Una tragedia degli errori (Neocon e vecchie menzogne)

Una tragedia degli   errori (Neocon e vecchie menzogne)

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Michael Lind

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America versus America/1
Una tragedia degli errori (Neocon e vecchie menzogne)

di Michael Lind

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Un’ideologia politica può fallire nel mondo reale solo un certo numero di volte prima di essere del tutto screditata. E da almeno vent’anni i neocon hanno torto su ogni questione di politica estera (Iraq incluso), come qui dimostra, analizzandone errori e menzogne, l’ex executive editor di uno dei maggiori periodici neocon.

Una decina d’anni fa inventai un gioco insieme a un mio collega che, come me, un tempo aveva lavorato per Irving Kristol. Lo chiamammo bingo neoconservatore. L’idea era di disporre in diverse combinazioni i cliché dei discorsi neoconservatori sulle cartelle del bingo: «L’unica superpotenza mondiale»; «La nuova classe»; «La minaccia cinese»; «L’Europa decadente»; «Contro l’Onu»; «La adversary culture (1)»; «La rivoluzione democratica globale»; «Abbasso gli appeasement!»; «Risoluti come Churchill». Nello spazio libero al centro della cartella avremmo messo la scritta «Il popolo palestinese non esiste» (che oggi sarebbe «No allo Stato palestinese» oppure «Tutti i palestinesi sono terroristi»). Il giocatore, mentre leggeva un saggio o un libro scritto da un neoconservatore, avrebbe spuntato gli slogan sulla cartella del bingo man mano che li ritrovava.
Non abbiamo mai stampato le cartelle del nostro bingo neoconservatore. Ma il manifesto neoconservatore di David Frum e Richard Perle, An End to Evil (2) che non è tanto una discussione coerente quanto una collezione di argomenti a favore, può servire allo stesso scopo. Le Nazioni Unite «hanno screditato e tradito» il sogno della pace mondiale. La minaccia cinese: «Quando finalmente la Corea si riunificherà, le democrazie mondiali acquisiranno più forza nei confronti di una Cina aggressiva e antidemocratica, nel caso in cui la Cina dovesse evolversi in tal senso». Nel libro ci sono anche i fautori dell’appeasement alla Neville Chamberlain e il tema dell’Europa decadente: «Agli americani, [i dubbi dell’Europa sull’invasione dell’Iraq] sono sembrati una forma di appeasement. Ma sarebbe un grave errore attribuire l’appeasement europeo alla codardia, o perlomeno soltanto a quello». Ci sono gli inevitabili riferimenti a Churchill – un capitolo si intitola «End of the Beginning» [«La fine dell’inizio»] – e poi c’è questo: «Non smetteremo mai di sperare nel sostegno del mondo civile. Ma se non lo avremo, cosa che potrebbe accadere, allora dovremo dire, come il valoroso e solitario soldato inglese di una famosa vignetta di David Low del 1940: “Benissimo, farò da solo”».
Paradossalmente, Perle e Frum pubblicarono quel manifesto dell’ambiziosa strategia neoconservatrice proprio nel momento in cui molti dei loro colleghi scrivevano che il neoconservatorismo non esiste, e che i neocon non hanno alcuna influenza sulla politica estera americana. Fino all’estate del 2003, i neoconservatori sostennero orgogliosamente la loro causa contro gli avversari di sinistra e le correnti di destra (realisti, paleoconservatori e libertarians) che nutrivano dubbi sulla decisione di invadere l’Iraq. Quell’estate, tuttavia, l’invasione dell’Iraq – progettata dieci anni prima e portata avanti per lo più da eminenti esperti di politica estera neoconservatori, come Paul Wolfowitz e Douglas Feith del Pentagono di Bush – andò malissimo. Mentre scrivo, la seconda, inutile guerra in Iraq ha già mietuto più vittime fra i soldati statunitensi di qualunque altra impresa militare americana dai tempi del Vietnam, per non parlare delle migliaia di iracheni rimasti uccisi o mutilati (il Pentagono di Bush non si prende la briga di contare le vittime irachene). Mentre l’entità della sconfitta diventava sempre più evidente, i neoconservatori cominciarono improvvisamente a riconoscere la propria inesistenza. Da quando Stalin ordinò al Partito comunista americano di entrare in clandestinità, non era più successo che una corrente politica americana fingesse di scomparire pubblicamente in questo modo.
David Brooks ha recentemente affermato sul New York Times che solo i «mentecatti» possono credere che organizzazioni neoconservatrici come il Project for the New American Century (Pnac) influenzino in qualche modo la politica dell’amministrazione Bush, perché il Pnac «ha uno staff di cinque persone e pubblica relazioni sulla politica estera». Ma il Pnac non divulga le idee del proprio staff, di segretarie e stagisti, ma quelle di potenti membri dell’amministrazione come Paul Wolfowitz, Dick Cheney e Donald Rumsfeld, proprio come il Committee on the Present Danger diffondeva le idee di Paul Nitze e Gene Rostow, che in qualità di funzionari governativi dovevano usare una certa cautela nell’esprimere le loro opinioni in pubblico.
