Storia economica come storia

Paolo Favilli
Università di Genova

Storia economica come storia

1) Vorrei iniziare questo intervento commentando una recente affermazione di Jürgen Kocka:

«La storia economica figura tra i maggiori perdenti degli sviluppi recenti. Per lo meno in Germania, gli economisti attivi nei dipartimenti di economia non si interessano molto alla storia. Gli storici, per parte loro, sono assai meno interessati al mutamento economico di quanto non fossero, diciamo, negli anni Sessanta e Settanta. La storia economica è tornata ad essere un settore specializzato, privo di grande incidenza sul dibattito generale. Viviamo in un’epoca in cui sperimentiamo l’immenso potere dell’economia. Si pensi alla disoccupazione di massa, alla globalizzazione, alla mercificazione universale, alla crisi della società del lavoro. Non è un po’ anacronistico che gli storici parlino in continuazione di cultura mentre l’economia plasma la nostra vita?»

Le considerazioni di Kocka pongono questioni di rilievo tanto per il rapporto che nel corso di un periodo molto lungo si è stabilito tra una dimensione specifica del sapere storico (quella economica) e il marxismo, quanto per i meccanismi sottesi al mutamento del quadro epistemologico di riferimento della disciplina. Tra i due aspetti corre un evidente sistema di relazioni.
Come prima approssimazione (molto generale) possiamo rilevare una corrispondenza tra i periodi in cui il marxismo ha avuto maggiore influenza culturale e quelli in cui la storia economica ha avuto «maggiore incidenza sul dibattito generale». Così come la medesima corrispondenza riguarda anche veri e propri momenti di fondazione/rifondazione della disciplina legati a rinnovamento metodologico o ad ampliamento degli orizzonti. Tale insieme di corrispondenze lo si può rilevare non soltanto nelle vicende della cultura storica italiana, ma anche in quella di altre importanti storiografie europee, magari con sfasature temporali dovute a diversità di storie e non solo e soprattutto culturali.

Un secondo aspetto concerne il legame assai stretto tra i modi di pensare la storia economica (la storia epistemologica della disciplina) e i modi di pensare l’economia in generale (la storia epistemologica della economia politica. In termini più accademicamente ristretti tra storia economica e storia del pensiero economico; non delle dottrine, non dell’analisi che tali scelte terminologiche presuppongono precedenti scelte di criteri metodologici. Si è detto, ad esempio che la «nuova storia economica(…) è in sostanza teoria — per lo più teoria neoclassica — retrospettiva» . Senz arrivare a tale consustanzialità, la teoria è sempre stata elemento altamente caratterizzante di qualsiasi riflessione storica in economia. E non si tratta solo del ruolo di Marx nella costruzione di una storia economica che è «pregna» di teorie, e di una «teoria» che è «pregna» di storia. Una analoga sua lezione di metodo non è rimasta estranea neppure ad autori così lontani da Marx, per molti versi antimarxisti, come Keynes e Schumpeter che cercano di delimitare «un campo di studio articolato e complesso, in cui storia economica, analisi economica (…) e sociologia vengono a costituire un tutto “a dominante”».

Quanto poi al fatto che oggi «gli storici parlino in continuazione di cultura mentre l’economia plasma la nostra vita», non mi pare tanto un «anacronismo» quanto uno «storicamente determinato», non rilevabile mediante l’analisi privilegiata delle logiche interne alla disciplina. Un fenomeno comprensibile nell’ambito dei grandi mutamenti epocali che negli ultimi 25 anni hanno modificato la nostra percezione proprio della «storicità» del ciclo economico e che hanno prodotto il paradosso di un paneconomicismo ambientale in assenza di analisi «storiche» del ciclo. Il paneconomicismo ha assunto il ruolo, del tutto «naturale», dell’acqua in cui ci troviamo immersi, in cui nuotiamo. Della «naturalità» si danno analisi tecniche, di contingente conoscenza, non di conoscenza delle correnti profonde che, lentamente, cambiano gli elementi strutturali di ambienti supposti naturali. I mutamenti di percezione possono poi avere un alto grado di distorsione: mai come in questo momento proclamato a-ideologico, rimane necessario lo studio delle ideologie che interessano tanto storia che analisi economica.

