di tutto questo, e lo considero uno sviluppo salutare perché sul New York Times, come su ogni altra istituzione giornalistica, vengono pubblicate fin troppe notizie che a un esame attento non risultano poi tanto accurate. Quanto più la gente se ne rende conto, tanto migliore sarà il nostro dibattito sulla cosa pubblica.

Caldwell: È in questo ambito che, a mio parere, le nostre idee sul ruolo della stampa potrebbero divergere. Non mi pare giusto parlare di potere senza responsabilità. Credo che i media non siano tenuti a rendere conto del loro operato nella stessa misura in cui lo è il governo; ritengo tuttavia che vi siano tenuti in una misura non inferiore a quella del singolo individuo. Quanto prima smetteremo di fare affidamento su una unica fonte giornalistica per arrivare a una verità oggettiva assoluta, tanto meglio sarà per noi. Il genere di responsabilità dei media è lo stesso di un individuo: può venire citato in giudizio e può non venire creduto. Non dobbiamo dimenticare che giornalismo significa business. I media devono rendere conto ai lettori nella misura in cui mentono allo scopo di attrarli e distorcono la verità, e in questa misura devono rendere conto del loro operato nelle aule di giustizia. La giusta prospettiva è mantenuta più tramite le leggi e le consuetudini valide per gli individui che non tramite il rigido controllo morale di leggi e consuetudini valide per il governo.
Passiamo adesso all’Iraq. La mia impressione è che il New York Times si sia spinto molto in là nella valutazione delle sue responsabilità. Non credo che, al posto del New York Times, avrei sentito la necessità di scusarmi per l’accaduto. Quello che è capitato a Judith Miller (3) è increscioso, credo tuttavia che venire manipolati dalle fonti sia quel genere di cose che capita molto spesso ai giornalisti. Il New York Times – e qui entra in gioco il contesto degli ultimi dieci anni – è stato messo alla berlina in quanto quotidiano liberale. È del tutto verosimile che, avendo avuto la sensazione di non saper dare abbastanza credito a fonti provenienti da una Casa Bianca repubblicana, il New York Times abbia aggiustato troppo il tiro e abbia fatto degli errori, ma non mi pare sia andato molto oltre la misura di errore cui ci hanno abituati i quotidiani su ogni altro genere di argomento.

Alterman: Direi che su questo siamo veramente poco in sintonia. Considero il caso di Judith Miller estremamente significativo, una vera e propria sindrome: prima di tutto occorre notare una simbiosi con un governo attivamente impegnato a sviare il paese circa la natura della minaccia presentata dall’Iraq. È accaduto questo: c’è stata una fuga di notizie indirizzata a Judith Miller e a Michael Gordon, che hanno scritto una storia da prima pagina sul New York Times; dopodiché il vice presidente Cheney ha citato il New York Times durante la trasmissione della domenica come la fonte che conferiva credibilità alle sue affermazioni; mentre, in realtà, era l’ufficio del vice presidente Cheney il vero responsabile della fuga di notizie alla stampa. Il New York Times non ha fatto altro che permettere che lo si usasse per sviare il paese a favore di una guerra che, a mio parere, si è rivelata un grosso errore. Non si capisce come mai il New York Times abbia svolto questo ruolo, dal momento che quasi tutti nella destra e molti al centro lo consideravano l’epitome, il «ground zero» dei cosiddetti media di tendenza democratica e liberale, un quotidiano quindi che i media conservatori rappresentati dall’impero di Rupert Murdoch dovevano rintuzzare a ogni possibile occasione.
A mio parere questo è il bel risultato, da un punto di vista conservatore, di una campagna, durata tra i trenta e i quaranta anni, tesa a dimostrare che i media erano non soltanto liberali, ma pure antipatriottici. Prendersela con i media per la sconfitta del Vietnam, prendersela con i media per gran parte dei mutamenti sociali sgraditi ai conservatori verificatisi negli Stati Uniti…
È una questione complicata e non contesto il fatto che negli anni Cinquanta e Sessanta, perfino per gran parte degli anni Settanta, i conservatori non avevano tutti i torti, e che i pareri espressi da conservatori come William F. Buckley e Barry Goldwater erano oggetto di irrisione nei resoconti della stampa. I media credevano nei diritti civili, credevano nella dottrina Keynes, non erano dell’avviso che si dovesse fare guerra all’Unione Sovietica, credevano in una politica di contenimento, che era allora la linea dell’establishment liberale, e non prendevano sul serio i conservatori. I conservatori erano molto frustrati da tutto questo, perché, non riuscendo a far passare i loro messaggi, non riuscivano a partecipare alla politica nazionale altrettanto efficacemente dei liberali. Per questo motivo, da una parte, hanno costruito un’enorme struttura mediatica alternativa e poi, dall’altra, hanno speso miliardi di dollari, direi decine di miliardi di dollari, per attaccare i principali media con l’accusa di liberalismo eccessivo.
A questi media non è restato che rispondere all’attacco, perché stavano perdendo credibilità e potere a vantaggio dei nuovi media che si stavano dimostrando molto efficaci. Tutti questi gruppi e istituzioni conservatrici chiedevano una reazione: parte di questa reazione è consistita nel prenderli sul serio, parte è stata dargli un contentino. Non ho difficoltà col prenderli sul serio, ma quanto a dargli un contentino, quello che hanno fatto è stato semplicemente di riconoscere molti dei loro argomenti e cercare di diventare più comprensivi verso i conservatori di quanto fosse loro intellettualmente accettabile.
Potrei fare innumerevoli esempi di questo genere di meccanismo, anche se si tratta di quel genere di cose del tutto impossibile a dimostrarsi. Un esempio marginale ma, a mio parere, rivelatore potrebbe essere il modo in cui il New York Times, alle ultime elezioni, ha appoggiato come governatore nello Stato di New York il repubblicano George Pataki, un governatore atroce. Anche volendo trovare un repubblicano cui prestare il proprio sostegno, bisognava mettercela proprio tutta per scegliere uno come Pataki – non è riuscito a far passare un solo bilancio, non è stato una buona cosa per New York City, il suo governo è stato pessimo per lo Stato di New York – ma loro volevano dimostrare, a mio parere, di potere appoggiare i repubblicani non meno dei democratici, e così hanno scelto lui.
Penso che sia accaduto lo stesso con il New York Times e gran parte dei media per la guerra in Iraq. Nei media erano tutti terrorizzati all’idea di venire accusati di far perdere la guerra in Iraq o di far perdere vite americane, cose di cui erano stati accusati con tanta efficacia nel caso del Vietnam, anche se la storia ufficiale della guerra del Vietnam, così come è stata raccontata dall’esercito degli Stati Uniti, solleva chiaramente i media da questa accusa. Hanno rilassato incredibilmente i loro standard giornalistici. Il risultato di tutto questo è stato che il New York Times si è dovuto scusare, non diversamente, credo, da quasi ogni altra istituzione giornalistica. Eppure non mi pare che fosse loro la responsabilità dell’entrata in guerra degli americani sulla base di una serie di supposizioni erronee, di cui la più ovvia era che gli americani avevano l’impressione che l’Iraq avesse giocato un ruolo diretto nell’attacco dell’11 settembre, mentre in realtà non ne abbiamo nessuna prova.