«A dire il vero», proseguiva Brooks, «i cosiddetti neocon [...] frequentano cerchie molto diverse e non hanno molti contatti gli uni con gli altri». A dire il vero – parafrasando Brooks – tra i firmatari delle lettere del Pnac vi sono Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Perle e Robert Kagan. Il presidente del Pnac è William Kristol, che è anche direttore del Weekly Standard – giornale su cui scrive Brooks – e figlio di Irving Kristol, che a sua volta è il fondatore di The Public Interest, l’ex editore di The National Interest, l’autore di un libro intitolato Neoconservatism: The Autobiography of an Idea, e il marito della storica neoconservatrice Gertrude Himmelfarb, madre di William. Norman Podhoretz, l’ex direttore di Commentary, è il padre di John Podhoretz, redattore e columnist neoconservatore che ha lavorato per il Washington Times del reverendo Moon e per il New York Post di Rupert Murdoch, il quale possiede anche il Weekly Standard e Fox Television. Norman è il suocero di Elliott Abrams, ex protagonista dello scandalo Iran-Contra, ex capo del neoconservatore Ethics and Public Policy Center e direttore degli Affari del Vicino Oriente al Consiglio di sicurezza nazionale. La suocera di Elliott e moglie di Norman, Midge Decter, che come molti anziani neocon è una veterana del vecchio Committee on the Present Danger, ha recentemente ricevuto una medaglia National Humanities dopo aver pubblicato un’ossequiosa biografia di Rumsfeld, i cui numero due e numero tre al Pentagono, rispettivamente Wolfowitz e Feith, sono anch’essi veterani del Committee on the Present Danger nonché del Team B, il gruppo consultivo di intelligence che sopravvalutò grossolanamente la potenza militare sovietica negli anni Settanta e Ottanta. Perle, membro (ed ex presidente) del Defense Policy Board del Pentagono, fa parte dell’American Enterprise Institute e del consiglio d’amministrazione della Hollinger International, un gruppo editoriale di destra (che comprende giornali come il Jerusalem Post e il Daily Telegraph) controllato da Conrad Black, il presidente del comitato editoriale di The National Interest, che Black in parte sovvenziona tramite il Nixon Center. Nel 1996, Perle e Feith – entrambi alleati del Pnac – collaborarono alla stesura di una relazione intitolata A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm [Un taglio netto: una nuova strategia per rafforzare il dominio], per conto del primo ministro della destra israeliana Benjamin Netanyahu. Perle, Feith e gli altri autori americani e israeliani della relazione invitavano Israele ad abbandonare gli Accordi di Oslo e a ristabilire la legge marziale nei territori palestinesi molto prima dell’inizio della seconda intifada. La scrittura a quattro mani è una pratica comune fra i neocon: Brooks e Kristol, Kristol e Kagan, Frum e Perle.
Questi sono i personaggi che, secondo David Brooks, «non hanno molti contatti gli uni con gli altri».
Secondo Brooks, «A sentire la descrizione di questa gente [i presunti teorici della cospirazione], il Pnac è una specie di Commissione trilaterale yiddish, il punto di collegamento dei lunghi tentacoli dei neocon». Brooks scrive che «con sta per “conservatore” e neo sta per “ebreo”». Con questa osservazione maligna, Brooks si unisce a Jonah Goldberg, Joshua Muravchik, Joel Mowbray, Robert J. Lieber e altri scrittori neoconservatori nell’accusare tutti quelli che criticano il governo Likud israeliano e i suoi sostenitori neocon di usare la parola «neoconservatore» come sinonimo di «ebreo». Tra coloro che nell’ultimo anno si sono sentiti rivolgere questo genere di calunnia da parte dei neocon vi sono Chris Matthews, William Pfaff, Eric Alterman, Joshua Micah Marshall, il generale Anthony Zinni e il sottoscritto. Quando io, che discendo in parte da immigrati ebrei, denunciai le teorie cospiratorie antisemitiche di Pat Robertson nel 1995, Norman Podhoretz condannò me, e non Robertson, sostenendo che, pur essendo obiettivamente antisemita, Robertson poteva essere perdonato per il suo sostegno cristiano-sionista allo Stato di Israele, secondo un’analogia con la norma rabbinica del batel beshishim, che regola il grado di impurità accettabile nel pane kosher. Il libello più odioso di questa campagna odiosa venne scritto da Mowbray: «La settimana scorsa, parlando della guerra in Iraq sul Washington Post, l’ex generale Anthony Zinni ha scelto la strada intrapresa da tanti antisemiti: ha incolpato gli ebrei. [...] Tecnicamente, l’ex capo del comando centrale delle forze Usa in Medio Oriente non ha detto “ebrei”. Ha usato invece un termine attualmente molto in voga tra gli antisemiti: “neoconservatori”». In An End to Evil, Perle e Frum – spontaneamente, si può solo presumere, visto che i neocon «non hanno molti contatti gli uni con gli altri» – recitano la nuova linea del partito: «Soprattutto, il mito neoconservatore fornisce agli europei e ai liberal un utile eufemismo per esprimere la loro ostilità nei confronti di Israele».