La vicenda della storia economica deve, quindi, essere analizzata all’interno di un complesso sistema di relazioni tra: a) una storia strutturale determinata in parte non marginale dalle macroperiodizzazioni del ciclo di accumulazione capitalistica; b) una storia epistemologica della disciplina in stretto rapporto con la storia epistemologica della economia politica. L’influenza (o la non influenza) del «marxismo» interessa ambedue i percorsi: come metodologia storica che privilegia la dimensione economica; come teoria critica delle categorie economiche.
Uno studioso italiano di storia economica, in un ampio saggio introduttivo ad alcuni scritti di Gino Luzzato, considerato, e non solo dall’autore del saggio, come colui «che ha fondato gli studi di storia economica in Italia» , faceva riferimento all’avvenuto divorzio nel primonovecento tra economia e storia. Un divorzio consensuale tra un’economia ormai meccanica razionale ed una storia economica ormai pura filolologia. Un divorzio benefico, secondo l’autore: l’autonomia reciproca di storia ed economia allora conquistata avrebbe favorito poi un nuovo incontro su nuove basi.
Che il divorzio sia stato davvero benefico è questione piuttosto problematica. Pur tuttavia rimane importante che dall’interno della storia economica sia stato individuato un itinerario non breve, fluttuante, nel quale i modi di pensare la teoria economica hanno finito per stabilire un insieme di nessi assai stretti con la storicità tanto dell’economia quanto del pensiero economico.

2) «…da questo suo [di Marx] collocarsi sempre su un terreno storico deriva la storicità della sua analisi teorica, in quanto studio di formazioni economico-sociali e di categorie storicamente determinate. Da questa analisi teorica, profondamente storica, deriva in pari tempo la possibilità di una storiografia capace di ricondurre gli avvenimenti, in ultima istanza, alla “connessione intima delle categorie economiche” e alla “struttura occulta” del sistema economico borghese».

Analisi teorica ed insieme analisi delle strutture materiali è indicazione di metodo del tutto marxiana e Giorgio Giorgetti, lo studioso della generazione dell’immediato dopoguerra che si provò a tenere più stretto questo legame analitico, la proponeva come strumento di grandi possibilità euristiche in una dimensione in cui la teoresi si costruisse all’interno dello «storicamente determinato». Un’indicazione che va al di là tanto dell’uso di categorie dell’economia politica, quanto della storia economica intesa come specialismo separato. Ad esempio «per avere un mercato del lavoro astratto diversi storicamente determinati sono occorsi: è occorso il costituirsi della statualità amministrativa, il costituirsi di un diritto di rappresentanza parlamentare a suffragio più o meno ristretto, applicazioni nuove di forza motrice (…). Il costituirsi di un ethos è di estrema rilevanza: è ethos di civiltà, di libero scambio, di rischio inventivo privato, di separazione fra società civile e statualità, di laicizzazione, di guarentige associative: quest’ultima è particolarmente importante per insinuare, dal di dentro dell’ethos costituitosi come ethos universale, i diritti di associazione per un cosiddetto proletariato e per fondare, quindi, una storia del movimento operaio».
Il «momento economico» storicamente determinato si configura, dunque, come punto nodale in cui confluiscono differenti lineamenti di analisi, intreccio fortissimo di storia, teoria economica e teoria sociale.

La difficile storia di questo rapporto che, dal Methodenstreit in poi ha attraversato con fasi cicliche la cultura di storia-economia per più di un secolo, è parsa chiudersi nell’ultimo ventennio con la definitiva separazione dei campi disciplinari. Da una parte la storia che accentua la sua dimensione «linguistica» fino ad identificare i contenuti con le forme della retorica, dall’altra l’economia che accentua il rigore logico-formale considerandolo come valore in sé e che così si allontana sempre di più dall’analisi sociale. Se si tratta di un ulteriore tornante dell’alternanza ormai quasi bisecolare dei cicli, al momento attuale non siamo in grado di prevederlo. Non mancano certo storici ed economisti che ritengono del tutto insoddisfacente una situazione in cui le discipline appaiono impoverite di capacità conoscitiva reale dei processi sociali: prigioniere l’una di una «scienza» che coincide con il rigore matematizzante, l’altra che rifiuta addirittura qualsiasi forma di «scienza», sia pure quella con lo statuto epistemologicamente debole ed in continua ridefinizione della conoscenza storica.

