Guerra, Impero, Oligarchia

Michael Walzer

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Amy Chua / Michael Walzer


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America versus America/1
Guerra, Impero, Oligarchia

di Amy Chua / Michael Walzer

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Il direttore di Dissent e l'autrice dell' Età dell'odio discutono di guerra, esportabilità della democrazia, America, Europa.

Amy Chua: Bremer ha lasciato l’Iraq pochi giorni fa [29 giugno 2004], Saddam Hussein è apparso per la prima volta in un tribunale iracheno e le elezioni sono state annunciate per il gennaio del 2005. Una parte della stampa ha accolto con ottimismo l’inizio di una democrazia irachena, nella convinzione che, dopotutto, il nostro tentativo di esportare la democrazia in Iraq stia avendo successo; altri pensano invece che questo sia solo un altro modo di chiamare l’occupazione. Credo allora che sia importante fare qualche osservazione in proposito. Innanzitutto mi preoccupa molto la situazione demografica dell’Iraq. Mi sembra improbabile una rapida transizione verso una democrazia di tipo occidentale in un paese che non ha soltanto divisioni etniche, religiose e settarie molto marcate ma ha anche una maggioranza sciita del 60-70 per cento che è stata a lungo letteralmente oppressa, non soltanto dal partito Baath , ma anche dagli inglesi e prima di loro dagli ottomani. Esiste dunque una maggioranza che, comprensibilmente, vuole riappropriarsi della nazione. Penso che sarà molto interessante vedere cosa accadrà perché, in teoria, un governo della maggioranza andrebbe a vantaggio della maggioranza sciita; tuttavia, il gruppo economicamente più avvantaggiato è quello sunnita, e quindi una soluzione mi sembra tutt’altro che semplice.

Michael Walzer: Ne sono convinto. Vorrei soltanto fare una premessa al mio discorso, puntualizzando che è possibile essere contrari alla guerra pur sperando e lavorando, se c’è del lavoro da fare, per un risultato dignitoso. Non credo che un risultato dignitoso giustifichi la guerra, anche se accrescerebbe le fortune politiche dell’amministrazione Bush. Credo dunque che occorra distinguere tra i giudizi sulla guerra del marzo 2003 e le considerazioni politiche da fare oggi.
Sono d’accordo con Amy Chua che soltanto la buona volontà della maggioranza sciita potrà permettere una forma di autogoverno ai curdi e ai sunniti. Ma non conosco precedenti nella storia irachena o nel mondo arabo di federalismo autentico. È una richiesta difficile da fare a una maggioranza oppressa, tuttavia, secondo me, sarà la prova cruciale.
Per quanto riguarda l’indipendenza del governo, penso che se questi politici dimostreranno di essere intelligenti come sembra, riusciranno a trovare la maniera per svincolarsi dalle autorità americane e trovare una loro forma di indipendenza.

Chua: Paradossalmente all’interno dell’Iraq potrebbe esistere una forza potenzialmente in grado di unificare il paese, ma credo purtroppo che questa forza sarebbe l’antiamericanismo. Non so quanto tempo potrebbe durare questo sentimento, e quanto potrebbe essere positivo, ma durante il processo di transizione abbiamo avuto modo di avvertirne la presenza.

Walzer: Sì, anche se questo sentimento esclude sicuramente i curdi. Ma se gli iracheni scelgono bene i loro obiettivi, possono disporre di tutti mezzi per riuscire a costruire la propria indipendenza perché gli Stati Uniti non hanno nessun interesse a fare del governo iracheno un governo satellite. Ci toccherà farci da parte qualora si presentasse una chiara affermazione di autogoverno. Non voglio dire che gli iracheni inizieranno a comprare le armi dai francesi, almeno non immediatamente, anche se sono convinto che i francesi sperano che ciò accada in futuro, e forse a ragione. Comunque, sono certo che troveranno il modo per dimostrare che sono capaci di decidere autonomamente.