È vero, purtroppo, che alcuni giornalisti tendono a usare il termine «neoconservatore» per riferirsi soltanto ai neoconservatori ebrei, pratica che li costringe a inventare categorie come «conservatore nazionalista» o «conservatore occidentale» per Rumsfeld e Cheney. Ma il neoconservatorismo è un’ideologia, come il paleoconservatorismo e il libertarismo, e Rumsfeld, Dick e Lynne Cheney sono neocon a pieno titolo, distinti dai paleocon e dai libertarians, anche se non sono ebrei e non sono mai stati liberal o di sinistra. Inoltre, cosa ancora più importante, i neocon ebrei non parlano per la maggioranza degli ebrei americani. Secondo l’Annual Survey of American Jewish Opinion, pubblicato nel 2003 dall’American Jewish Committee, il 54 per cento degli ebrei americani interpellati era contrario alla guerra in Iraq, mentre solo il 43 per cento si dichiarava favorevole, e gli ebrei americani disapprovavano i metodi adottati da Bush nella campagna contro il terrorismo con un margine di 54-41.
Il neoconservatorismo – termine coniato da Michael Harrington – nacque negli anni Settanta come movimento di liberal e socialdemocratici antisovietici nella tradizione di Truman, Kennedy, Johnson, Humphrey e Henry («Scoop») Jackson, molti dei quali preferivano chiamarsi «paleoliberal». Il movimento, pur comprendendo anche un’ala pro Israele, aveva come obiettivi principali il confronto con il blocco sovietico all’estero e la difesa del liberalismo del New Deal e dell’integrazionismo liberal contro i rivali di sinistra in patria. Con la fine della guerra fredda e la supremazia del Democratic Leadership Council, molti «paleoliberal» si spostarono verso il centro democratico. Daniel Patrick Moynihan, di cui un tempo si parlava come di un possibile candidato presidenziale neoconservatore, si staccò dal movimento negli anni Ottanta a causa del crescente disprezzo nei confronti del diritto internazionale e della sopravvalutazione della minaccia sovietica. I neocon di oggi sono quel che resta dell’originale e più ampia coalizione neoconservatrice.
Nondimeno, le origini di sinistra della loro ideologia sono ancora evidenti. Il fatto che quasi tutti i neocon più giovani non siano mai stati di sinistra è irrilevante: sono comunque gli eredi intellettuali (e, nel caso di William Kristol e John Podhoretz, gli eredi in senso letterale) di uomini che un tempo lo sono stati. L’idea che gli Stati Uniti e altre società simili siano dominate da una «nuova classe» decadente e post-borghese è stata sviluppata da pensatori di tradizione trotzkista come James Burnham e Max Schachtman, che influenzarono la precedente generazione di neoconservatori. Il concetto di «rivoluzione democratica globale» ha origine in quello di rivoluzione permanente sostenuto dalla Quarta internazionale trotzkista. La forma di determinismo economico secondo cui la democrazia liberale è un epifenomeno del capitalismo, promossa da neoconservatori come Michael Novak, non è altro che una variante del marxismo nella quale gli imprenditori vengono sostituiti ai proletari come soggetti eroici della storia.
Il movimento neoconservatore riprende non solo l’ideologia, ma anche la struttura organizzativa della sinistra liberal. Il Pnac è modellato sul Committee on the Present Danger, che a sua volta era modellato sul Congress for Cultural Freedom, un network del centro-sinistra anticomunista, sovvenzionato dalla Cia, che tra gli anni Quaranta e Sessanta cercava di opporsi ai gruppi del fronte culturale internazionale stalinista. Molti dei primi neocon sono veterani del Ccf, compreso Irving Kristol, che insieme a Stephen Spender dirigeva Encounter, la rivista del movimento finanziata dalla Cia. I modelli socialdemocratici europei ispirarono il National Endowment for Democracy, organizzazione che rappresenta la quintessenza del neoconservatorismo.
Insieme ad altre tradizioni emerse dalla sinistra antistalinista, il neoconservatorismo ha attratto molti intellettuali e attivisti ebrei, ma non per questo lo si può definire un movimento ebraico. Come altre scuole della sinistra, il neoconservatorismo ha reclutato i propri seguaci in diversi «vivai», compresi i cattolici liberal (William Bennett e Michael Novak cominciarono nella sinistra cattolica), i populisti, i socialisti e i liberal del New Deal del Sud e del Sud-Ovest (il gruppo da cui siamo usciti io, Jeane Kirkpatrick e James Woolsey). All’interno del movimento neoconservatore c’erano, allora come oggi, pochissimi mandarini wasp del Nord-Est, per la stessa ragione per cui ce n’erano pochi anche nella vecchia sinistra americana, che tendeva a rispecchiare la coalizione di outsider etnici e regionali tipica del New Deal.
Con l’eccezione della strategia mediorientale – argomento su cui tornerò in seguito – non c’è nulla di particolarmente «ebraico» nelle opinioni dei neocon sulla politica estera. Anche se l’esempio di Israele ha indotto i neoconservatori americani ad accogliere tattiche come la guerra preventiva e gli «omicidi mirati», la strategia globale dei neocon odierni si basa innanzitutto sul retaggio dell’anti-comunismo della guerra fredda. L’ostilità neoconservatrice nei confronti dell’Onu, troppo spesso spiegata esclusivamente con la condanna di Israele da parte delle Nazioni Unite, è un residuo degli anni Settanta e Ottanta, quando l’Assemblea generale era dominata da un’alleanza antiamericana formata dai paesi del blocco sovietico e dalle autocrazie del Terzo Mondo. L’idea che gli Stati Uniti stiano «combattendo la quarta guerra mondiale» – sostenuta da Elliot Cohen, James Woolsey e Norman Podhoretz – è un riflesso da veterani della guerra fredda in pensione, così come lo sono i paralleli fra islam militante e totalitarismo secolare e il tentativo di vedere la Cina o la Russia post-comunista come minacce paragonabili all’Unione Sovietica o alla Germania nazista.
