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Kant, Königsberg e il mondo. Appunti per un rescaling della storia delle idee
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Kant[1], Königsberg e il mondo. Appunti per un rescaling della storia delle idee
Introduzione
Nel 1989 cadeva il Muro di Berlino e all’esperienza di una singola città faceva eco un cambiamento epocale nel modo di percepire le geografie politiche e culturali dell’Occidente. Lo stesso anno, dall’altra parte dell’Atlantico, il geografo Edward Wiliam Soja coniava il termine spatial turn, prefigurando un riassesto dell’intero campo delle scienze umane e sociali, da allora più sensibili al modello che realizza e dà forma allo spazio nel legame tra conoscenza e potere, teoria e prassi[2]. Entrambi questi avvenimenti, per quanto di natura e portata differente, hanno segnato una svolta nel modo di analizzare e interpretare i segni della spazialità. Il primo, in riferimento alla misura europea delle nostre istituzioni e del nostro vivere comune, ha avviato una ristrutturazione sociale e politica sostenuta dal movimento sovrapposto di differenti interessi spaziali – locali, statuali, macro-regionali, continentali, mondiali. Il secondo, in riferimento ai temi e ai metodi della ricerca sociale, ha spinto gli studiosi a interrogarsi sull’origine geografica della modernità sulla base della “consapevolezza epistemologica di un’ontologia peculiare che l’essere umano sulla terra fonda in ragione di un agire territoriale stimolato da bisogni, tecniche, sentimenti, visioni, istituzioni”[3]. La coincidenza di questi due eventi, un caso di affinità quasi elettiva tra due episodi slegati tra loro, costituisce lo spunto immaginativo da cui scaturiscono le seguenti riflessioni. Si tratta per lo più di considerazioni preliminari che, seguendo le linee di lavoro tracciata da Soja, guardano alle trasformazioni di scala e alle dinamiche della globalizzazione come un fatto irrinunciabile per la comprensione del pensiero occidentale e del suo modo di esprimersi in termini filosofici. Un lavoro introduttivo, dunque, che sollecita dinamiche di attraversamento transdisciplinare che eludano “l’occhiuta vigilanza delle guardie confinarie delle discipline accademiche tradizionali”[4].
La tesi di partenza di quanti, dopo il 1989, hanno iniziato a sondare le potenzialità euristiche del paradigma spaziale, si lascia riassumere nell’idea che lo spazio e l’immaginazione spaziale rappresentino i candidati più accreditati per sostituire i modelli temporali dello storicismo che dominavano la cultura del XIX secolo[5]. Se la globalizzazione decretata la morte della distanza e ridisegna reticolarità spaziali complesse, “la geografia acquista una nuova rilevanza strategica, che va ben oltre i suoi tradizionali confini disciplinari”[6]. Tale intreccio di saperi ha attivato nuove linee di riflessione, alimentando l’apertura di nuovi campi teorici inediti, accomunati dalla convinzione che lo spazio non sia un “mero riflesso passivo delle tendenze sociali e culturali”[7], ma un loro fattore costitutivo. Gli approcci teorico-metodologici che hanno sostenuto tale sconfinamento, sono stati etichettati nel corso degli ultimi trent’anni sotto il nome di pensiero postmoderno, poststrutturalista, altri come pensiero critico; e, non di rado, come nuove visioni soggettivistiche o costruttivistiche. Quale che sia la loro denominazione, è oggi accertato che le ramificazioni teoriche attraverso cui si è cercato di far parlare lo spazio, costituiscono, nel loro complesso, una “finestra di collegamento transdisciplinare”[8] indispensabile per interpretare il presente. L’unica, capace di dar conto dei mutamenti intervenuti nel nostro modo di tracciare limiti, definire identità, cittadinanze o rappresentazioni di territori.
Uno dei potenziali contesti di dialogo, vitali per le scienze umane e la geografia stricto sensu, riguarda la storia delle idee. Infatti, ora che il tempo pare perdere il suo primato rispetto allo spatial thinking, anche la storia delle idee, disciplina tradizionalmente accompagnata da una visione essenzialmente temporale del processo storico, è in cerca di nuovi approdi per le sue metodologie. Ciò verso cui si tende è uno “spostamento laterale”[9] delle categorie esplicative, che assegni allo storico del pensiero un posto privilegiato da cui corrispondere all’urgenza, ormai condivisa, di comprendere le civiltà e il loro sviluppo in termini spaziali.