Chua: Credo proprio che l’amministrazione Bush sia rimasta sorpresa da quanto è accaduto. Quest’esito non rispecchia le loro aspettative. Mi pare che non abbiano le idee chiare su quella che sarebbe la soluzione ideale per l’Occidente, e ciò mi lascia perplessa.

Walzer: Prima dell’inizio della guerra, ho pubblicato un articolo sul New York Times («Cosa potrebbe fare una piccola guerra in Iraq») sul compito che sarebbe spettato agli europei per impedire che la grande guerra seguisse alla «piccola guerra» allora in corso: l’embargo, le «no-fly zones» eccetera. Sono stato in Spagna di recente e in ogni occasione ho sostenuto – suscitando sempre una strenua opposizione – che gli spagnoli non avrebbero dovuto ritirare le loro truppe dopo la vittoria dei socialisti alle elezioni. Pensavo che i governi europei avessero un’occasione da cogliere: la Spagna avrebbe potuto rivolgersi all’Italia o alla Polonia o addirittura ai nuovi alleati, come la Francia e la Germania, per proporre una valida risoluzione Onu, per creare una nuova struttura politica per la transizione e per l’occupazione militare attualmente in corso. Avrebbero dovuto dichiarare che avrebbero lasciato le truppe, e allora magari la Francia e la Germania si sarebbero organizzate per inviare le loro, qualora si fosse deciso di adottare una risoluzione di questo tipo. Oggi dovrebbe essere questo il ruolo degli europei, anche se negli ultimi anni si sono sempre puntualmente rifiutati di assumerlo.

Chua: Mi ricordo di aver letto il tuo articolo, era molto bello ed è stato per me una grande lezione. Ma mi chiedo che cosa fare del sentimento popolare. Anche se fossi d’accordo sul fatto che, idealmente, nell’interesse della pace globale, alcuni governi potrebbero comportarsi diversamente, resta che probabilmente la maggior parte della gente, per esempio nella Corea del Sud, in Spagna o in altre nazioni, non solo era contraria alla guerra sin dall’inizio, ma – qualsiasi cosa se ne pensi – non sarebbe disposta in nessun modo ad aiutare gli Stati Uniti a togliersi dai guai.

Walzer: È un problema che i socialisti spagnoli hanno accentuato grazie al modo in cui hanno condotto la loro campagna politica e al tipo di opposizione alla guerra che hanno proposto.
Prendiamo la situazione tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila: pensiamo alla partecipazione europea a ciò che io definisco la «piccola guerra»; pensiamo agli europei attivamente impegnati a far rispettare le «no-fly zones» e l’embargo, piuttosto che a violarlo: allora una guerra americana unilaterale sarebbe stata forse impossibile e in ogni caso molto difficile. Immaginiamo gli aerei francesi e forse anche italiani regolarmente in volo sulle zone settentrionali e meridionali dell’Iraq: gli Stati Uniti non avrebbero potuto revocare questo sforzo di contenimento per trasformarlo in uno scenario di guerra. Ci saremmo trovati a negoziare con le nazioni impegnate insieme a noi a condividere l’opera di controllo. E, parallelamente, se gli europei si fossero impegnati veramente, se si fossero davvero assunti la responsabilità per come vanno le cose in paesi come l’Iraq, non saremmo stati costretti a ricorrere a decisioni unilaterali.

Chua: Ciò che dici è molto intrigante. Anch’io sono favorevole ai tentativi di promuovere la democrazia, a lungo termine, ma credo che sia davvero ironico che gli Stati Uniti abbiano parlato di democratizzazione, di portare la democrazia e rendere libere le popolazioni quando, in questo momento, in parte per i motivi che tu hai indicato, stanno soffrendo tanto a causa della volontà della maggioranza e dei governi democratici della maggior parte dei nostri alleati. Credo che i governi della maggioranza in tante parti del mondo non sarebbero necessariamente favorevoli agli Stati Uniti.