Il pensiero neoconservatore è stato influenzato non solo dalla storia della guerra fredda americana, ma anche dall’esperienza britannica del XX secolo. Ciò non è strano come potrebbe sembrare. La Gran Bretagna è stata la maggiore potenza mondiale fino a poche generazioni fa; molti neocon sono emigrati in età adulta dal Commonwealth britannico, come Charles Krauthammer e David Frum, ex sudditi canadesi di Sua Maestà; e molti pensatori neoconservatori imitano Lionel Trilling (che Irving Kristol ha citato, insieme a Leo Strauss, come una delle principali fonti del suo pensiero) nel rifarsi alla cultura britannica per spiegare la società americana. Secondo i neocon, la Gran Bretagna, prima società industriale moderna, raggiunse il successo grazie a una combinazione di spietatezza imperiale, capitalismo borghese (e non manageriale) e virtù vittoriana. La forza britannica, tuttavia, venne tragicamente indebolita dall’interno dagli elitisti post-borghesi di Bloomsbury, che sfidarono i valori vittoriani proprio mentre l’etica del lavoro veniva erosa dal welfare State, e di conseguenza la Gran Bretagna si ritrovò moralmente e materialmente impreparata a combattere il totalitarismo fascista. L’uomo più importante del XX secolo, a giudicare dalla frequenza con cui viene citato dai neocon, non fu Franklin Roosevelt, bensì Winston Churchill, il fautore dei valori vittoriani.
Secondo l’ideologia neoconservatrice, gli Stati Uniti stanno ripetendo l’esperienza vissuta dalla Gran Bretagna tre quarti di secolo fa. Osama bin Laden (oppure Saddam, la leadership cinese, Yasser Arafat) è il nuovo Hitler. Bush è il nuovo Churchill, come Reagan prima di lui. I repubblicani moderati e i realisti conservatori, così come i democratici liberal, sono i nuovi Neville Chamberlain. I fondamentalisti protestanti appartenenti alla classe operaia del Sud rurale e suburbano sono equiparati ai protestanti dissenzienti borghesi dell’Inghilterra vittoriana. L’università americana è la nuova Bloomsbury, piena di liberal decadenti e di pensatori di sinistra che abbattono il morale dei giovani americani, che secondo molti neoconservatori dovrebbero essere arruolati e mandati a combattere una serie di guerre all’estero per promuovere la democrazia. Quattro anni fa, Donald Kagan e Frederick Kagan (rispettivamente padre e fratello di Robert Kagan) pubblicarono un libro intitolato While America Sleeps, in cui confrontavano gli Stati Uniti con la Gran Betagna della fine degli anni Trenta. I neocon credono che l’America sia l’Inghilterra di Churchill e Chamberlain, e che stiamo ancora vivendo nel 1939.
Qualcosa di simile a ciò che Vivian De Sola Pinto scrisse su Kipling in Crisis in English Poetry (1968) si potrebbe dire oggi di un ammiratore di Kipling come Max Boot e della maggior parte dei neoconservatori imperialisti odierni: «Non c’era alcun problema irlandese o sudafricano, ma solo ribelli e traditori; non c’era alcun problema estetico, ma solo fannulloni e mascalzoni come il figlio di Sir Anthony Gloster, che studiò allo “Harrer an’ Trinity College” e “si rimbecillì con libri e quadri”, e Tomlinson, che aveva commesso peccati esclusivamente letterari; non c’era alcun problema di guerra e pace, solo sciocchi liberali e pacifisti sentimentali o disonesti. Il mondo aveva bisogno soltanto di maggior disciplina, obbedienza e lealtà, e soprattutto del paternalistico impero britannico, con i suoi amministratori disinteressati ed efficienti e il suo eccellente esercito forgiato da perfetti sottufficiali».
Nonostante le sue eccentricità, come la nostalgia poco americana per l’imperialismo britannico, il neoconservatorismo, come paleoconservatori e libertarians non si stancano mai di ripetere, è un movimento che condivide alcuni valori della sinistra centrista. Quando Richard Perle esige maggiori diritti per le donne dei paesi musulmani, quando David Brooks si pronuncia a favore dei matrimoni gay, e quando il Weekly Standard denuncia il razzismo dei neoconfederati, non c’è motivo di mettere in dubbio la loro sincerità. E non si può nemmeno dire che Irving Kristol sia in malafede quando dice che il welfare State non tramonterà mai. L’elitarismo straussiano non è incompatibile con le credenziali di sinistra dei neocon. Molti movimenti liberal e democratici hanno nutrito dubbi sulla capacità della maggioranza di autogovernarsi, e hanno riposto le loro speranze in qualche sorta di élite illuminata – l’aristocrazia naturale di Jefferson, i tecnocrati dei progressisti americani, l’intellighenzia d’avanguardia dei marxisti-leninisti. Anche l’imperialismo era compatibile con un certo messianismo liberal. Fino al sorgere dei movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, alcuni dei più fedeli sostenitori dell’impero erano liberal, come i fabiani inglesi e i progressisti americani. Perfino Marx era disposto ad ammettere che paesi sottosviluppati come l’India potessero trarre beneficio dalla tutela imperiale.
