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Emanuele Coccia. La vie des plantes. Une métaphysique du mélange
di Lisa Ginzburg >
Non è comune imbattersi in un saggio filosofico che possieda l’ampiezza di struttura, il nitore formale e l’andamento catturante di una narrazione. La lettura de La vie des plantes [La vie des plantes: une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, 2016] di Emanuele Coccia, filosofo italiano di meritata notorietà internazionale, colpisce per questo motivo in primo luogo. Come limpidi si amalgamano stile e impianto, e quanto fluido è il ragionare. In polemica con una concezione settoriale del pensiero (“la filosofia è ciò che il sapere umano diventa, una volta riconosciuto che non esiste nessuna disciplina possibile, né morale né epistemologica”), progressivamente, per volute argomentative via via più ampie, ariose, convincenti, Coccia orienta la riflessione sul mondo vegetale verso una più generale – e rivoluzionaria – ipotesi di lettura del mondo. Mondo inteso come “atmosfera” (“la filosofia è atmosferica, poiché la verità esiste sempre sotto forma di atmosfera”). Mondo pensato come rete di relazioni tra gli esseri, secondo un interagire dove esce di scena il sopruso – quel rapporto di forza pensato dalla specie umana altrettanto che da quella animale come solo fronteggiamento possibile. Ed ecco una diversa cosmogonia articolarsi: un universo di viventi nel quale reciproca violenza, agonismo, paura del contatto, tutto si vanifica. Per lasciar posto a una dimensione al cui centro invece, modello paradigmatico di forme di esistenza più vitali, salutari, in accordo con la natura, ci sono le piante.
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Le piante, sì. Foglie, fusti, radici, fiori. Le piante che inspirano ed espirano l’aria attorno, intanto rendendosene parte. Che “fanno mondo” immergendosi nel flusso del reale – e proprio in quell’immersione, Coccia argomenta, si trova la forma di mutuo rapporto più legittima, appropriata, consona alla realtà. Perché come le piante, noi anche siamo, esistiamo, respirando. Come loro, è respirando che ci rispettiamo l’un l’altro: mescolandoci, secondo sussulti di una continua osmosi che nondimeno preserva ciascuno lasciandogli margine di rimanere se stesso. Di questa solidarietà originaria, partecipazione a qualcosa di totalmente collettivo quanto assolutamente individuale, di questo principio (metafisico prima che esistenziale) mai davvero preso in considerazione dal pensiero occidentale, il libro racconta.
La vita è “soffio”, respiro, (quel pneuma che nel pensiero degli Stoici arriva a coincidere con lo spirito); è sincronizzandosi con il ritmo di tale respiro, che il vivere trova (o ritrova) senso, posizione, ragione. Tutto si sfiora e si compenetra, ogni cosa si ingloba reciprocamente, in un incessante inspirare e subito poi tornare a sé, dentro sé, alla propria singolarità, uno spazio intimo nel quale ecco convergere mondi altrui, le “vite degli altri”. Da tale osmosi, che nulla ha di simbiotico ma tutto di comunitario, noi proveniamo. A quella sarebbe saggio (o imperativo, a seconda dei punti di vista) saper fare ritorno. Senza rischio di smarrirsi, poiché tra gli esseri, in mezzo a loro, permane la materia, un magma che mai può dividere davvero nella misura in cui è composto di tutti gli organismi viventi: del loro respirare. Ecco l’evidenza che le piante, con il loro silenzioso, inoffensivo, inesauribile ossigenarsi e ossigenare, intendono trasmetterci. Il valore dell’essere fluidamente tutti connessi al resto dell’atmosfera. Senza perciò temere di venire invasi da niente e nessuno (nessun “prossimo”), poiché anche di quel prossimo siamo composti, nello stesso momento in cui noi pure contribuiamo alla sua composizione.
Mentre d’un fiato (per l’appunto) leggevo questo libro insolito e intenso, ho immaginato interesserebbe al Dalai Lama. Il puntuale percorso teoretico che vi viene intrapreso, spaziando tra capisaldi della filosofia occidentale arriva a conclusioni prossime a concetti chiave del buddismo (quello di “interconnessione” in primis). Riflettevo anche su come, parlando di vegetali, Emanuele Coccia ci dica anche molto sulla nostra contemporaneità di umani. Compulsivamente tesi a comunicare, interagire, affannosamente informarci e “farci un’idea”, là dove si tratterebbe di sentire il nostro essere connessi (in senso vero, altro che virtuale), gli uni agli altri tanto quanto all’atmosfera. Senza più necessità di eccedere, se non nell’invenzione di nuovi paradigmi di accoglienza. Noi, ancorati alla terra, pronti a distrarci con oroscopi e altre predizioni, là dove sarebbe saggio ampliare gli orizzonti della mente, allenarla a una visione metafisica “astrale”, dove la terra è solo astro tra gli astri, poiché tutto non è che cielo. Cielo e respiro.
Di “tesi strabiliante” parlava a ragione Michele Spanò, commentando su questo stesso giornale un altro libro di Emanuele Coccia. Strabiliante sa essere un pensiero quando arriva al nucleo di verità che ci riguardano da vicino. Oggi, in questo mondo farneticante, saturo di comunicazione, ammalato di terrore degli scambi umani, raccontando di piante e di astri, di terra e di cielo, di fluidità e di immersione, Emanuele Coccia arriva con le sue parole a tutti. La sua prosa filosofica è generosa, possiede “anima ed esattezza”, per dirla con Musil. E di più: tra le righe, La vie des plantes sembra suggerire un diverso modo di stare al mondo. Utilizzando criteri vitali più vasti, e decisivi, di quelli del mero abitare la terra.
Rasserena, leggere un libro così. Mitiga almeno per un tempo lo smarrimento solitario di chi quasi mai vede opporre all’entropia montante la scelta morale di coltivare invece l’empatia, la mitezza. Contro la fretta, l’approssimazione, l’intasamento mentale che imperano su questi tempi, avvelenandoli, preferire piuttosto volgere uno sguardo misurato ma fervido al cielo o alla quiete del verde, che entrambi mai sono scomposti, e mai precipitosi.”