Walzer: Sì, stiamo perdendo la battaglia per la conquista dei cuori e delle menti, e credo che questo accada da quando l’amministrazione Bush è andata al potere e ha preso quelle decisioni riguardo all’accordo di Kyoto, al Tribunale penale internazionale e ad altre questioni, comportandosi come se fosse nei loro interessi mettersi contro l’opinione pubblica internazionale. E ora ne paghiamo le conseguenze.
Credo che i motivi che hanno spinto questa amministrazione ad entrare in guerra siano stati molteplici, e che ci sia stato qualche disaccordo, o se non altro diversi modi di affrontare la questione. Penso che ci fosse un vasto progetto di strategia politica, di cui pensavano che la guerra fosse parte, soprattutto nella convinzione che il terrorismo fosse generato dai governi autoritari e corrotti del Medio Oriente, e che il rovesciamento di Saddam Hussein sarebbe stato l’inizio di un processo di trasformazione del mondo arabo in una regione meno disposta al terrorismo. Si trattava di una visione di tipo neoconservatore. Sono sicuro che vi fossero altri interessi locali ed economici per il petrolio. Credo anche che la paura che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa, o di una probabile produzione di tali armi nel prossimo futuro, in alcuni membri dell’amministrazione fosse autentica.
Quando nel 2002, con un articolo sulla New Republic, ho partecipato al dibattito sulla guerra, ero convinto che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa. Quello era il motivo principale per ipotizzare una guerra preventiva. Mi dichiarai contrario alla guerra a partire dalla presupposizione che tali armi ci fossero e che fosse possibile però gestire il problema in altri modi. Penso comunque che vi fosse almeno qualcuno nell’amministrazione ad essere in buona fede quanto alle armi.

Chua: Credo che Michael abbia elencato correttamente i possibili fattori che hanno spinto alla guerra. Oltre a questi, vorrei soltanto aggiungere un altro fattore, forse esclusivamente americano, – e non so se vogliamo chiamarlo idealistico o ingenuo – e cioè l’idea che la libertà, la democrazia e il capitalismo possano essere attivati a piacimento, come se bastasse inserire una spina in una presa elettrica.
Penso veramente che l’amministrazione non conoscesse la società irachena. In questo senso gli americani sono diversi dai colonialisti inglesi. Gli inglesi con la loro politica del dividi et impera, conoscevano bene queste varie sette, etnie e gruppi e si sono comportati di conseguenza. Noi americani abbiamo la pessima abitudine di ignorare il modo di vivere degli altri, di credere che tutti siano come noi, e che sia sufficiente mettere su una Borsa e spedire un po’ di cabine elettorali per far diventare chiunque come noi. È una grossa ingenuità, e credo proprio che questo ci si rivolterà contro, perseguitandoci.

Walzer: Vorrei soltanto aggiungere che la tendenza di cui parli è stata incoraggiata e appoggiata dagli esuli iracheni in Occidente – fortemente occidentalizzati, appartenenti in gran parte all’opposizione di sinistra a Saddam, marxisti inclusi – che avevano argomenti che apparivano piuttosto solidi e basati su una conoscenza delle condizioni irachene, e cioè che in Iraq vi era una vasta classe media, un ampio ceto di professionisti e di gente ben istruita, vale a dire la base sociale necessaria per costruire un governo democratico o quasi democratico.