L’influenza del marxismo è particolarmente evidente nel concetto neoconservatore di patriottismo. Sul Weekly Standard del 25 agosto 2003, Kristol pubblicò un saggio intitolato The Neoconservative Persuasion (evidentemente Kristol, «il padrino del neoconservatorismo», non era stato informato della nuova linea del partito che nega l’esistenza del neoconservatorismo). Fra quelle che Kristol chiama «le seguenti “tesi” (come direbbe un marxista)» c’è l’affermazione che «le grandi nazioni che hanno un’identità di tipo ideologico, come l’Unione Sovietica di ieri e gli Stati Uniti di oggi, hanno inevitabilmente interessi ideologici in aggiunta a preoccupazioni più materiali. Escludendo eventi straordinari, gli Stati Uniti si sentiranno sempre obbligati a difendere, se possibile, una nazione democratica attaccata da forze non democratiche, esterne o interne». Perciò gli Stati Uniti dovrebbero «difendere Israele oggi. [...] Non sono necessari complicati calcoli geopolitici di interesse nazionale» (un’affermazione piuttosto strana da parte dell’ex editore di una rivista intitolata The National Interest, della quale io stesso sono stato caporedattore dal 1991 al 1994). Mettiamo da parte per ora la questione di Israele, e chiediamoci quanti americani pensino al loro paese come a una versione dell’Urss con un’ideologia ufficiale basata sulla democrazia liberale invece che sul marxismo-leninismo: probabilmente pochissimi, e altrettanto si può dire di coloro che pensano alla politica estera americana in termini di «“tesi” (come direbbe un marxista)».
Pochi anni prima, sul Wall Street Journal, il figlio di Irving, William Kristol, fu coautore insieme a David Brooks di un analogo appello per un «conservatorismo della grandezza nazionale», in cui il patriottismo americano veniva svuotato di ogni contenuto a eccezione delle crociate militari a sostegno della democrazia all’estero. William Kristol e Max Boot adottano la «parola proibita» – impero – mentre Frum e Perle la rinnegano. Ma se la nazione assume valore solo come ospite o portatrice di un’ideologia potenzialmente universale, che deve essere diffusa all’estero con la forza delle armi e il rovesciamento dei governi, allora la distinzione fra «grandezza nazionale» e «imperialismo» scompare – nel caso del neoconservatorismo americano così come nei casi paragonabili del comunismo sovietico e del liberalismo napoleonico. Questo tipo di messianismo secolare battagliero non ha assolutamente nulla a che vedere con il patriottismo e il nazionalismo convenzionali, neppure nelle loro forme liberal. Molti americani hanno considerato la nostra nazione come un modello per le altre democrazie liberali, ma quasi nessuno la considera una mera piattaforma per una «rivoluzione democratica globale» che deve essere promossa invadendo altre nazioni e armando insurrezioni in paesi stranieri dove «non sono necessari calcoli di interesse nazionale».
La remota influenza della Quarta internazionale trotzkista è evidente, anche se i neocon saccheggiano la storia americana per fornire al loro movimento un passato utilizzabile. Max Boot si definisce un «wilsoniano di ferro», ma nella sua celebrazione dell’imperialismo alla Kipling è difficile vedere qualcosa di Wilson, che considerava il diritto internazionale e le organizzazioni internazionali come l’alternativa a una temuta militarizzazione della società americana, e che sosteneva incondizionatamente lo stesso tipo di autodeterminazione nazionale che viene oggi rivendicato dai palestinesi. William Kristol e David Brooks evocano il nome di Theodore Roosevelt. Ma a differenza del progressismo imperialista di T.R., che sosteneva la conservazione e le riforme a favore dei lavoratori, il lato domestico del «conservatorismo della grandezza nazionale» di Brooks e Kristol è inconsistente, riducendosi per lo più alla proposta che gli Stati Uniti costruiscano più monumenti ai caduti di guerra, forse in previsione dei soldati che verranno uccisi nelle future guerre per promuovere la democrazia.
Come Paul Berman, il maître-penseur dei falchi liberal, molti neocon cercano di reclutare Lincoln nella loro causa. Ma Lincoln si oppose alla guerra contro il Messico e rifiutò l’idea che gli Stati Uniti avessero il diritto di diffondere la democrazia con la forza. Nel 1859 Lincoln ridicolizzò l’idea della «Young America», che era «una grande amica dell’umanità; e la sua brama di terra non è egoistica, ma è semplicemente l’impulso a espandere la superficie della libertà. È assai impaziente di combattere per la liberazione di nazioni e colonie asservite, a patto che siano provviste di terra e che non gradiscano affatto la sua intromissione».