Caldwell: Al cuore di molte delle questioni di cui stavamo parlando c’è proprio questo, e condivido la ricostruzione dei fatti appena data. Salvo forse su due punti. Direi che il dominio della sinistra nei media americani (ogni volta che parleremo di destra e sinistra nel contesto americano, va da sé che intenderemo non destra e sinistra in senso europeo, ma di una destra e di una sinistra comunque vicine al centro) è durato più a lungo di quanto sostiene lei. Fino alla conquista repubblicana del Congresso nel 1994. Ricordo di avere parlato molto all’epoca con giornalisti del Washington Post e del New York Times, i quali dicevano di avere bisogno di trovare più fonti repubblicane, perché avevano di colpo la sensazione di non averne abbastanza a Capitol Hill. Ma c’erano segnali che la presa della sinistra sulla stampa americana iniziava a scemare. Uno di questi era che i giornali stessi cominciavano ad aggiustare il tiro. Credo che il Washington Post, per esempio, abbia probabilmente l’editoriale più di centro al mondo e copra una sezione vastissima dello spettro ideologico, che va grosso modo da Harold Meyerson per la sinistra fino a Charles Krauthammer per la destra. Quindi i giornali hanno cominciato ad aggiustare il tiro e a diventare più centristi.
L’altro evento è stato la tecnologia. Mi pare che la radio sia cambiata, adesso la ascolta soprattutto che si trova al volante, e per un qualche motivo le persone che guidano al pomeriggio sembrano piuttosto di destra. Questo ha fatto la fortuna della trasmissione radiofonica di Rush Limbaugh ed altri, di modo che, tutto a un tratto, abbiamo avuto una parte dei media americani dove la destra non solo era equamente rappresentata, ma addirittura dominava. Ritengo sia stata una vera batosta per la sinistra. Poi c’è stata l’introduzione della televisione via cavo, che ritengo abbia aperto la strada a molte voci della destra.
C’è poi un altro aspetto della questione, ovvero l’appartenenza di classe. Credo che il doppio ruolo svolto dalla stampa, sia di custode sia di smascheratrice dell’establishment, abbia mandato su tutte le furie l’America del centro-destra, perché ai suoi occhi l’establishment era un partito democratico di persone uscite dalle università più elitarie d’America, appartenenti alla cosiddetta Ivy-League, un gruppo di individui delle classi alte, genericamente socialdemocratici, arrivati a Washington con Franklin Roosevelt e che, se eccettuiamo due momenti isolati, avevano governato il Congresso per circa sei decenni. La convinzione della destra era che questa fosse una élite che aveva pure l’audacia di sostenere di parlare a nome della classe operaia. La gente della destra pensava: la classe operaia siamo noi, come osano costoro parlare a nostro nome! Fino al momento in cui i media di destra hanno cominciato a svilupparsi alla fine degli anni Settanta, e poi negli anni Ottanta e Novanta, il centro-destra ha avuto a sua disposizione un gergo di protesta che all’epoca nessuno sembrava notare e che, genericamente parlando, era fatto di buon senso, talvolta antintellettuale, e di una specie di senso di appartenenza di classe.

Alterman: Riconosco che l’aspetto dell’appartenenza di classe sia cruciale per capire il fenomeno per cui un liberale come me resta per lo più privo di una rappresentanza nei media: salvo poche eccezioni – lei ne ha ricordata una – ritengo di condividere le posizioni politiche di Harold Meyerson del Washington Post e di Paul Krugman del New York Times, ma questo è tutto. Eppure la maggior parte delle persone di destra associa il Washington Post e il New York Times alle mie opinioni. È un problema molto ingarbugliato e frustrante. A mio parere c’è una tacita divisione di classe fra i media dell’élite americana e la maggior parte degli americani. Le differenze di classe non vengono quasi mai discusse e nominate perché gli americani si sentono tremendamente a disagio anche soltanto a nominare la parola «classe», ma trasmettono a lettori e spettatori un messaggio di questo genere: «Non prendiamo davvero sul serio le vostre vite», «Non vi consideriamo poi così importanti», «Non abbiamo idea di cosa significhi doversi preoccupare di come sbarcare il lunario da una busta paga all’altra», «Non sappiamo che effetto faccia non essere sicuri di come si farà a pagare l’assicurazione sulla salute», «La scuola pubblica, l’assistenza sociale e sanitaria non contano poi tanto nelle nostre vite».
Ritengo che gli interessi economici di queste persone siano rappresentati dal liberalismo keyenesiano, eppure esse provano un grande risentimento verso i presupposti culturali di questi milionari che dicono loro cosa dovrebbero pensare e provare – in questo il «politicamente corretto» gioca un ruolo considerevole – col risultato che viene permesso ai risentimenti culturali di mettere in secondo piano il fatto che i veri interessi politici ed economici sono rappresentati proprio da coloro verso i quali si prova risentimento. Si aggiunga il fatto che queste persone sono più religiose di quanto dimostrino di esserlo i media, e sicuramente molto più conservatrici sotto molti altri aspetti. Assistiamo quindi al fenomeno di plurimilionari come Rush Limbaugh alla radio, e Bill O’Reilly alla televisione, e molti altri, che parlano per le masse a favore di politiche che vanno a tutto vantaggio dei milionari e danneggiano proprio le persone a nome delle quali sostengono di parlare. Questo succede per via dell’affinità culturale fra le opinioni che questi milionari riescono a rappresentare, e che le reti principali e le persone che le amministrano non riescono invece a rispecchiare.
Qui c’è qualcosa di molto vero. Non posso parlare per Dan Rather, Tom Brokow e Peter Jennings, ma non posso negare che, con i loro salari da otto milioni di dollari l’anno, hanno perso il contatto con la realtà e non possono capire cosa voglia dire essere un americano costretto a barcamenarsi da una busta paga all’altra. Il fatto che queste persone siano diventate simboli così efficaci dell’elitismo liberale, e che questo elitismo liberale sia stato trasformato in qualcosa che in effetti opprime la gente – quando, a mio parere, in ogni paese europeo la gente non vota in base a valori culturali e di personalità, ma in base ai propri interessi economici – per me questo è sintomo di una grave disfunzione del sistema politico americano. Hanno tutto il diritto di votare a quel modo, ma non mi pare una grande idea.
Vorrei tanto che i liberali riuscissero a trasmettere meglio il fatto che – nonostante si possa anche non essere d’accordo su questioni come l’aborto, il matrimonio fra omosessuali, e il controllo delle armi – uno schieramento rappresenta chiaramente gli interessi della classe media e operaia, mentre l’altro rappresenta i ricchi. Non credo che potrà contestare il fatto, considerando le politiche di George W. Bush, che queste politiche sono state formulate a vantaggio dei molti ricchi e delle grandi aziende che finanziano il partito repubblicano. Ciononostante, i liberali non riescono a sfondare il muro della questione dei valori, che è in larga misura una funzione di come queste persone – 40 milioni di persone dicono di ricevere le notizie dai programmi di intrattenimento radiofonico – percepiscono i media d’élite. I media d’élite si rendono conto di non poterci fare nulla, eppure cercano di ingraziarsi queste stesse persone in modo davvero poco efficiente.
E così, dal punto di vista di un autentico liberale, questo è il peggiore di tutti i mondi possibili: abbiamo media conservatori molto potenti, pieni di energia e piuttosto dotati di senso pratico come il Wall Street Journal, l’impero Murdoch, i programmi radio, la televisione via cavo, e anche Internet, mentre dall’altra parte ci sono dei media che sono definiti liberali, i media pricipali, i quali però fanno di tutto per ingraziarsi questo stesso gruppo conservatore dal momento che non credono più nel loro sistema originario di valori e nella loro capacità di entrare in contatto con spettatori e lettori. La considero una situazione terribile, che spiega perché l’amministrazione Bush ha potuto farla franca con quello che ha fatto.