Un recente segnale viene dall’iniziativa di economisti che ripropongono il problema secondo un percorso che proprio tra gli economisti era diventato inabituale. Nel migliore dei casi, infatti, gli economisti tendono a servirsi della storia come verifica empirica di teoremi teorici precedentemente elaborati. Il percorso è quello che va dalla teoria alla storia. Gli economisti in questione hanno provato ad invertire il percorso e si sono mossi secondo la direzione che va dalla storia alla teoria. Lo hanno fatto cercando «in quali termini, e entro quali limiti, la dimensione propriamente storica (…) sia rinvenibile nelle opere dei grandi economisti, dei pensatori che hanno segnato profondamente la teoria economica».
Ne è emerso un panorama di grande interesse a partire dalla constatazione che l’esclamazione enfatica di Quesnay, «Pauvres paysans, pauvre royame», con tutto quel che vi è connesso di tecniche agricole e rapporti sociali, è il problema principe per la prima formulazione teoricamente matematizzante dell’analisi economica. Se infatti la «aritmetica politica» di sir William Petty si applicava a singoli aspetti pratici della ricerca e dell’analisi , il tableau si presenta invece esplicitamente come teoria dell’equilibrio economico generale.
Si tratta dunque della constatazione che fin dai primi fondamenti di un approccio analitico matematizzante, il punto di partenza è quello della realtà storico-sociale sulla cui base si costruisce un modello teorico astratto, (il modello matematico è un mezzo non un fine ). La verifica del modello non consiste soltanto nella sua coerenza interna, ma nelle sue capacità esplicative di quella realtà.

Tale convinzione ha attraversato non soltanto il modello marxiano ma tutta la grande tradizione classica ed ha conservato, nonostante i neoclassici, vitalità nel Novecento riproponendosi anche recentemente nella forma detta della path dependance. In questo modo anche i modelli teorici più formalizzati diventano «storicamente determinati».
Nello stesso tempo i momenti particolarmente significativi della storia della vexata questio, quelli in cui gli indicatori di una svolta imminente o in atto cominciano a risultare evidenti, tendono ciclicamente a riproporre il problema nei suoi termini essenziali. Quando, ad esempio, alla fine degli anni settanta, stava esaurendosi il ciclo che nel decennio precedente, tramite keynesismo, teoria critica dell’economia politica, sraffismo, aveva messo sulla difensiva la teoria neoclassica ed aveva saldamente riaffermato il legame storia-teoria, il mutamento del clima veniva annunciato da un nuovo allentarsi di quel legame. La divaricazione su questo punto coinvolgeva anche gli economisti di «sinistra». Di fronte ad un Augusto Graziani che aveva spiegato la crisi delle teorie marginalistiche in Italia a partire dai primissimi anni sessanta con un «profondo rivolgimento economico e sociale [che] impone una revisione della teoria tradizionale», Michele Salvati considerava «insostenibile» il nesso posto da Graziani tra «mondo della storia e mondo delle teorie». Quanto radicale fosse la rottura epistemologica sul rapporto storia-teoria lo si può bene comprendere dalla durissima reazione di Graziani:

Siccome una teoria altro non è se non il tentativo di dare una sistemazione concettuale a un insieme di fatti, mi sembra immediato dedurne che l’evolversi della storia sia la matrice da cui gli sviluppi teorici traggono alimento. (…) Io, nell’interpretare una situazione, mi attengo al concreto e faccio attenzione alla base materiale che regge le strutture produttive e che sostiene i gruppi sociali; Salvati parte dalla cultura. Per me la storia è una concatenazione di eventi concreti; per Salvati è l’estrinsecazione progressiva dello spirito universale».

Al di là delle punte si asprezza polemica per molti versi inusuali nel dibattito scientifico e che testimoniano nello specifico il senso acuto di una crisi, di un punto di svolta, le manifestazioni del tornante sono evidenti. Iniziava il percorso inverso rispetto a quello che quasi trent’anni prima aveva intrapreso uno studioso che aveva fatto le sue prime prove proprio nell’ambito della dimensione analitica della teoria. Poi la «lettura di Marx» gli aveva fatto capire che «non ci si poteva limitare a fare ‘analisi’ economica, in quanto avrebbe significato recingersi all’interno di uno spazio autolimitante. Bisognava insomma uscirne e passare alla storia. È Marx che fa passare alla storia, ed è attraverso la storia che si arriva a Marx».