La nuova definizione del patriottismo americano come fanatismo per un’ideologia messianica e battagliera è compatibile con una mancanza di rispetto per le effettive istituzioni americane, che, se provenisse da politici di sinistra o liberal, verrebbe denunciata come antiamericana dagli arbitri neoconservatori del patriottismo americano, come Frum, un canadese che si è preoccupato di diventare cittadino americano solo dopo aver lavorato nella Casa Bianca di Bush. La maggior parte dei professionisti di carriera nelle agenzie di sicurezza nazionale – l’esercito, la comunità dell’intelligence e il servizio diplomatico – si oppongono all’ambiziosa strategia di Bush e dei suoi collaboratori neocon. È logico, dunque, che Perle e Frum vogliano sostituire i funzionari ereditati dalle precedenti amministrazioni con altri fedeli al presidente. Ecco cosa scrivono sulla comunità dell’intelligence: «Forse è giunto il momento di riunire tutti questi combattenti segreti in un’unica struttura paramilitare che in ultima analisi risponda al segretario alla Difesa» – e naturalmente al vicesegretario alla Difesa Wolfowitz e al sottosegretario alla Difesa Feith. Se le agenzie di intelligence fossero già subordinate ai civili del Pentagono, Wolfowitz e Feith non avrebbero dovuto aggirare la Cia e il Dipartimento di Stato creando una nuova agenzia, l’Office of Special Plans, che ha distorto i dati affinché suffragassero la linea politica dei neocon. Mentre i nuovi funzionari neoconservatori del Pentagono riportano all’ordine la comunità dell’intelligence, altri colonizzeranno il servizio diplomatico. Perle e Frum, due ex funzionari di nomina politica, scrivono: «La prossima mossa sarà quella di aumentare drasticamente il numero di nomine politiche nel Dipartimento di Stato e ampliare il loro ruolo».
Il livellamento ideologico si estenderà all’esercito Usa. I neocon, che per la maggior parte non sono mai stati sotto le armi, nascondono a stento il loro disprezzo per i soldati americani; Frum e Perle scrivono della «mano morta della tradizione militare». (Il tenente generale William Boykin, che come molti dei sostenitori americani di Ariel Sharon è un fondamentalista cristiano, viene considerato accettabile, ed è stato introdotto nell’ufficio del segretario alla Difesa per lavorare accanto ai civili Rumsfeld, Wolfowitz e Feith). I militari di carriera, che spesso rappresentano un ostacolo per i piani ambiziosi dei neoconservatori, devono essere trasformati, secondo Perle e Frum, in uno strumento per le guerre preventive: «Avremo bisogno di stanare un campo di terroristi in qualche remoto villaggio dell’Indonesia? O di fare un’incursione in Siria per recuperare o eliminare armi di distruzione di massa custodite per conto di Saddam Hussein? O di assestare un colpo decisivo a un impianto nordcoreano in procinto di produrre armi nucleari per un gruppo terrorista?». Azioni giustificate, abbiamo motivo di temere, sulla base di dati falsificati dai nuovi funzionari neoconservatori della comunità d’intelligence americana.
Le nuove forze armate americane avranno molto da fare, se tutto andrà secondo i piani di Perle e Frum. Nel corso di An End to Evil, i due autori chiedono che vengano deposti i governi di Iran e Siria, che l’Arabia Saudita venga trattata come una nazione nemica, che la Corea del Nord venga stretta d’assedio – oh, e non dimentichiamo, la Francia è un avversario, insieme «al suo pesce pilota, il Belgio». Abbasso il Belgio, pesce pilota della Francia! è la nuova appendice alla litania del neoconservatorismo.
Se dobbiamo credere a Frum e Perle, gli Usa dovranno compiere parecchie invasioni e appoggiare parecchie rivoluzioni per portare la democrazia ai paesi che ne sono privi: «Nel luglio 2003, Kofi Annan affermò che la democrazia non può essere imposta con la forza. Ma davvero?». Annan è uno storico migliore di quanto non lo siano Perle e Frum. Il passato non si può negare: la maggior parte delle transizioni democratiche verificatesi negli ultimi due secoli non hanno avuto nulla a che fare con l’intervento o la pressione militare di un paese straniero, mentre la maggior parte degli interventi militari Usa all’estero non si sono lasciati alle spalle una democrazia, bensì una dittatura. I due casi che i neocon citano continuamente, la Germania e il Giappone, sono tra i pochi in cui la democrazia è stata restaurata (e non creata dal nulla) come risultato dell’invasione americana. Il blocco sovietico si è democratizzato dall’interno negli anni Novanta, anche se gli Stati Uniti non hanno bombardato Mosca, non hanno imposto un governatore militare ai polacchi e non hanno rinchiuso ex funzionari comunisti ungheresi in un campo di prigionia senza nessun capo d’accusa. In America Latina, il Messico è diventato una democrazia multipartitica invece di una dittatura a partito unico senza che i marines americani si facessero fotografare nel palazzo presidenziale di Città del Messico, e i soldati americani non hanno dovuto uccidere decine di migliaia di argentini, cileni e brasiliani perché la democrazia attecchisse in quei paesi.
È auspicabile che in Iraq i soldati americani si lascino alle spalle una democrazia funzionante, invece delle autocrazie e cleptocrazie disfunzionali che furono lo strascico delle occupazioni militari americane nelle Filippine, a Cuba, in Nicaragua, ad Haiti e in Messico. Ma è probabile che, se e quando la democrazia liberale arriverà nel mondo musulmano in generale e in quello arabo in particolare, la transizione graduale e in gran parte pacifica ricorderà quelle dell’Europa sovietica e dell’America Latina, e non sarà il risultato dell’azione militare o dell’intimidazione americana. I neocon – e i falchi umanitari di sinistra – non hanno semplicemente capito quale sia il modo migliore per diffondere la democrazia.