Caldwell: Concordo di cuore con molte delle sue affermazioni. Soprattutto per quanto riguarda il fatto che il modo in cui si configurano i media riflette una disfunzione della politica. È molto interessante la questione da lei sollevata, del motivo per cui sembrerebbe che gli elettori votino contro i propri interessi. C’è un nuovo libro di Tom Frank, What’s the matter with Kansas?, che sostiene fondamentalmente che i repubblicani vincono in ogni zona del paese, e particolarmente in Kansas, dove secondo gli interessi di classe non dovrebbero vincere.
È possibile che la disfunzione di cui lei parla derivi dalla stabilità del welfare state americano. I rimedi alle differenze di classe sono talmente radicati, sono talmente difesi da tutta una serie di lobby e gruppi d’interesse, e assorbono una parte talmente grossa del bilancio, che non c’è praticamente nessuna speranza di riuscire a modificarli. Per spiegarlo ai nostri lettori italiani, sto parlando del servizio sanitario, dell’assistenza sociale e dei fondi pensione prevalentemente per la terza età: non restano fondi per risolvere davvero o per affrontare qualsiasi problema di classe in una qualche maniera incisiva, e non c’è la prospettiva di riuscirci in futuro. I politici non sono credibili se parlano di cambiare tutto questo. Non possono parlare di aumentare o tagliare i sussidi, non possono dire che li estenderanno dalle persone anziane a quelle povere, non possono dire che faranno pagare più tasse per questo. L’ultimo tentativo riuscito in questa direzione è stato quello del presidente Clinton nel 1996, che cambiò i requisiti per accedere al welfare, ma si potrebbe sostenere che quello era un movimento sociale almeno quanto era di classe.
Così, non potendo alterare questo pesante fardello nel cuore dello Stato americano, la gente guarda altrove, si rivolge ai politici per ottenere rassicurazioni verbali. Qui è un altro punto di interazione fra i media e il complesso degli intrattenimenti negli Stati Uniti. Quello che la gente vuole sentirsi dire dai politici è che è gente per bene che vive nel migliore dei modi; è per questo che ci sono tanti spettacoli assurdi nella politica americana, come John Kerry che segue le gare Nascar o George Bush Senior che afferma che le cotenne di maiale, uno snack del Sud, sono il suo cibo preferito.
Capisco cosa lei intende dire, quando dice che i tagli alle tasse vanno a vantaggio dei ricchi, ma è anche vero che Bush junior ha lanciato la più grande estensione di sussidi del welfare state dalla metà degli anni Sessanta. Decidere se si tratti di un presidente le cui politiche vanno a vantaggio dei ricchi o delle classi lavoratrici, dipenderà tutto da quale delle sue misure sarà cancellata con maggiore facilità. Sto pensando adesso in termini di politica fiscale: il suo governo è stato troppo incoerente per poterne trarre una qualche conclusione.