Chua: Quello che dicevano era sicuramente ciò che l’amministrazione sperava di sentire. Dedico la maggior parte del mio tempo allo studio di nazioni diverse dagli Stati Uniti e all’analisi delle loro dinamiche interne. I paesi che conosco meglio sono quelli del Sud-Est asiatico e il mio paese d’origine, le Filippine. Vorrei ribadire che attualmente esistono tanti paesi non-occidentali assai diversi dagli Stati Uniti, e molte delle politiche che potrebbero funzionare per gli Stati Uniti non avrebbero lo stesso esito in paesi come l’Indonesia, la Nigeria o la Bolivia.
La mia critica non è rivolta soltanto ai repubblicani, ma anche alle politiche di democratizzazione promosse – credo con le migliori intenzioni – dai presidenti democratici. Oserei dire che quello che abbiamo esportato non è altro che una caricatura di democrazia e di libero mercato. Dal punto di vista economico, negli ultimi vent’anni abbiamo promosso il capitalismo del laissez-faire e al tempo stesso, dal punto di vista politico, una strana versione di democrazia basata semplicemente sull’introduzione, dal giorno alla notte, delle elezioni e del suffragio universale. Penso che gli Stati Uniti abbiano avuto un ruolo decisivo e centrale nella promozione di questi tipi di mercato e di democrazia. Da questo punto di vista, dunque, sono certamente criticabili.
Il secondo punto è di carattere globale. Vorrei sottolineare che questa è soltanto un’analogia imperfetta: parlo di singole nazioni che possiedono economie controllate da ciò che io chiamo «minoranze etniche economicamente dominanti», come per esempio i cinesi in Indonesia, che costituiscono il 3 per cento della popolazione e controllano il 70 per cento dell’economia; o i bianchi nello Zimbabwe, che sono l’1 per cento della popolazione ma controllano da generazioni il 70 per cento dell’economia. Lo stesso vale per i bianchi in Bolivia. Ora, non posso dire che l’America sia un gruppo etnico, ma per analogia, a livello globale, noi americani siamo visti come una specie di minoranza economicamente dominante: raggiungiamo soltanto il 4 per cento della popolazione mondiale ma dal punto di vista economico siamo sproporzionatamente potenti, per non parlare della nostra supremazia politica, militare e culturale. Sto parlando di quello stesso risentimento politico e di quella stessa demagogia diffusi tra le maggioranze povere del mondo contro le minoranze economicamente dominanti, che analogicamente, a livello globale, si applicano agli Stati Uniti.
Ho parlato molto di questo argomento, sia negli Stati Uniti sia all’estero, e ciò su cui tutti sembrano concordare è che gli Stati Uniti sono la minoranza dominante del mercato mondiale. Si potrebbe forse usare un termine diverso, si potrebbe dire «potenza egemonica» globale o «iper-potere» o qualsiasi altra cosa. Non è questo il punto: il problema è che tipo di minoranza economicamente dominante siamo. Perché siamo così potenti? Se il pubblico a cui parlo è quello delle città americane di provincia, la risposta è questa: «Gli Stati Uniti sono la superpotenza mondiale perché abbiamo le migliori istituzioni, lavoriamo più di tutti, abbiamo il libero mercato» e così via. Ma se parlo con un membro dell’Undp [Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo] o con persone di altre nazioni, per esempio con gli europei, mi accorgo che in fondo ci considerano essenzialmente come capitalisti coloniali. Proprio come gli indonesiani vedevano i cinesi. Dicono che gli Stati Uniti possono essere così potenti solo perché sono una forza neoimperialista: si introducono negli altri paesi e ne sfruttano le risorse, controllano le politiche di altri popoli, dettano le regole del gioco. Dunque non si tratta affatto di un libero mercato: il loro potere dipende dai monopoli stabiliti a loro favore.