Anche la conoscenza possiede una geografia
Il punto di partenza di ogni approccio geo-orientato alla storia delle idee è l’affermazione del filosofo statunitense Edward Casey che non vi è “luogo senza soggetto” e che “non vi è soggetto senza luogo”[10]. Così sembra ritenere lo storico John Robertson, per il quale “il senso del luogo è necessario alla comprensione storica – perfino alla comprensione delle idee – quanto il senso del tempo”[11]. Tuttavia, come proverò ad argomentare, tale affermazione non costituisce la sua conclusione, visto che in geografia “il fattore veramente dirimente è il luogo nel suo rapporto con lo spazio”[12].
David Livingstone è forse l’autore che, nella tradizione anglosassone, si è maggiormente occupato di evidenziare gli effetti che la svolta spaziale ha avuto sulle metodologie di studio dei concetti scientifici. Il suo lavoro può essere un utile termine di paragone per indagare in che modo la tematizzazione del rapporto tra luogo e spazio favorisca un riorientamento della Intellectual History e delle sue metodologie. In Putting Science in its Place, opera che porta il suggestivo sottotitolo Geographies of Scientific Knowledge, Livingstone individua il motivo di fondo di questa nuova proposta teorica nella convinzione che la scienza possieda una geografia. A favorire un tale ripensamento delle categorie d’analisi, è il passaggio da una “view from nowhere”, caratteristica di quella concezione dominante che vuole la conoscenza disincarnata e oggettiva, a una “view from somewhere”[13]. Una rivoluzione prospettica, insieme teorica e lessicale, che valuta essenziale per l’acquisizione e la diffusione delle idee scientifiche la loro ambientazione spaziale. In altre parole, nella lettura di Livingstone, lo storico non può evitare di interrogarsi sulla fondamentale connessione che si realizza tra “posizione (location) e locuzione (locution)”[14]; né può tralasciare di considerare la dipendenza della ricerca scientifica dalle pratiche di archiviazione e trasmissione della conoscenza. Un complesso di fenomeni che apre ulteriormente il campo di analisi ai processi di negoziazione, traslazione, de-territorializzazione e ri-territorializzazione che avvengono dentro e fuori lo spazio culturale di riferimento. Infatti, secondo il geografo britannico Derek Gregory, la geografia “produce l’effetto che nomina”[15] e non può quindi essere relegata al ruolo subalterno a cui l’aveva confinata una visione despazializzante del processo storico. Al contrario, la sua peculiarità è di essere un’attività poietica che insieme dà forma, scrive e organizza il nostro modo di percepire il mondo. Uno schema onomastico che muta senso allo spazio a seconda dello sguardo che lo battezza, dando forma alle opposizioni culturali (barbaro/civilizzato[16]) o cardinali (Oriente/Occidente) su cui ciascuna cultura fonda la propria identità. Sia che essa tenti di superare tali opposizioni, sia che, invece, cerchi di radicalizzarle, come avvenne in epoca nazista per la mistica del Blut und Boden[17].
Da questi brevi cenni possiamo avanzare qualche considerazione, utile a recuperare le traiettorie di un discorso qui solo abbozzato. Anzitutto, il fatto che la dimensione spaziale di un’idea o di un concetto, qualunque sia la sua filiazione disciplinare, deve essere esaminata considerando il modo in cui un determinato soggetto culturale definisce la sua ubicazione nell’ambiente circostante in base a concetti spaziali. Quindi fare riferimento a una svolta spaziale nella storia delle idee significa dare peso alle trasformazioni inerenti alle costruzioni immaginative che animano la nostra coscienza geografica. Pensare la riconfigurazione geografica dei saperi in una prospettiva che non sia ingenuamente positivistica equivale a riconoscere che il luogo in cui le idee nascono, si sviluppano e sono trasmesse non può essere trattato indipendentemente dalle pratiche di strutturazione materiale e simbolica dello spazio che le contiene. Quello che si profila, dunque, è un campo teorico a dimensioni plurime che, anche alla luce dei mutamenti che investono la dimensione culturale dell’odierna società globale, diviene ancora più urgente esplorare.