Alterman: Passiamo adesso all’altra questione, in particolare al rapporto tra i media e la guerra. Vorrei partire da una considerazione generale. Questa guerra è stata combattuta in modo significativo da soli due paesi, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ed è fuori discussione che i media britannici sono stati molto più duri con il loro governo di quanto lo siano stati gli statunitensi. Non si può quindi affermare che i media simpatizzino tutti con il loro paese in tempo di guerra, perché è sperimentalmente provato che non è avvenuto così in Gran Bretagna, il paese probabilmente più vicino agli Stati Uniti per valori e consuetudini, con l’unica eccezione forse del Canada.
C’è tutta una serie di ragioni per cui i media statunitensi riconoscono che il governo li ha sviati durante la corsa verso la guerra, e spiegano per quale motivo hanno coperto la guerra in modo non molto diverso da chi tifava per la guerra, e perché ci hanno messo tanto a riportare alcuni dei problemi dell’occupazione, in particolare le tremende atrocità avvenute nelle prigioni. Da quanto ho capito Seymour Hersh (4) ha detto di recente in un discorso che ci sono cose ben peggiori che ancora non sono state scritte, incluse quelle riportate da Hersh, e pare che ce ne siano le prove. Pare che in queste prigioni le forze di sicurezza degli Stati Uniti o le forze mercenarie abbiano abusato sessualmente dei bambini di fronte ai loro genitori; quindi, benché i media siano stati attaccati con l’accusa di avere gonfiato queste storie, il peggio non lo abbiamo ancora sentito.
Da un lato, c’è questa sindrome di cui dicevo prima: i media che hanno una paura pazzesca di venire accusati di fomentare la sconfitta, di essere antipatriottici, specie dopo l’11 settembre quando tutti, nei media come nella società americana, volevano approfittare dell’occasione per dimostrare patriottismo e solidarietà. Era una tendenza già presente, che diventò più marcata dopo l’11 settembre.
Poi, durante la guerra, c’è stato questo nuovo fenomeno dell’inserimento dei reporter fra le truppe statunitensi. Non ritengo sia stata un’idea terribile. È molto difficile coprire una guerra, perché si può restare uccisi, e nessuno vuole morire per una storia. Alcuni reporter sono effettivamente rimasti uccisi. Io non vorrei mai morire semplicemente per scrivere una storia migliore, e così per poterla riportare senza necessariamente rischiare la vita bisogna trovare un modo per farlo. Lo stratagemma proposto dal Pentagono è stato un vero colpo di genio dal punto di vista delle pubbliche relazioni: inserire i reporter fra le unità di combattimento, dotate di tutto salvo di armi. Così i reporter dipendevano dai soldati, non solo per la protezione, ma in ogni cosa: facevano la doccia con loro, dividevano le loro razioni, passavano con loro il tempo libero, si mostravano fra di loro le foto dei figli. Da un punto di vista umano trovo che sarebbe difficile per me riportare informazioni negative su persone da cui è dipesa la protezione della mia vita e con cui ho condiviso gli aspetti più intimi della vita quotidiana. In questo modo i reporter avrebbero mostrato maggiore simpatia verso queste persone, avrebbero avuto la mano leggera sui loro errori e ne avrebbero anzi strombazzato l’eroismo: è una naturale reazione umana.
La colpa dei media non è stata di accettare questa soluzione, ma di non averla controbilanciata con il genere di notizie che non è possibile ottenere in quel modo. Se vedi dei soldati in azioni che sembrano eroiche, puoi andare più in profondità nella storia, puoi parlare con gli iracheni, puoi raccontare le cose che non vanno bene ricorrendo ad altri mezzi, come bollettini via satellite e così via; puoi intervistare persone del mondo arabo e del resto del mondo, che sono sempre state contrarie alla guerra, anche se l’America questo proprio non riusciva a capirlo, e infatti la maggior parte degli americani crede che il resto del mondo sia a favore della guerra o abbia finito col sostenerla. Questa è un’altra rappresentazione erronea passata dai media, oltre alla questione delle armi di distruzione di massa. Ci sono stati poi tutti quei reportage svianti sull’occupazione, che non hanno chiarito che l’amministrazione non ha fatto quasi niente per programmarla.
In questo paese abbiamo questa enorme infrastruttura conservatrice con molto poco per bilanciarla a sinistra. I conservatori non fanno che chiedere ai media: «Perché non riportate le buone notizie dall’Iraq? Perché siete sempre negativi sull’America? Perché non siete più patriottici?». Di recente la sinistra ha cominciato a creare il genere di istituzioni necessario a questa lotta, ma negli ultimi venti o trent’anni non c’è stata alcuna reazione. Ai dirigenti di queste corporazioni multinazionali, i quali posseggono le istituzioni dei media, non fa piacere che questo accada. Non amano questo genere di controversie. Non gli piace essere associati ad accuse di mancanza di patriottismo in tempo di guerra, e sono interessati agli affari. Rispondono quindi a questo genere di situazioni concedendo il più possibile a queste pressioni senza provocare una rivoluzione all’interno dell’organizzazione. Gran parte dei media ha interiorizzato questo genere di critica e non vuole nemmeno avere noie. Direi che tutte le forze all’opera nei media americani, internamente ed esternamente, insistono perché queste storie siano riportate con la maggiore partecipazione possibile, se non altro per dimostrare di non essere quegli smidollati liberali che vengono accusati di essere.
In Gran Bretagna non c’è questo stesso genere di forze. Pertanto i media britannici sono molto più liberi di assumere il vecchio punto di vista dei media e di dire «Dite la verità al potere». Con questo non voglio dire che entrambi i lati non fanno errori in buona fede. La Bbc ha fatto un errore in buona fede quando ha riferito sui motivi per andare in guerra, e l’ha pagato caro. E sono sicuro che anche il Guardian ha commesso molti errori. Direi che, per avere un quadro il più esauriente possibile di cosa stesse veramente accadendo in Iraq durante la guerra, l’unica cosa da farsi negli Stati Uniti fosse leggere la stampa britannica o francese, o magari italiana, io non conosco l’italiano ma leggo Liberátion e Le Monde oltre al Guardian, e seguo la Bbc, e dal loro punto di vista era una guerra diversa da quella vista e udita dagli americani. La loro era una resa molto più esatta della guerra. Questo problema è endemico negli Stati Uniti e credo sia da attribuirsi direttamente alla debolezza della sinistra, perché se la sinistra potesse rispondere all’aggressione della destra ai media, ci sarebbe un maggiore equilibrio di forze e i media lo rifletterebbero. Ma dal momento che la destra ha tutta quella forza politica e la sinistra è tanto debole, disperata, disorganizzata e disfunzionale, è stata davvero una lotta a senso unico, e il risultato è questo.

Caldwell: Ritengo che con qualche distinguo nel confronto fra i media statunitensi ed europei potrebbe venire fuori una visione molto più positiva del modo in cui si fa giornalismo negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono stati attaccati l’11 settembre 2001, quindi sono in uno stato d’animo psicologico molto diverso dall’Europa rispetto alla loro vulnerabilità. Ritengo che nei media europei ci sia una grande apertura verso i punti di vista ideologicamente accettabili a sinistra dello spettro politico, ma si trascurino molti dei punti di vista della destra. Chi assume una posizione genericamente negativa verso questa guerra americana troverà molta più materia di riflessione nei media europei. Ma chi assume una posizione genericamente positiva troverà molta più materia di riflessione nei media americani. Ritengo però che si tratti di una questione di ideologia e di opinione più che di reportage. Penso che nei media americani non siano stati nascosti i fatti riportati in Europa. La maggior parte delle rivelazioni su questa guerra è arrivata proprio da media americani,
Seymour Hersh è un americano. Il New Yorker è una rivista americana. Il memorandum su Abu Ghraib e le torture è stato pubblicato sul New York Times.

