Alfred Ayer apre il suo celebre librino ‘Bilancio filosofico’ con…
Gérald Bronner, La democrazia dei creduloni, di Gianluca Frattini
Populismo. Complottismo. Fake News. Ma anche Effetto Dunning-Kruger ed Effetto Flynn capovolto.
Espressioni che da qualche anno sono assolute protagoniste del dibatto pubblico e anche privato, grazie soprattutto a fenomeni disruptive come la Brexit, il Trumpismo, ed oggi, nell’epoca della pandemia di Covid, con gli infiniti dibattiti che ne sono conseguiti. Espressioni dietro le quali si trovano fenomeni complessi le cui cause, conseguenze e persino i confini, sono tutt’altro che chiari (e ancor meno condivisi).
Tra i tanti che hanno cercato di indagare e dare un senso, un ordine, a questi fenomeni, troviamo il sociologo francese Gérald Bronner, che nel 2013 – quindi ben prima degli eventi sopracitati – ha pubblicato il suo La democrazia dei creduloni (tradotto in italiano da Silvia Morante nel 2016 per la Casa editrice Aracne di Roma).
La tesi del libro è che le nostre società, almeno quelle liberali, siano appunto diventate delle democrazie costituite da creduloni, dove il falso corre più velocemente e con meno difficoltà rispetto al vero, la competenza non è tenuta nella giusta considerazione e il timore irrazionale frena qualsiasi spinta di progresso.
Fin qui potrebbe essere un qualsiasi rant su di un social, se non fosse accompagnato da una disamina delle ragioni dietro a questa involuzione.
Le ragioni per Bronner sono tre, e si rinforzano l’un l’altra.
La prima è legata alla nostra mente, a come funziona il nostro pensiero. Già Kahneman e Tversky, ci hanno mostrato negli ultimi 40 anni come ognuno di noi sia affetto da bias cognitivi e faccia ricorso a euristiche per risolvere problemi comuni. Bronner ci dà ulteriori prove che il nostro pensiero è proprio pigro. Alcune di queste “scorciatoie” mentali ci aiutano a sopravvivere con facilità nella nostra vita quotidiana, sono addirittura essenziali, ma se applicate ai problemi complessi che la società moderna e iperconnessa pone, possono essere esiziali, conducendoci ad interpretazioni, e quindi a scelte, individuali e collettive sbagliate. Bronner, riportando anche suoi esperimenti fatti con propri studenti, pone enfasi su quanto esistano incentivi perversi a investire poco nella ricerca di informazione corrette, mentre ce ne siano molti per i propalatori di bufale a investire di più per diffonderle (ad esempio, L’Effetto Fort, quello che un blogger di una decina di anni fa chiamava La teoria della montagna di m*rda).
Ma la natura umana, ovviamente, non può spiegare la crescita recente di un fenomeno. Un secondo fattore è il mercato dei media o, come lui chiama, “il mercato cognitivo”. Soprattutto dagli anni ’80, l’offerta mediatica è esplosa, con la liberalizzazione delle frequenze audio e video, che ha aumentato la concorrenza dei media outlet. Dalla fine dei ’90 poi si è aggiunto internet. Tutto ciò, se per sé è un bene, essendo la varietà di fonti dell’informazione la colonna vertebrale della democrazia liberale, superato un certo livello diviene un problema di calcificazione dell’intero corpo sociale. Con questa pletora di concorrenza, professionale e no, ogni media si ritrova nella situazione del dilemma del prigioniero, per cui o pubblichi o sei morto, perché altrimenti lo farà qualcun’altro. E quindi ogni remora e necessità di controllo dell’informazione va a farsi benedire. Publish or perish. “++CLAMOROSO++” “ECCO COSA È SUCCESSO!!” “SI VEDE TUTTO” “ALIENO MORDE CANE CHE MORDE UOMO!”.
Infine, la parte forse più controversa della tesi di Bronner: chiediamo troppa democrazia. Attenzione, non si piangono lacrime di nostalgia per “quando c’era lui” o per modelli autocratici sperimentati nello spazio e nel tempo. Ciò che si lamenta è la pretesa di estendere il sistema democratico là dove invece ciò che dovrebbe guidare il processo, prima conoscitivo, e poi decisionale, è la competenza e, soprattutto il metodo, quello scientifico. Con teoria e pratica si cerca di confutare un’ipotesi (si va da Condorcet a Surowiecki) per cui “più un’assemblea è vasta e più è probabile che raggiunga una soluzione deliberativa valida”. La soluzione di ogni problema, persino tecnico, diviene “più democrazia!”, se diretta anche meglio. In realtà, probabile invece che la moltitudine si faccia condizionare verso una scelta sbagliata, e nessuna “saggezza della folla” si materializzi.
Bonner mette in guardia da chi crede che questi errori, queste fallacie, questo pensiero cospirativo e magico in cui si cade, sia frutto di poca istruzione, e colpisca solo certuni di noi, quelli meno colti. No, anzi: spesso è chi è istruito a esserne vittima, perché un’istruzione generalista e un po’ di informazione raccattata qua e là può condurre a un falso senso di sicurezza, conoscenza, fino a sicumera e arroganza nei casi di certi professionisti con competenze squisitamente verticali.
La soluzione? Non potendo modificare a piacimento la nostra mente, né volendo abbracciare derive autoritarie (aggiungo io: tecnocratiche), le uniche due soluzioni sono:
– una migliore istruzione, non in termini di nozioni, ma di educazione ed esercizio alla lotta a fallacie e bias, nostri e altrui, da portare avanti sin dai primi anni di scuola, fino alla formazione superiore.
– Un maggiore controllo tra pari nell’ambito dell’informazione, che responsabilizzi efficacemente i professionisti del settore.
Ha Ragione il professor Bronner? In gran parte sì. Le teorie esposte non sono originali, tutt’altro, ma la loro combinazione, l’idea che lo sfilacciamento democratico sia la somma di un fenomeno quasi biologico, uno di mercato e uno squisitamente politico, in un circolo vizioso che si alimenta, è sicuramente ben costruita e convincente. Il fatto che sia stata formulata diversi anni prima che alcuni dei sintomi più virulenti (in tutti i sensi) di questa degenerazione si presentassero, è indicativo della capacità predittiva della teoria.
Forse, difetta il suo eccessivo accanirsi contro il principio di precauzione che, se spesso è sì un ostacolo a formidabili progressi tecnici e sociali, altrettanto sovente ci ha aiutato a prevenire disastri dei quali non abbiamo potuto avere cognizione, perché non avveratisi. Anche la sfiducia per le capacità collettive di creare conoscenza (chiamiamole hive mind) tramite collaborazione, non solo per mezzo di condivisione di strumenti, è forse eccessiva. Un esempio è Wikipedia, di cui il professore sembrerebbe avere non eccessiva stima.
L’ultima nota, questa volta negativa, per un testo che io trovo utile da leggere per la comprensione di una realtà dalla quale non possiamo fuggire, mi permetto di farla alla casa editrice italiana. Un libro che esarca gli errori cognitivi e la cattiva informazione necessiterebbe di un controllo più rigoroso prima della pubblicazione: il libro è colmo non solo di refusi, ma anche di veri errori sesquipedali (“paraidolia”? “astrologhi”?! “il motore di ricerca Google Chrome”??!). La credibilità di una fonte, la sua autorevolezza, come ci spiega Gérald Bonne, è l’unico appiglio al quale aggrapparci.