ARCADIA E APOCALISSE. Il rifiuto della modernità

ARCADIA E APOCALISSE. Il rifiuto della modernità

Moderni ed anti-moderni

di Nunziante Mastrolia   >

 

C’è un elemento paradossale nella fase storica che stiamo vivendo. Da una parte la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, prodotto delle libertà occidentali, ogni giorno fanno registrare un insieme di trionfi sempre più sbalorditivi, celebrando così quell’homo faber che è il perno intorno a cui ruota la società aperta. Dall’altra si infittiscono nei paesi di più antica civiltà, dalla Francia all’Olanda, dalla Germania all’Italia, fino al caso clamoroso degli Stati Uniti con la vittoria di Trump, non solo gli appelli identitari, che in alcuni casi hanno forti connotazioni razziste, ma anche l’evocazione di un passato più o meno remoto di maggiore benessere, tranquillità, pace, vale a dire un sguardo rivolto al passato che poco ha a che fare con l’essenza delle società aperte.

Pubblichiamo l’Introduzione di Nunziante Mastrolia al libro di Giuseppe Gagliano, ARCADIA E APOCALISSE. Il rifiuto della modernità nella interpretazione di Paolo Rossi e Luciano Pellicani, Licosia edizioni, 2017.

L’essenza della società tradizionale è, infatti, basata sul fatto che: «il domani sarà identico all’ieri». In questo senso, assai utile è il riferimento che Gagliano fa a Pasolini che vagheggia un mondo «paesano, familiare e accogliente come un grembo materno», dove sì c’erano le lucciole, ma la vita media si aggirava intorno ai quarant’anni e si moriva per un morbillo.

All’opposto, per la società moderna: «il processo di uscita dalla religione – come scrive Gauchet – è passato attraverso il ribaltamento dell’orientamento temporale dell’attività collettiva. All’opposto rispetto all’obbedienza incondizionata al passato fondatore, la storicità dei moderni proietta l’umanità in avanti, nell’invenzione dell’avvenire. All’autorità dell’origine, fonte dell’ordine immutabile chiamato a regnare tra gli uomini, sostituisce l’auto-costituzione del mondo umano nella durata, in direzione del futuro»[1].

In sintesi, mentre la società aperta proiettata sul futuro celebra i suoi trionfi, al suo interno ribollono paure, istinti pulsioni di segno diametralmente opposto, con lo sguardo rivolo al passato, alla ricerca di un mondo che non c’è più (e forse non c’è mai stato) cosa che è tipica di quelle società chiuse che sul passato e sul culto della tradizione si reggono.

Quale delle due tendenza – e cioè il continuo trionfo delle società aperte occidentali o la loro involuzione verso la società chiusa – alla fine prevarrà è difficile a dirsi. Tutto dipende dal modo in cui si riuscirà a placare le ansie e le paure delle masse occidentali che stanno lentamente perdendo la fede nelle magnifiche sorti e progressive dell’homo faber o, meglio, la fede in quell’umanesimo che sull’idea di un costante progresso ha costruito la fede pubblica della società aperta.

La battaglia tra le due tendenze è in corso. Ed è proprio nell’ottica di questo scontro dall’esito incerto che deve inquadrarsi il lavoro di Giuseppe Gagliano, il cui merito principale è quello – sulla scorta delle riflessioni di Paolo Rossi e Luciano Pellicani – di individuare le categorie necessaria a definire quali sono i nemici della modernità e a stilare un elenco di questi “cattivi maestri” che si ergono a fieri, e per ora (per fortuna) perdenti, avversari della modernità e della società aperta che del processo di modernizzazione è il prodotto[2].

Affrontare la questione dei “cattivi maestri” è di importanza capitale, perché consente spiegare le ragioni per le quali un numero più o meno ampio intellettuali continui a criticare ferocemente quella società moderna che per i suoi successi, basti pensare alla pressoché totale scomparsa di epidemie e carestie e al costante allungamento della vita media, dovrebbe riempiere di orgoglio ogni suo componente[3].

Prima di procedere oltre dunque è necessario cercare di definire il concetto di modernizzazione, chiarendo prima cosa essa non è.

In primo luogo, la modernizzazione non è, o meglio non è soltanto industrializzazione, né si riduce al concetto di razionalizzazione, né alla burocratizzazione. Se la modernizzazione fosse solo quello «è chiaro che – le parole sono di Pellicani – la Modernità risulte[rebbe] essere tutt’al più una Zivilisation non già una Kultur»[4].

Al contrario, la Modernità «è stata – e continua ad essere – una “civiltà dei diritti e delle libertà”; anzi “l’unica civiltà dei diritti e delle libertà” che sia stata finora costruita»[5].

Ciò vuol dire che «modernizzazione e industrializzazione non sono affatto termini equivalenti. L’Industrializzazione è solo una delle dimensioni della modernizzazione. Certamente grazie all’industrializzazione la Modernità ha potuto dilavare in ogni dove e diventare una civiltà a vocazione planetaria che, con la smisurata potenza radioattiva, ha aggredito il codice genetico delle “culture altre”. Ma, altrettanto certamente, l’industrializzazione non ha generato la modernizzazione, bensì, tutto il contrario, è stata da essa generata. Solo in quanto è riuscita a frantumare le barriere politiche e religiose della società chiusa, l’Europa occidentale ha potuto imboccare la via dell’industrializzazione, la quale altro non è stata che lo spettacolare sviluppo di un processo storico iniziato nel Basso Medioevo, quando la rivoluzione comunale, spezzando il dominio signorile e facendo riemergere la città-stato, offrì alla proto borghesia la chance di montare e mettere in moto la macchina dell’economia di mercato»[6]. Non a caso: «alcuni tratti tipici della modernità – primi fra tutti l’individualismo e la secolarizzazione – sono emersi in un’epoca storica precedente la nascita della scienza e della tecnologia newtoniane. Di più: sono stati proprio tali tratti i fattori del prodigioso sviluppo del know-how che ha reso possibile la Grande Trasformazione»[7].

Dunque, per modernizzazione deve intendersi quel processo politico che ha ridotto e circoscritto il potere assoluto, imbrigliandolo con una serie di norme. Così facendo ha aperto degli spazi ad una serie di sottoinsiemi, dal mercato alla società civile, che con il tempo hanno progressivamente ampliato e rinsaldato la propria spera di autonomia a petto del potere statuale, all’interno della quale gli individui hanno potuto dare avvio all’esplorazione dell’universo dei possibili[8] e attraverso quell’abito mentale tipico delle società aperte che è la tradizione dell’anti-tradizione generare uno sviluppo economico e un progresso sociale che non ha precedenti nella storia.