Alterman: Sono d’accordo. Consulto i media per le più svariate occasioni, e posso trovare praticamente tutto quello di cui ho bisogno. A parte la guerra, non c’è censura.
Il mio modo di definire la situazione è questo: i media americani servono molto bene i consumatori; ma non servono altrettanto bene i cittadini. Quello che intendo dire è che si può riportare praticamente tutto, e lo puoi riportare anche sulla prima pagina del New York Times. Sono stato a una conferenza alla News School di New York, che è una specie di istituzione liberale, dove ero seduto accanto a un accademico che accusava i media americani di censurare le informazioni che la Cia aveva date al Congresso e a George Bush, secondo cui non c’era nessuna prova di un eventuale coinvolgimento dell’Iraq o di sue attività terroristiche contro gli Stati Uniti, almeno negli ultimi dieci anni, mentre il risultato più probabile di un’invasione statunitense sarebbe stata la possibilità di un autentico terrorismo, e che quindi la guerra aveva maggiori probabilità di provocare terrorismo, se non altro a breve termine, che non di prevenirlo, dal momento che non c’era. Gli ho detto: «Sa dove è stata soppressa quell’informazione?». E lui ha detto: «No, che intende dire?». E io ho detto: «È stata soppressa sulla prima pagina del New York Times, è lì che l’ho letta». Per me questo sarebbe stato un argomento di rilievo contro la guerra – ce ne sono anche molti a favore – ma per me questo argomento avrebbe chiuso la questione: non bisognava fare la guerra. Questo è stato riferito sulla prima pagine del New York Times, ma la storia è scomparsa l’indomani. Così chiunque avesse voluto davvero sapere, non avrebbe avuto nessuna difficoltà, ma i dibattiti sui media, la televisione, le notizie via cavo, le conversazioni radiofoniche, i vari esperti con le loro rubriche, non hanno prestato la minima attenzione a queste notizie, e i loro dibattiti sono stati guidati quasi esclusivamente dalla disinformazione diffusa dall’amministrazione Bush. Si può discutere se si trattasse di disinformazione in buona o in cattiva fede, ma adesso è chiaro che proprio di disinformazione si trattava.
Per via del discorso politico dominato dai conservatori, il popolo americano ha ricevuto una cattiva informazione quando si trattava di decidere se fare o no la guerra. All’università del Maryland un gruppo di ricerca ha fatto uno studio, dopo la guerra, da cui è risultato che prima della guerra la maggioranza delle persone non solo credeva che in Iraq ci fossero armi di distruzione di massa, ma addirittura che fossero già stata trovate. Hanno individuato tre fenomeni chiaramente falsi in cui la gente credeva e hanno rintracciato le fonti da cui provenivano queste credenze. È risultato che la gente che guardava i telegiornali della Fox di Rupert Murdoch credeva nella maggior parte di queste sciocchezze, e che la gente che ascoltava Npr (National public radio) oppure leggeva il New York Times come fonte principale ne credeva meno. La gente che aveva prestato fede al maggior numero di falsità sosteneva la guerra, a differenza della gente che non ne aveva creduta nessuna. Si può quindi vedere con chiarezza quale sia stato l’effetto dei media, nel sostegno per questa guerra, una volta trasformatici nella parodia della linea politica dell’amministrazione, indipendentemente dal fatto che questa contenesse o meno elementi di verità.
Eppure non ci sono meccanismi correttivi da parte dei media. Resta una sola speranza: che i media imparino dai loro errori. Il New York Times si è scusato per il modo in cui ha coperto la questione della armi di distruzione di massa, ma staremo a vedere se ci saranno le prove di come è stato sviato. Direi che l’ininterrotto dominio conservatore del discorso politico ci assicura che perfino riportando informazioni importanti, cosa che secondo me avviene, non si riesce tuttavia a incidere sul sistema politico. Questo è il motivo per cui seguo con tanta attenzione i media, perché i media decidono fondamentalmente cosa succede. Le elezioni ci sono solo una volta ogni quattro anni, e quando si arriva a votare una quantità spaventosa di cose sono già state decise.

Caldwell: Ci stiamo spostando su un terreno che, a mio parere, è stato coperto in modo interessante da Cass Sunstein, il filosofo del diritto dell’università di Chicago, il quale anni fa ha scritto un libro, Republic.com, in cui ha descritto il modo in cui le persone restano sigillate in modo ermetico all’interno dei diversi universi mediatici; sempre più i cittadini di una repubblica dotata di Internet e di 500 canali televisivi vivono all’interno di un mondo che non fa altro che confermare i loro pregiudizi. Ci sono questi universi separati che però stanno lievemente cambiando, e credo si tratti di un quadro molto variegato che alla fine si equilibria. C’è una situazione in cui la sinistra e il centro a questa più prossimo controllano la rete delle notizie. Se confrontiamo Fox con Cnn, direi che la destra ha ottenuto il dominio nelle notizie via cavo. Direi che la destra ha un dominio incontestato nelle trasmissioni radiofoniche. Direi che la sinistra domina nei quotidiani. Direi che destra e sinistra si fronteggiano equamente sui settimanali e i mensili di opinione. Direi che la destra è in posizione dominante nella pubblicazione di libri ideologici. Questo è un campo che una casa editrice, Regnery Gateway, nell’ultimo decennio ha trasformato in un universo parallelo dell’industria editoriale. Ma ritengo che con la comparsa di Michael Moore, e altri, questo dominio sia terminato.
Vorrei tornare su quanto ha detto a proposito del mandare i reporter con i soldati. Ho già partecipato a dibattiti in cui la gente di sinistra – questo prima che cominciasse la guerra – aveva l’aria di credere che fosse una legge generale di natura che più la gente sapeva della guerra, meno gli piacesse. E se solo fosse stato possibile mostrare alla gente cosa succede davvero in una guerra – i corpi mutilati e la carneficina e i terribili compromessi morali – avrebbe preso posizione contro qualsiasi guerra. Se lo scopo dei media sia indirizzare la gente contro le guerre è un’altra questione ancora, ma credo che moltissima gente a sinistra, o a destra, che era contraria alla guerra prima che cominciasse, aveva riposto molte speranze sull’invio di reporter insieme ai soldati. Si pensava che in quel modo la gente sarebbe entrata nel teatro di guerra, avrebbe visto la carneficina e la loro testimonianza avrebbe reso il pubblico contrario alla guerra. Questo non è accaduto, e sono d’accordo che, nel complesso, mandare reporter e soldati insieme è stata per l’esercito una strategia vincente nel campo delle relazioni pubbliche, ma non ritengo che questo fosse inevitabile, e credo ci siano state eccezioni. C’è un libro di uno dei reporter di Rolling Stone inviati con le truppe, Evan Wright, dal titolo Generation Kill, sul sadismo di un gruppo particolare di soldati americani in mezzo a cui si è trovato. È un libro interessante perché solleva la questione se ci sia una connessione fra la situazione delle prigioni statunitensi e quello che è successo ad Abu Ghraib.