Walzer: Ho letto il tuo libro, L’età dell’odio [trad. it. Carocci, Roma 2004], in cui sostieni queste tesi, e credo di essere d’accordo quasi su tutto. Tuttavia credo che queste tesi sulle minoranze economicamente dominanti funzionino meglio e siano più pertinenti quando vengono applicate al livello delle singole nazioni.
Per fare l’ esempio di un popolo che conosco bene, gli ebrei, credo che le tue argomentazioni funzionino meglio nel caso russo che in Medio Oriente, dove la questione non coinvolge tanto la società nazionale ma piuttosto le politiche regionali. Mi verrebbe da pensare che per spiegare l’ostilità araba nei confronti di Israele, la supremazia economica verrebbe al terzo posto dopo il successo politico ottenuto nella creazione di uno Stato e il successo militare conseguito nella sua difesa. Entrambi, credo, sono stati percepiti come umilianti e oppressivi sia per i palestinesi sia per i paesi arabi limitrofi. Credo che la supremazia economica abbia un ruolo meno rilevante.
Non penso che la mia posizione generale sull’«egemonia» americana sia molto diversa da quella di Amy, tranne per il fatto che tento di rispondere ad un vecchio discorso sulla natura degli imperi caro alla sinistra marxista, secondo cui in un impero il sistema politico è alla base della supremazia economica, o costituisce comunque una caratteristica vitale per mantenerla. Mi sembra che gli Stati Uniti abbiano avuto meno successo in campo politico che in quello economico. Quando si pensa al modo in cui funziona un impero, bisogna soffermarsi sulla capacità che hanno quelle nazioni, che si suppone facciano parte dell’impero americano, di sfidare gli Stati Uniti. Nel mio articolo apparso su Dissent, n. 4/2003 [«Esiste un impero americano?», trad. italiana in R. Festa, (a cura di), Cosa succede a un sogno, Einaudi, Torino 2004] ho fornito due esempi: il primo riguarda la decisione dei turchi di non permettere un’invasione dell’Iraq dal loro territorio. E la Turchia è un paese in cui gli Stati Uniti hanno avuto una forte presenza militare e con cui hanno avuto una lunga alleanza. La seconda riguarda la decisone del nuovo governo della Corea del Sud di non appoggiare la politica dell’amministrazione Bush nei confronti della Corea del Nord, malgrado lì vi fossero 50 mila soldati americani da 50 anni. Né la Turchia né la Corea del Sud possono quindi essere considerati paesi satellite nel comune senso della parola.
Ho il sospetto che quello cui stiamo assistendo in Iraq – su cui abbiamo investito molto in senso militare e politico, ed è per questo motivo Amy ha detto che i seguaci di Bush erano un po’ sorpresi – sia la lenta comparsa di un’altra nazione, il cui governo non diventerà mai un regime satellite. Stiamo assistendo all’emergere di una variante dell’impero diversa da quella convenzionale, che richiede una nuova teoria sul funzionamento degli imperi nel mondo moderno.
Nel corso di questi ultimi anni ho scritto tantissimo, criticando gli europei per non essersi assunti le responsabilità del loro peso economico e politico. Non credo di essere un difensore dell’egemonia americana. Mi piacerebbe che quest’egemonia fosse qualificata e pronta a scendere a compromessi. Mi piacerebbe scorgere negli Stati Uniti un impegno liberale internazionalista diretto al multilateralismo. E mi piacerebbe vedere nell’Europa un partner reale, un partner che sappia dire di sì e di no agli americani; che talvolta possa cooperare con noi ma sappia anche agire in maniera indipendente. Penso ad una società globale con più di un’egemonia, il che significherebbe una società globale priva di egemonia: una società globale con più di una potenza sarebbe veramente una società più sana.

Chua: Sarà interessante vedere cosa accadrà. Credo che una risposta alla supremazia internazionale degli Stati Uniti al momento sia – è solo un’ipotesi – il sorgere di tante coalizioni, non soltanto l’Unione Europea ma, per esempio, tra la Cina, la Russia e il Giappone, o qualsiasi altro tipo di combinazione. Sarà interessante vedere gli effetti di questo fenomeno sulla struttura del potere globale.

Walzer: Queste devono essere coalizioni di Stati preparati ad assumersi le responsabilità per ciò che accade nel mondo.

Chua: Mi limitavo semplicemente ad ipotizzare una possibile reazione di altri Stati. Sono pienamente d’accordo con te su quello che sarebbe l’ideale.