La strategia globale dei neocon non è di tipo etnico, quindi, bensì ideologico: una crociata in nome della democrazia. Ma i neoconservatori che sostengono l’illiberale partito Likud israeliano, e gli alleati americani del Likud, i sionisti cristiani protestanti della destra religiosa del Sud, contraddicono i loro stessi principî.
L’ideologia neoconservatrice, in teoria, è più compatibile con il post-sionismo israeliano che con le forme di nazionalismo etnico dei sionisti laburisti e dei sionisti revisionisti. I neocon condannano l’idea «paleoconservatrice» secondo cui la cittadinanza americana deve essere fondata sulla razza (caucasica) o sulla religione (cristiana), e tuttavia difendono gli statisti e i pensatori israeliani fautori di un nazionalismo «di sangue e suolo» ancora più illiberale del «buchananismo» (3) condannato dai neocon nel contesto americano.
Sulle pagine del Weekly Standard, David Brooks ha sorprendentemente sostenuto che gli Stati Uniti, una democrazia liberale lockiana, devono difendere Israele, un’altra democrazia liberale lockiana, contro l’illiberale nazionalismo palestinese. L’idea che l’identità israeliana non abbia nulla a che vedere con il nazionalismo «di sangue e suolo» potrebbe rincuorare i post-sionisti fautori di Israele come «Stato di tutti i suoi cittadini» (per non parlare del milione di cittadini israeliani palestinesi), ma sarà una novità per i sionisti laburisti, così come per il Likud, il National Religious Party e lo Shas nella coalizione di governo di Sharon.
Douglas Feith, a differenza di Brooks, non mente sulla natura del nazionalismo israeliano. In un discorso pronunciato a Gerusalemme nel 1997, intitolato Riflessioni su liberalismo, democrazia e sionismo, Feith, che all’epoca non era ancora diventato il terzo funzionario più potente del Pentagono, condannò «quegli israeliani» che «sostengono che Israele, come l’America, non dovrebbe essere uno Stato etnico – uno Stato ebraico – ma uno “Stato dei suoi cittadini”». Feith sosteneva che «nel mondo c’è posto per le nazioni fondate su basi non etniche come per quelle fondate su basi etniche». La teoria di Feith, a differenza di quella di Brooks, permette ai neocon pro Likud di predicare un universalismo postetnico per gli Stati Uniti e un nazionalismo «di sangue e suolo» per Israele. Mentre risolve un problema per il movimento neoconservatore, Feith ne crea altri, legittimando una politica identitaria che i neocon disdegnano: come si può, infatti, giustificare il nazionalismo ebraico etnorazziale e israelocentrico mentre si condanna l’afrocentrismo o la sinistra idea neonazista di una diaspora «ariano-germanica» o «nordica» negli Stati Uniti? Peggio ancora, la teoria di Feith sembra avallare la falsa convinzione degli antisemiti secondo cui gli ebrei sarebbero essenzialmente degli stranieri nelle nazioni in cui sono nati o risiedono. In effetti, secondo l’ideologia jabotinskiana (4) condivisa da Sharon, Netanyahu e molti (non tutti) dei loro alleati neocon, nel mondo esistono solo due tipi di ebrei: gli israeliani e i potenziali israeliani. Molti, se non la maggior parte, degli ebrei americani hanno rifiutato questa concezione illiberale per generazioni.
Una contraddizione che si collega a tutto questo è l’alleanza sempre più stretta fra i neocon e i maggiori sostenitori del Likud nell’elettorato americano, gli ayatollah protestanti della Bible Belt, che hanno indotto Irving Kristol, William Kristol e Norman Podhoretz ad aprire le loro riviste alle invettive della destra religiosa contro il diritto all’aborto, i diritti dei gay, il controllo delle armi da fuoco e – la mia preferita – «il darwinismo». Questa apertura al fondamentalismo cristiano degli Stati del Sud – il contrario di tutto ciò che sosteneva un tempo il neoconservatorismo inteso come «paleoliberalismo» – portò al mio distacco e a quello di molti altri ex neoconservatori. Credevamo di far parte di un movimento liberal antitotalitario, e non di una coalizione di likudnik americani e battisti creazionisti «born again», formata per sostenere la colonizzazione della «Samaria» e della «Giudea» da parte di coloni ebrei di destra.
Il neoconservatorismo – e cioè il paleoliberalismo dei falchi – è stato dirottato dai sostenitori del Likud appartenenti all’elite americana, sia ebrei sia non ebrei, e dai loro alleati cristiani, molto prima che i neocon, forse solo temporaneamente, dirottassero la politica estera americana durante la presidenza del secondo Bush. Posso testimoniare che esistono neoconservatori, anche ebrei, che non condividono questo amore per il Likud, ma se lo ammettessero pubblicamente, la loro carriera nel movimento sarebbe finita.
L’alterazione di un movimento ideologico a causa dei pregiudizi etnici, religiosi o regionali dei suoi leader non è un fatto raro. Non c’era nulla di intrinsecamente cattolico e neppure cristiano, per esempio, nel «movement conservatism» di William F. Buckley Jr, che attrasse molti protestanti, ebrei e laicisti. Ciononostante, la cerchia di Buckley era formata principalmente da cattolici, fra cui il cognato di Buckley, Brent Bozell, un seguace americano del carlismo spagnolo (i carlisti erano la risposta cattolica ai likudnik americani). Proprio come oggi criticare il Likud nuocerebbe alla carriera di un neoconservatore ebreo o non ebreo che non vede perché Israele non dovrebbe essere uno «Stato di tutti i suoi cittadini» come gli Stati Uniti, così negli anni Cinquanta e Sessanta non era una buona idea criticare la Spagna del generale Franco se si era un conservatore della National Review.