Alterman: Quanto al primo punto, ritengo sia necessario specificare per i nostri lettori europei cosa intendiamo parlando di destra, centro-destra e centro-sinistra. È infatti fonte di grande frustrazione per me il fatto che la destra abbia potuto definire la sua posizione come destra, il che è corretto, mentre non è giusto che, se uno non accetta i presupposti della loro posizione, diventa automaticamente di sinistra. Spesso, quando vado in giro a presentare i miei libri, la gente mi dice: «D’accordo, Roger Ailes, il presidente delle Fox News di Murdoch, non lo vorrà ammettere, ma io lo ammetto: Fox è una rete conservatrice, ma cosa avete da lamentarvi? Voi liberali avete la Cnn». Abbiamo cominciato questa conversazione parlando del New York Times, che, ripeto, è il ground zero dei media liberali, e suppongo che la Cnn andrebbe altrettanto bene come esempio. Ma queste sono proprio le istituzioni che hanno permesso all’amministrazione di sostenere la necessità di una guerra in base ad argomenti rivelatisi poi una bufala. Mentre, se i media fossero semplicemente onesti e non ideologici, avrebbe lavorato di più su quelle questioni, con la dovuta diligenza. Sarebbero stati più duri.
Non c’è bisogno di essere liberale per capire che il primo emendamento incarica i media, nel nostro sistema costituzionale, a fare da guardiani dei cittadini. I cittadini non hanno modo di accertare se i loro leader gli stanno dicendo la verità, se hanno prove sufficienti per avvalorare quanto sostengono, e questo è il motivo principale per cui esistono i media. Nel caso di queste istituzioni da lei definite come le istituzioni che sarebbero in una certa misura fedeli alla sinistra o al liberalismo, nessuna di loro ha svolto questa funzione in modo significativo. Potrà forse segnalare casi in cui questo è avvenuto, va da sé che può citare Seymour Hersh. Ci sono stati reporter al Washington Post che hanno fatto lo stesso, come Walter Pincus e Bart Gellman. Alcuni reporter lo hanno fatto al New York Times, ma nel complesso i media da lei definiti liberali sono stati oltremodo riluttanti ad affrontare l’amministrazione Bush. Quindi, se mi dice che questa è la nostra sinistra, io chiedo: cosa ce ne viene di buono? A mio parere abbiamo dei media conservatori e altri media che lo sono leggermente meno. Fra questi media non del tutto conservatori, c’è un po’ di spazio per alcune opinioni autenticamente progressiste, e adesso sia il Washington Post sia il New York Times hanno entrambi un commentatore che corrisponde alla definizione in modo non ambiguo, ma fondamentalmente sia i quotidiani che gli ombudsmen (5), il New York Times e il suo public editor, e lo ombudsman del Washington Post, hanno criticato i loro stessi giornali per avere troppo simpatizzato con l’amministrazione a proposito della guerra. Ora, se questi sono i media liberali, allora non abbiamo nessun media liberale, abbiamo solo dei media conservatori e dei media che sono un po’ meno conservatori.


Caldwell: Non vedo, da un punto di vista pratico, da dove sarebbe potuta arrivare una maggiore severità nei confronti dell’amministrazione Bush. Se accettiamo di mantenere questa distinzione fra commenti e reportage, direi che fra i commentatori politici a sinistra ce ne sono stati moltissimi contrari all’amministrazione Bush, di sicuro sulle riviste e su Internet. Quanto ai reportage – col tempo l’argomento delle armi di distruzione di massa si è rivelato inconsistente, ma non vedo come sarebbe stato possibile rivelare questo fatto durante la corsa alla guerra, dal momento che, a quanto pareva, non lo sapevano né le agenzie di investigazione del governo americano, né qualsiasi altra agenzia. Retrospettivamente, ha tutta l’aria di una guerra combattuta per scoprire che Saddam Hussein non aveva armi di distruzione di massa. Non riesco a vedere in che modo perfino il miglior reporter investigativo del paese avrebbe potuto scoprire dal governo qualcosa che nemmeno il governo sapeva. Mi pare un compito un po’ troppo difficile da assegnare ai media investigativi americani.

Alterman: Non sono d’accordo nel considerare il governo un’entità monolitica. Ho pubblicato, con Mark Green, un libro intitolato The Book on Bush. È uscito nel febbraio 2004, l’ho scritto quasi tutto nell’estate del 2003, e siccome non ero convinto che la nostra fosse un’amministrazione composta da uomini e donne onesti, ho esaminato tutti i media per trovare le prove che stavano sviando il paese a proposito di tutto, armi di distruzione di massa incluse. Ho trovate molte prove all’interno dello stesso governo, nell’ufficio di Intelligence del dipartimento di Stato (Inr), all’interno del Pentagono e della Cia, a proposito del fatto che tutte le prove addotte a sostegno dell’esistenza di armi di distruzione di massa era molto deboli se non addirittura nulle, e che c’erano enormi pressioni esercitate su queste istituzioni da parte dell’ufficio del vicepresidente e dal segretario alla Difesa per manipolare le informazioni di cui disponevano. Questo corrispondeva anche a quanto riferivano gli ispettori delle Nazioni Unite. Quindi sarebbe stato possibile sostenere con altrettanta forza che non c’erano armi, o che non c’erano prove di armi di questo genere. Anche se risulta che più o meno tutti nell’amministrazione e quasi tutte le persone agli alti livelli nei media hanno scelto di credere il contrario, io dico che se noi avessimo dei media liberali come il Guardian, se il Guardian fosse il New York Times, non avremmo avuto il 70 per cento della gente convinta della tesi falsa che l’Iraq fosse in qualche modo responsabile dell’11 settembre, né avremmo avuto quasi il 50 per cento di queste persone convinte che la maggior parte dei dirottatori fossero iracheni, cosa che non credevano il 12 settembre. Media più consapevoli del loro interesse a sfidare il governo avrebbero evitato una simile deriva di false interpretazioni dei fatti noti, ma dal momento che la parte «liberale» dei media non aveva questo interesse, accettava sostanzialmente le affermazioni del governo, nonostante il governo non meritasse simile fiducia; la gente è stata sviata, e adesso paghiamo per questo e continueremo a pagare fino al giorno in cui i media avranno ridefinito il loro ruolo.
È possibile che lei e io abbiamo un dissenso di fondo a proposito del ruolo dei media in una società democratica, ma per me la più grande condanna dei media americani viene proprio da una quantità così alta di informazioni errate ficcate in testa agli americani, quando di fatto non c’era nemmeno una prova, c’erano solo dichiarazioni false rilasciate dall’amministrazione, e che non sono state contestate.