Walzer: La Spagna mi ha dato la sensazione di essere un paese che rifiuta una politica estera. Auspica una politica europea e credo che ciò che sta succedendo in Europa sia molto importante, e cioè la creazione di una zona di pace in una parte del mondo dove per tanto tempo si è sparso molto sangue, ma desidererei veramente un’Europa più disposta a uscire da stessa. Spero che l’isolazionismo europeo sia temporaneo. Sono tanti i motivi per augurarselo. L’Europa è completamente assorbita da un grande progetto, ma spero che riuscirà a trovare lo spazio anche per altri progetti.
Per quanto riguarda la domanda relativa all’11 settembre, «Perché ci odiano?», penso che sia una domanda ovvia, anche se non è esatto usare una generica terza persona plurale. La domanda legittima è «Perché siamo odiati in varie parti del mondo?», e non credo che provare a dare una risposta significhi voler giustificare in qualche modo i terroristi.
Penso che sia importante riconoscere che le politiche che nascono dall’odio verso di noi abbiano tante forme, non necessariamente di natura terrorista, ed è anche possibile riconoscere la legittimità dell’odio in alcuni casi e opporsi ad una reazione terroristica. In effetti è proprio nel momento in cui l’odio può essere legittimo che diventa indispensabile opporsi ad una reazione terroristica e cercare un’alternativa, provando a gestire il potere americano in maniera più politica. La domanda, dicevo, è valida, ma la risposta dipende molto da chi sono coloro che ci odiano, perché non sono tutti uguali. Abbiamo fatto una guerra disumana in Vietnam e presumo che lì vi sia tanta gente che ci odia, anche se la situazione politica è molto diversa rispetto ad altre parti del mondo. In effetti, si può immaginare una collaborazione vietnamita-americana in molti progetti. Il Vietnam non ha mai creato un movimento terrorista diretto contro gli americani o contro i civili americani nel mondo. Nell’America Centrale e in alcune parti del Sud America ci odiano perché siamo stati oppressivi e sfruttatori. Alcuni di loro ci odiano, ma non esiste in quella parte del mondo un movimento terrorista e la diaspora ispanica non offre rifugio ai terroristi, anche se ci sarebbero più motivi in quella parte del mondo per odiare gli abusi del potere americano che altrove. La spiegazione per il mondo arabo deve essere molto diversa da quella del Vietnam o dell’America Centrale. Ha a che fare, presumo, con gli Stati Uniti come eredi dell’imperialismo europeo, che è stato odiato nel mondo arabo per lunghissmo tempo. Ma penso anche che i risentimenti nel mondo arabo contro l’America e Israele e forse anche contro altri poteri occidentali abbiano molto a che fare con una lunga serie di sconfitte militari, a partire dalla prima guerra mondiale. Quella domanda, dunque, nel caso dei paesi arabi deve essere affrontata in maniera diversa rispetto ad altre parti del mondo. Perché, dunque, quella regione ha prodotto il terrorismo, mentre ciò non è accaduto in America Centrale o nel Sud-Est asiatico, è una questione che richiede, così mi pare, una spiegazione culturale e politica specifica relativa a quella parte del mondo.

Chua: Premesso che non ho assolutamente alcun interesse a giustificare i terroristi, devo dire però che ho notato che subito dopo l’11 settembre era molto, molto difficile muovere un qualsiasi tipo di critica agli Stati Uniti. Persino nella facoltà di legge di Yale, considerata una roccaforte liberale e di sinistra, era molto difficile esprimere un qualsiasi tipo di riflessione introspettiva sugli Stati Uniti. Di fronte a me non c’era più un pubblico di sinistra, ma un pubblico pro americano molto più vasto. Quando ho posto la domanda: «Perché ci odiano?», una cosa che ho trovato molto frustrante è che persino gente di un livello culturale molto alto abbia risposto con una retorica del tipo «Ci odiano perché odiano la nostra libertà». Per me simili risposte sono prive di senso. Non si tratta di giustificare il terrorismo, ma credo che qualsiasi nazione, e non solo gli Stati Uniti, dovrebbe trarre vantaggio da una riflessione introspettiva, per esempio cercando di conoscere meglio la propria storia. C’è tanta gente che ignora completamente le nostre politiche in Sud America. È davvero stupefacente quanto sia bassa la percentuale di americani che conosce il nostro operato nel Sud America o nel Medio Oriente.
Penso che le cose siano cambiate molto negli ultimi sei mesi, con la guerra in Iraq. È comprensibile che dopo l’11 settembre – che è stato un vero shock per la nazione – fosse diventato difficile parlare, e fare domande significava essere immediatamente definiti antipatriottici. Ricordo che a Yale, durante un dibattito, ho detto che sarebbe stato utile capire le forze che avevano portato a questi atti imperdonabili di terrore e persino queste parole hanno suscitato subito reazioni del genere: «Cosa stai dicendo? Stai scusando i terroristi?». Credo che parte di questa mentalità abbia reso possibile la guerra in Iraq.
Ora, secondo me stiamo vivendo un momento fantastico della storia americana: c’è tanto da fare, la gente tenta di fare chiarezza, e non penso solo al film di Michael Moore. È un momento in cui gli americani sono finalmente liberi di dire quello che non hanno potuto dire per quasi due anni. Non hanno potuto, non nel senso che altrimenti sarebbero stati arrestati, ma semplicemente in quanto non se la sentivano di parlare. Ora le cose sono cambiate.