Un ex neoconservatore come me non fu sorpreso dal cinismo con cui l’amministrazione Bush mentì al Congresso e al popolo americano, per giustificare un’invasione dell’Iraq pianificata da Wolfowitz e da molti suoi alleati del Pnac diversi anni prima dell’11 settembre 2001. In un’antologia intitolata The Fettered Presidency, pubblicata dall’American Enterprise Institute nel 1989, Irving Kristol scriveva: «Se si presenterà davanti al popolo avvolto nella bandiera americana e farà in modo che il Congresso si avvolga nella bandiera bianca della resa, il presidente vincerà. [...] Il popolo americano non aveva mai sentito parlare di Grenada. Non ne aveva motivo. Il pretesto che utilizzammo per l’intervento militare – il rischio che correvano gli studenti di medicina statunitensi a Grenada – era fittizio, ma la reazione degli americani fu assolutamente favorevole. Non avevano idea di cosa stesse accadendo, ma sostennero il presidente. E lo sosterranno sempre».
Ma si dà troppa importanza alle menzogne dei neocon. L’influenza degli insegnamenti di Leo Strauss sulla necessità per i «filosofi» di nascondere la verità alle masse può essere esagerata. La sicurezza dei neocon di essere nel giusto potrebbe bastare, dal loro punto di vista, a giustificare l’inganno dell’opinione pubblica su questioni come l’inesistente minaccia irachena agli Stati Uniti. I neocon, dopotutto, stanno combattendo la quarta guerra mondiale contro… be’, contro chiunque capiti: quest’anno una Russia rinata, l’anno prossimo la Cina, e l’anno dopo una vaga minaccia «islamica» che in qualche modo comprende baathisti antislamici e palestinesi laici insieme a Osama bin Laden. I neocon vedono se stessi come figure churchilliane, una minoranza eroica che, mentre combatte contro un generico «totalitarismo» di cui l’islam radicale rappresenta la manifestazione più recente, viene ostacolata dai vili sostenitori dell’appeasement all’interno dell’establishment e dai rappresentanti di una decadente «adversary culture» nella «nuova classe» dell’accademia e dei mass media. Molti fra i principali neocon, non ne dubito, volevano sinceramente credere che ci fossero armi di distruzione di massa in Iraq, che le masse irachene avrebbero accolto Ahmad Chalabi come il loro de Gaulle, e che un effetto domino democratico avrebbe portato al potere i laici pro Israele e pro America in Medio Oriente. Ora che i fatti li hanno smentiti, a un costo enorme in termini di vite americane e irachene, i neocon sono disorientati. Invece di ammettere l’errore e assumersi la responsabilità del loro catastrofico fallimento, cercano disperatamente di evitare il biasimo.
Purtroppo per loro, un’ideologia politica può fallire nel mondo reale solo un certo numero di volte prima di risultare del tutto screditata. Da almeno vent’anni, i neocon hanno torto su ogni questione di politica estera. Quando l’Unione Sovietica era in procinto di crollare, i falchi del Team B e del Committee on the Present Danger sostenevano che fosse in procinto di dominare il mondo. Negli anni Novanta sopravvalutarono la potenza e la minaccia della Cina, mettendo di nuovo l’ideologia davanti all’analisi oculata dei militari di carriera e degli esperti dell’intelligence. I neocon erano così ossessionati da Saddam Hussein e Yasser Arafat che trascurarono la crescente minaccia di al-Qaida. Dopo l’11 settembre promossero le inutili panacee della guerra preventiva e della difesa missilistica come soluzione ai problemi dei dirottatori e degli attentatori suicidi.
Dissero che Saddam aveva armi di distruzione di massa. Non era vero. Dissero che era alleato di Osama bin Laden. Non era vero. Predissero che dopo la guerra non ci sarebbe stata alcuna insurrezione in Iraq. Si sbagliavano. Dissero che in Medio Oriente e nel mondo ci sarebbe stata un’ondata di proamericanismo se gli Stati Uniti avessero agito coraggiosamente e unilateralmente. Invece c’è stata un’ondata di antiamericanismo a livello regionale e globale.
David Brooks e i suoi colleghi della stampa neoconservatrice hanno in parte ragione. Non esiste alcuna rete di cervelli cospiratori, solo una rete di cospiratori pasticcioni. Come risultato del loro dilettantismo e della loro incompetenza, i neocon si sono umiliati da soli. Se adesso dichiarano di non essere mai esistiti, be’, non si può certo biasimarli, no?

(traduzione e note di Silvia Pareschi)


 

 

(1) «Adversary culture» è una definizione coniata da L. Trilling in Beyond Culture (1965) (ed. it. Al di là della cultura, a cura di G. Fink, Firenze 1980), per indicare la tendenza degli intellettuali di sinistra americani a criticare con esasperata ostilità il proprio paese.
(2) Ed. it. Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore, Lindau, 2004.

 

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