Caldwell: Direi che se anche gli Stati Uniti avessero avuto l’equivalente del Guardian questo non avrebbe fatto la benché minima differenza. A mio parere le informazioni erronee di cui parla, tipo che i dirottatori venissero dall’Iraq e così via, provenivano da persone che ricevevano tutte le loro informazioni o dalla televisione, che non è un medium altrettanto buono dei quotidiani per le informazioni, o da persone che non ricorrono affatto ai media.
Non riesco a vedere come ci potrebbe essere un quotidiano come il Guardian negli Stati Uniti. Il Guardian fa parte di una costellazione di media britannici dichiaratamente partigiani e percepiti come tali. Un americano che desideri tenersi aggiornato legge il New York Times e il Washington Post. Qualcuno nella stessa posizione in Inghilterra leggerebbe in realtà quattro o cinque giornali; lì c’è un mercato più grande di lettori di giornali. Avremmo bisogno di quattro o cinque giornali nazionali di quel calibro, prima di poterne avere uno come il Guardian. Penso anche che, se ci fosse un equivalente americano del Guardian, il ruolo del Guardian come giornale della sinistra globale sarebbe in pericolo. Non credo che, se anche ci fosse un giornale del genere negli Stati Uniti, questo risolverebbe il problema dell’uso della televisione e di altri media. Gran parte delle condanne della Cnn come rete della sinistra sono nate dal fatto che, credo soprattutto per contenere i costi, ha usato materiale girato negli anni Ottanta da persone ostili al governo americano, comunisti inclusi, e credo anche da iracheni durante la prima guerra irachena. Questo fatto è stato usato per mettere in discussione la loro indipendenza, ma non so quale sia attualmente la loro politica.

Alterman: Penso che il New York Times e il Wall Street Journal abbiano un monopolio nel mondo degli affari nazionali e dei lettori d’élite. Poi ci sono altre pubblicazioni che entrano in gioco, mentre tutti gli altri si limitano alla stampa locale. Questi quotidiani possono essere conservatori e possono essere liberali nella loro politica editoriale, ma spesso la gente nemmeno se ne accorge. Anzi, pare che, nonostante il Wall Street Journal abbia probabilmente gli editoriali più conservatori di tutta l’America, i suoi lettori non se ne preoccupino molto. Lo leggono per le notizie finanziarie e i reportage. Ha un seguito ideologico, ma quello è un altro genere di pubblico che non i milioni di persone che lo comprano tutti i giorni.
Ritengo che il fatto significativo nel consumo di media negli Stati Uniti sia il declino inesorabile dei quotidiani. Il numero di giovani che hanno l’abitudine di leggere un qualsiasi quotidiano è esiguo. Altre forme di notizie, perfino forme non ortodosse di notizie, come i «comedy shows» delle ore notturne, sono ritenuti più importanti, come anche le «entertainment news» e così via. Il genere di notizie di cui stiamo parlando svolge sempre più una funzione di élite. Caldwell esprimeva prima la preoccupazione per il fatto che la gente vive sempre più in un bozzolo mediatico costituito da suoi simili, e che non abbiamo le grandi audience di telegiornali che avevamo negli anni Sessanta e Settanta. Non è più possibile quindi un personaggio come Walter Cronkite, che in una certa misura aveva l’aria di parlare per l’intero paese, perché tutto era molto più segmentato.
Se consideriamo i vari segmenti di pubblico, e se guardiamo alle posizioni politiche, la maggior parte di questi sono dominati dalla destra e dal centro-destra, ma questo preoccupa solo le persone che si interessano di politica. Molto più vasto è il gruppo di persone che non vota affatto. La metà circa della popolazione non vota, e queste sono proprio le persone che sarebbero una base naturale per i democratici. Costoro non sono affatto più liberali del resto del paese, sono solo più poveri, e le politiche economiche dei democratici sarebbero più in sintonia coi loro interessi se solo facessero anche loro parte del sistema. Nessuno sa come fare a portarli dentro il sistema; ogni anno abbiamo un candidato della sinistra, quest’anno è stato Howard Dean, che dice: «Vincerò a queste elezioni grazie al voto di tutte quelle persone che normalmente non votano, e sono abbastanza per farmi vincere», ma il problema è che nessuno sa realmente come arrivare a queste persone, e così questi candidati perdono regolarmente.
Siamo incagliati su un paese diviso fra chi partecipa e chi non partecipa. E al loro interno le categorie di persone che partecipano e quelle che non partecipano sono più o meno equamente divise. E allora la questione è, quando ci si presenta alle elezioni, se cercare di conquistare quel 10 per cento al centro, incerto fra uno schieramento e l’altro, o se cercare di coinvolgere le persone che comunque non votano. È quasi inevitabile che si punti al centro, perché le persone al centro votano comunque. Nasce qui il problema dello smussamento delle differenze fra alcuni candidati; a mio parere quello che è successo nel 2000 è stato che George Bush si è presentato come un conservatore molto moderato, come suo padre, ed è stato per questo che i risultati elettorali sono stati tanto simili. Poi, all’indomani delle elezioni, in particolare dopo l’11 settembre, è diventato un conservatore estremista. E questo è l’unico motivo dei democratici per essere ottimisti riguardo alle elezioni: è praticamente impossibile trovare qualcuno che ha votato Al Gore nel 2000, che adesso voterebbe per George Bush, perché George Bush ha dimostrato di essere molto più conservatore di quanto avesse sospettato chiunque nel 2000. Secondo me c’erano molte persone che pensavano che non fosse poi così importante per chi votavano, ma Bush gli piaceva personalmente; poi però si sono trovate lontane dalla sua politica.
Magari quello che dico riflette solo i miei auspici, ma questo è l’argomento migliore che posso avere per sostenere il diritto dei liberali di sentirsi ottimisti nel 2004.

Caldwell: Le mie conclusioni sono molto simili a quelle di Alterman, ma partono da premesse opposte. Mi è molto difficile vedere persone che non hanno votato prima per George Bush ma lo voterebbero adesso. Non perché Bush abbia estraniato gli elettori andando troppo a destra, ma perché si è estraniato parte della sua base. Condivido l’opinione di Stanley Greenberg, a proposito della divisione relativamente equa nell’elettorato. Penso che George Bush avrà bisogno di ogni singolo voto ottenuto la volta scorsa, perché c’è qualcosa nella dinamica politica emersa dal 2000 che è davvero a favore di un ritorno dei democratici. Il partito democratico ha più energie, e dopo le elezioni del 2000 si è anche radicalizzato. Potremo discutere poi se quella radicalizzazione sia giustificata o meno. Ma penso che anche prima dell’11 settembre ci fossero probabilità che l’affluenza democratica alle urne fosse molto più alta. Fermo restando il resto, credo che il vantaggio strutturale vada al candidato democratico. La debolezza maggiore di Bush potrebbe rivelarsi adesso che ha fatto troppe concessioni alla sinistra. Alcune persone nel partito repubblicano sono spaventate dalla sua politica fiscale: ha condotto la politica spendacciona «burro e fucili» di Lyndon Johnson e al contempo ha tagliato le tasse, in un momento in cui incombe un problema di deficit strutturale. Una fetta considerevole del partito repubblicano è composta tuttora di conservatori fiscali, e Bush rischia di venire abbandonato da loro.
Un’ultima cosa su chi non vota. Sento dire cose diverse su di loro. I democratici danno per scontato che se nel paese votassero tutti, se votare fosse obbligatorio come in Australia, e se si venisse multati per non votare, allora i democratici vincerebbero perché quelli che non votano sono poveri. Ma ho anche sentito dire che secondo i sondaggi questo non è necessariamente vero, per la stessa dinamica cui accennava prima Alterman: il fatto culturale della esclusione dei poveri dalla élite dei media viene da loro percepito come qualcosa che tocca i loro interessi di classe, inducendoli a votare conservatore. Forse questa dinamica potrebbe entrare in gioco.