Walzer: Vorrei toccare un altro tema in questo contesto, ed è il ruolo della religione, a volte trascurato dalla sinistra marxista tradizionale. La religione ha sicuramente un ruolo fondamentale nel mondo moderno; forse non in Europa, anche se l’Europa dell’Est costituirebbe la grande eccezione. Il successo del laicismo sembra essere un successo europeo, ma in tante parti del mondo il sorgere di movimenti religiosi fondamentalisti che non rappresentano una religiosità tradizionale, ma qualcosa di nuovo – e che sono movimenti ideologici in senso moderno – legati da una causa comune o da cause diverse in religioni diverse, penso sia un fenomeno spaventoso. Non per lo scontro che provoca tra le civiltà, per dirla alla Huntington [Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001], ma perché comporta uno scontro tra le società di uno stesso paese e tra le comunità religiose e nazionali. Avremo ancora modo di apprezzare i pericoli del fondamentalismo religioso in Iraq. Sicuramente gli esuli che ci hanno parlato dell’esistenza di questa solida base sociale per una democrazia laica e liberale adesso sembrano un po’ folli. In Israele il ruolo della religione ultra ortodossa e ortodossa costituisce, credo, il maggior ostacolo alla creazione di un qualsiasi tipo di processo di pace autentico. Lo stesso potrebbe valere per l’altra parte, nel senso che l’intera Palestina come possedimento dell’islam potrebbe essere il maggior ostacolo alla creazione o allo sviluppo di un simile processo. Non condivido le tesi di Huntington, ma sono molto spaventato dalla comparsa di movimenti religiosi politicizzati.

Chua: Credo che tanti marxisti o neomarxisti tendano a sottovalutare non soltanto il ruolo della religione, ma anche quello dell’etnia e di altre forme di identità politica. Ricordo che, durante una lezione, ho letto Marx per mettere in luce il problema della lotta di classe, e vi erano dei passaggi in cui Karl Marx somigliava molto a Thomas Friedman, nel senso che dava l’impressione che il capitalismo o altre forze più grandi fossero pronte ad eliminare le differenze etniche, religiose, settarie e tribali. All’epoca la considerai solo una banale coincidenza.
Per quanto riguarda la destra degli Stati Uniti, penso che stiano accadendo molte cose complicate. Il movimento neoconservatore, per esempio, non coincide con la destra evangelica, e queste differenziazioni sono affascinanti.

Walzer: È vero, a pensare in quel modo non sono solo i marxisti. Isaiah Berlin scrisse un bellissimo saggio, da qualche parte, sulla speranza liberale che il nazionalismo e la religione sparissero come forze che agiscono come fonti di scissione nel mondo politico. Questa era una delle credenze del XIX secolo che si è tramandata in gran parte del mondo liberale e di sinistra: si credeva che la religione, il nazionalismo e così via, fossero soltanto tratti irrazionali della vita collettiva e che il progresso della scienza e della tecnologia, e forse anche il capitalismo, avrebbe trasformato tutti noi in agenti razionali interessati solo a scegliere le politiche più utili e attraenti.