Credo sia necessario riflettere sulle temporalità pressoché coeve delle crisi epistemologiche, dei mutamenti di paradigma, che in qualche caso si manifestano come ritorni a precedenti apparati di «scienza normale», apparati che erano sembrati, una volta, come superati. In quella seconda metà degli anni settanta la storia inizia il viaggio che l’avrebbe portata dalla ricerca di sicurezze nella «scienza», au bord de la falaise. Eppure appena pochissimo tempo prima si considerava punto d’arrivo non reversibile una «storia scientifica», radicata nella dimensione di quella «scienza economica» che aveva sviluppato «con molto anticipo rispetto alle altre scienze sociali, un corpus teorico organico». E quanto si era poco profeti nell’affermare:

«Il risultato è che la storia va facendosi qualcosa di molto più sofisticato; ed è difficile credere alla possibilità di un rovesciamento di tendenza. Se il grande pubblico è ancora attirato dall’arte, dalla retorica, e dall’abilità verbale, lo storico professionale invece ne diffida»

Nella teoria economica il paradigma neoclassico veniva superando il precedente e critico ciclo, sebbene vi fossero ancora difficoltà di percezione del fenomeno . E ciò favoriva la coniugazione di storia economica con cliometria, e di storia del pensiero economico con storia dell’analisi.
Ed insieme l’esplosione (il percorso era già iniziato) della «nuova sociologia» che si collocava «all’interno di un profondo mutamento epistemologico, centrato sull’emergere delle pratiche rispetto alle strutture» . Gli effetti sulla «storia strutturale» ne risultano evidenti, simbiotici con quelli del geertzismo.
È possibile spiegare la contemporaneità di questo insieme di mutamenti epistemologici senza analisi di «storia strutturale»? È possibile spiegare il ciclo inverso di vent’anni prima con la comparsa provvidenziale nel 1960 del raffinatissimo, teoreticamente densissimo, apparentemente asettico, Produzione di merci a mezzo merci di Piero Sraffa, e de Il capitale nelle teorie della distribuzione di Pierangelo Garegnani?

Dimensione «strutturale» e dimensione «culturale» (anche la cultura, del resto, ha una sua dimensione strutturale insieme all’economico ed al sociale) sono strettamente intrecciate. Le spiegazioni monodimensionali di mutamenti plurali di paradigma sono affatto insoddisfacenti. Anche quelle appiattite sull’economico. Ne può venire fuori, e ne è spesso venuta fuori, «robaccia incredibile», per dirla con Federico Engels.

3) «La pratica di rileggere la storia sotto un’ottica ideologica e di utilizzarne i risultati a scopi politici – esemplificata dal dibattito Romeo-Sereni sul ruolo dell’agricoltura nel processo di sviluppo – ha lasciato il campo ad approcci molto più obiettivi. I temi di ricerca, una volta dominati da argomentazioni sociopolitiche, sono adesso guidati nella stessa misura (se non addirittura in misura maggiore) da domande di natura economica».

Così in un recentissimo volume in cui si rivendica la professionalizzazione della disciplina, tramite cliometria ed economia pura, di contro alla tradizione degli storici economici compiutamente storici.
A parte la scarsa consapevolezza storica di chi riduce sostanzialmente il dibattito Sereni-Romeo alla sola dimensione politico-ideologica, gli autori ritengono di avere certezze riguardo all’essenza delle «domande economiche». Non c’è dubbio che se la storia economica altro non è che neoclassicismo retrospettivo, tramite cliometria e quantitativismo considerati strumenti esaustivi, è relativamente facile porre «domande di natura economica».
Su questo esiste però una letteratura controversistica non esaustiva. Che cosa sia una «domanda di natura economica non è, insomma, né condiviso, né naturale.
Un grande storico economico americano, David Landes, sostiene che i cliometrici «devoti all’economia (neo)classica» di fronte ad una crescita industriale del 3 per cento annuo non sanno porre interrogativi quali: «Cosa è lento? Cosa è veloce? Cosa è grande? Cosa è piccolo? A cosa è importante dare significato: livello o trend? Aggregati o i fulcri del cambiamento?».
Domande di senso storico appunto.

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