Alterman: Non dissento da quest’ultima affermazione. Sono sempre molto critico nei confronti di quelle persone a sinistra che dicono che vinceranno includendo nel sistema quelli che dovrebbero stare dalla nostra parte. È quello che ha detto Ralph Nader, e io sono stato il suo critico più acceso fra chi, a sinistra, ha scritto delle ultime elezioni, anche se adesso sono in molti a competere per quest’onore. Ma stiamo andando fuori tema. Non credo che Bush avrà problemi con la destra. Non sono d’accordo che sia stato troppo gentile con la sinistra. Ritengo che l’irresponsabilità fiscale di Bush sia interamente connessa alla sua politica delle tasse e, in misura minore, alla sua politica militare. Non credo abbia fatto concessioni di sorta alla sinistra quanto al modo in cui la sinistra vorrebbe che venisse speso il denaro, è solo che non si può più contare sul senso di responsabilità fiscale dei repubblicani conservatori, cosa che era invece possibile prima di Reagan. Le persone di sinistra, e qui credo entri in gioco una percezione erronea della sinistra europea, sono convinte che, siccome i media statunitensi sono tanto connessi all’establishment, l’élite svolga un ruolo che impedisce alla massa dei non-votanti americani di vedere i loro interessi e votare per un governo progressista. Vorrei che fosse vero, ma ce ne sono ben poche prove. Può darsi che gli americani votino in modo razionale da un punto di vista culturale, ma non certo da un punto di vista economico. Questo deriva in parte dall’enfasi che viene posta sulle personalità nei nostri media, e in parte da ragioni molto difficili da smontare, anche se ognuno ha la sua teoria preferita in proposito.
Il ruolo preciso dei media in questo fenomeno è oggetto di dibattito incessante; credo che Caldwell ed io potremmo concordare su questo, che il modo in cui uno definisce tutto ciò è molto più un riflesso delle proprie opinioni politiche che non di una realtà oggettiva, perché la vecchia questione del perché gli Stati Uniti siano tanto più conservatori dell’Europa, del perché non ci sia socialismo negli Stati Uniti, non ha una risposta chiara, anche se non preoccupa gli americani nella stessa misura in cui preoccupa gli europei. Spero quindi che i media possano diventare uno strumento di cambiamento al riguardo. I media devono riflettere queste forze all’interno degli Stati Uniti. In questo momento riflettono le forze della destra e la debolezza e le disfunzioni della sinistra.

Caldwell: Sono d’accordo a grandi linee. Non considero i media altrettanto inclinati a destra di Alterman, ma riconosco che gli Stati Uniti hanno un modo diverso di votare nelle questioni economiche. Non so se sia necessariamente irrazionale, potrebbe essere una reazione razionale alla grande difficoltà di smuovere il governo sulle questioni economiche, oltre che esprimere la fede nella capacità delle persone di mutare la propria situazione economica. Se qui c’è un lascito storico, penso sia la distinzione fra Stati Uniti ed Europa rilevata da Lewis Hearts, ovvero che negli Stati Uniti manca il lascito costituito da feudalesimo e clericalismo e dalla reazione della sinistra a questi fenomeni. Gli Stati Uniti sono un paese fondamentalmente Whig, borghese, ed è per questo motivo che non solo non abbiamo un socialismo, ma non abbiamo nemmeno una destra nel senso in cui la intendono gli europei, con monarchici, centralizzatori di destra e simili.



(traduzione di Pia Pera)

 


(1) L’11 maggio del 2003 un gruppo di giornalisti e avvocati del New York Times pubblica un articolo in cui si forniscono i primi risultati di un’indagine interna sul reporter Jayson Blair: su 73 articoli scritti dall’ottobre del 2002 all’aprile del 2003, 36 risultavano completamente inventati o copiati da altri giornali. Blair era un ventisettenne nero, di provenienza medio-alto borghese, cresciuto nei suburbs di Washington, D.C., e assunto come reporter dal New York Times dopo la sua laurea all’università del Maryland. Nei suoi articoli ha inventato interviste, viaggi, reportage, storie dai luoghi più diversi, rimanendo per lo più nel suo appartamento di Brooklin. Dall’inizio della guerra aveva inventato storie e interviste anche con i genitori di soldati americani «dispersi» (Missing In Action). Con il caso di Jayson Blair, lo stesso New York Times ha dichiarato di aver toccato il punto più basso in 152 anni di vita (n.d.r.).

(2) Il 26 maggio 2004 il New York Times ha pubblicato una nota redazionale in cui si scusava con i propri lettori dell’inaccuratezza di molte notizie fornite sulle motivazioni per andare in guerra contro l’Iraq. Tra le altre cose, la nota diceva: «In una serie di casi i nostri servizi non sono stati tanto rigorosi quanto avrebbero dovuto essere. In alcuni casi, informazioni che erano controverse allora [tra l’ottobre del 2001 e l’aprile del 2003], e appaiono dubbie adesso, furono fornite senza specificazioni e fatte passare come certe». La responsabilità delle notizie inesatte o false viene attribuita, naturalmente, ai giornalisti ed editor dello stesso quotidiano per non aver controllato a sufficienza la loro attendibilità e non aver agito con il necessario «scetticismo»; ma ciò che avrebbe sviato i reporter e gli editor sarebbero stati gli esiliati iracheni – a partire da Ahmad Chalabi, a lungo protetto e sponsorizzato dall’amministrazione Bush, e pagato come «broker» per ottenere informazioni da altri esiliati – e la stessa amministrazione (n.d.r.).

(3) Giornalista del New York Times che con il collega Michael Gordon ha firmato nel 2003 una serie di articoli schiacciati sulle posizioni della Casa Bianca a favore dell’intervento in Iraq. Tra le altre cose, si sosteneva che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa (un dato poi notoriamente rivelatosi falso). Alcuni mesi dopo, il New York Times, in una nota editoriale, si scusava con i suoi lettori per l’inaccuratezza delle notizie fornite (n.d.r.).

(4) Noto giornalista. Ha indagato e scritto per primo sulle torture di Abu Ghraib, con una serie di articoli sul settimanale The New Yorker uscita tra la primavera e l’estate di quest’anno (tradotti e pubblicati in Italia su Internazionale) (n.d.r.).

(5) L’ombudsman è un garante «terzo» (n.d.r.).

 

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