Chua: Mi piace che sia tu a dirlo perché, sebbene io adori i miei colleghi di Yale, ho dovuto spesso affrontare questo tipo di sfida o di scetticismo, sia sul versante del diritto sia su quello economico del liberalismo. Vorrei ricordare un episodio. Riguarda proprio un mio mentore di Yale, uno di quei liberali di un tempo che si battevano per i diritti civili. Io stavo scrivendo una recensione sul diritto, i mercati, la democrazia e l’etnicità e avevo esplicitato una serie di argomentazioni che poi sarebbero diventate il mio libro. Durante il pranzo, commentando il mio articolo, mi disse: «Mi piacciono molto le tue idee. Mi piace il tuo discorso sulla tensione tra i mercati e la democrazia e quel che scrivi sulle classi. Il mio unico suggerimento è quello di eliminare il tema dell’etnicità. Non vedo cosa c’entrino le etnie con tutto ciò». Rimasi sbalordita. Non sapevo come dirgli che quello era il mio punto di vista; che quello era il cuore del mio pensiero.

Walzer: Volevo soltanto dire che l’ineguaglianza è più pericolosa quando le differenze economiche e quelle etniche o nazionali si sovrappongono. Questo è molto, molto importante, e gran parte dell’accademia liberale non l’ha capito.

Chua: Giusto, è quello che sto tentando di dire quando parlo di minoranze economicamente dominanti. Non dico che non vi sia una dimensione di classe, ma qui la classe e l’etnia si sovrappongono in maniera particolarmente esplosiva.

Walzer: Per concludere questa conversazione, vorrei fare riferimento alla recente [31 maggio 2004] decisione della Corte Suprema riguardo ai poteri dell’esecutivo. Penso che la settimana scorsa o le ultime due settimane siano state una grande vittoria del contrappeso giudiziario, negli Stati Uniti e anche in Israele. Ero lì pochi giorni fa, quando la Corte Suprema ha emesso la sentenza riguardo alla necessità di cambiare il tracciato del muro. Credo che quel caso e il caso americano siano una grande attestazione del bisogno dei giudici e di un attivismo giudiziario negli Stati democratici.
Una volta, molto tempo fa, ho pubblicato un articolo che esprimeva preoccupazione per il potere di revisione giudiziaria da un punto di vista democratico, ma penso invece che i vincoli legislativi imposti da giudici presumibilmente imparziali – occasionalmente politicizzati, ma spesso imparziali – abbia un ruolo molto importante.

Chua: Di fronte alla sentenza della Corte Suprema ho avuto anch’io, ovviamente, una reazione simile. È un piacere raro in questo momento storico quello di essere orgogliosi del modo in cui la nostra democrazia sta funzionando. Sono stata parecchio in ansia, dopo l’11 settembre. C’era questa paura della maggioranza, il risentimento della maggioranza, la rabbia della maggioranza: parlo del popolo americano, di cui mi sento parte, ma è spaventoso ciò che talvolta questi sentimenti della maggioranza possono produrre. La sentenza emessa la settimana scorsa è stata una rivincita del sistema ed una delle poche luci all’orizzonte.

Walzer: Quella sentenza non produrrà, come qualcuno potrebbe pensare – nel caso di una vittoria democratica alle elezioni di novembre – azioni penali contro i membri di questa amministrazione. Penso che sia una caratteristica importante della democrazia americana non processare i politici precedenti dopo un passaggio dei poteri, anche se forse lo meriterebbero. Questo è uno dei modi in cui tuteliamo il passaggio dei poteri.

Chua: Credo anch’io che da questo punto di vista non assisteremo a grandi cambiamenti. È difficile per me immaginare che il nostro esercito sia cambiato, che le nostre procedure militari siano cambiate drasticamente nel passaggio dall’amministrazione democratica a quella repubblicana. Dunque, quel che abbiamo visto accadere fa certamente parte di una problematica più ampia.


(traduzione di Maria Teresa Gabriele)

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