La sfera globale e le trappole della scala nazionale
Territorio, autorità e diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, uno degli ultimi lavori della sociologa olandese Saskia Sassen pubblicati in Italia, si apre con una riflessione che ha valore programmatico per lo svolgimento dell’intera opera:
Stiamo vivendo una trasformazione epocale, che, per quanto ancora agli inizi, già mostra la sua potenza. Abbiamo chiamato questa trasformazione globalizzazione e molta attenzione è stata presentata all’emergere di un apparato di istituzioni e dinamiche globali. E tuttavia, se è veramente epocale, questa trasformazione deve coinvolgere l’architettura istituzionale più complessa che abbiamo mai prodotto: lo stato nazionale[18]
Lo sforzo euristico di questo libro è diretto, in prima istanza, a smarcarsi dagli inganni di chi postula una logica binaria di ragionamento pretendendo di spiegare x – in questo caso la globalizzazione – in termini di non–x – lo stato nazionale: una logica dominante nelle scienze sociali e particolarmente presente nella letteratura sulla globalizzazione, che va inesorabilmente incontro a quella che Sassen definisce la “trappola dell’endogenità”[19]. Per sfuggire ai vizi della two-way street, la sociologa olandese riprende e integra tesi già care agli amanti del lungo periodo come lo storico francese Fernand Braudel, per il quale “le grandi partite del presente sono state spesso giocate, vinte o perdute, nel passato”[20]. Ella inizia sostenendo che le trasformazioni organizzative che regolano i processi di globalizzazione non sono prodotti ex nihilo, ma il frutto di un lento e complesso processo di assemblaggio che taglia trasversalmente l’architettura spaziale e istituzionale interna dello Stato nazionale. La lente di ingrandimento della storia è dunque piegata verso un’“analitica del cambiamento” che sveli quelle “dinamiche di inversione” [21] che oscurano la dipendenza delle nuove formazioni globali dal loro lungo percorso di sviluppo. Il discorso che Sassen allestisce intorno ai cambiamenti globali riguarda tre strutture fondamentali assemblate in formazioni storiche particolari e a livelli variabili di formalizzazione. Nella sua lettura, territorio, autorità e diritti non sono semplici attributi, ma istituzionalizzazioni complesse, componenti metastoriche strategicamente embricate alla dimensione nazionale, ma capaci, al contempo, di innervare tipi diversi di scalarità (scalings). Ovvero, di produrre configurazioni economiche, politiche e culturali localizzate e costruite in termini nazionali, ma orientate verso agende e sistemi globali, che trascendono la concezione di crescente interdipendenza del mondo comunemente associata ai processi transnazionali.
La proposta di Sassen di superare la rigida dicotomia tra il livello locale/nazionale da un lato e la sfera globale dall’altro non è scevra di conseguenze. Ad essere in discussione sono almeno due dei principali assunti su cui poggia la corrente sociologia della globalizzazione. Primo, quello che, più o meno esplicitamente, dà per scontato che lo Stato nazione, territoriale e delimitato, sia il contenitore della società. Secondo, quello che presuppone la corrispondenza tra istituzione nazionale e territorio nazionale. Le obiezioni che Sassen muove agli assiomi del “nazionalismo metodologico”[22] sono il riflesso della crisi di quel modello esplicativo che Ulrich Beck chiama la teoria della “società come container”. Vale a dire, l’idea che le società siano perfettamente contenute entro “lo spazio di potenza dello Stato nazionale”[23]. In quest’ottica, la critica alla logica binaria che anima l’ontologia sociale territorialista diviene concreta e credibile solo se si ribalta la grammatica delle scienze umane e sociali: una rivoluzione nel modo di pensare, che per Beck è insieme “contenutistica, concettuale e metodologica”[24].
Secondo la felice formula del politologo e geografo inglese John Agnew, tale ribaltamento parte dal superamento della “trappola territoriale”[25], in cui cade chi, ammettendo la saldatura tra razionalità calcolativa e razionalità cartografica, innalza una concezione immobile del territorio nazionale a locus esclusivo per la comprensione della modernità affermando[26]. Nella lettura di Agnew, l’immagine astratta tradizionalmente attribuita allo schema di figurazione dello spazio statuale si dimostra inefficace a spiegare i flussi e i movimenti transnazionali che animano la formazione di uno spazio globale sempre più esteso e complesso, perché afferma una separazione netta e dicotomica tra ciò che è interno e ciò che è esterno allo Stato territoriale. Con maggiore impegno esplicativo, possiamo osservare che quando ci rifermiamo alla storia del concetto di territorio – come precondizione per la definizione dello spazio di pertinenza dello Stato nazionale – intendiamo di fatto un ordinamento che, fin dalla modernità, ha seguito uno schema di figurazione di tipo geometrico-cartografico. Una “tecnologia politica”[27], per cui ciò che ogni volta cade sotto il suo concetto e ne definisce la misura implica pratiche di mappatura legate al controllo e alla divisione sociale dello spazio. In una parola, “calculation”[28]. Tuttavia, un’analisi più approfondita della genesi dello Stato moderno che guardi al ruolo svolto dalle economie politiche imperiali, all’emergere di una scala planetaria, e all’importanza della scoperta di arene liquide di movimento esterne al controllo territoriale (come l’Oceano Atlantico), mette in luce la natura essenzialmente mobile e transcalare degli spazi e dei processi che hanno portato alla costruzione dello Stato territoriale nazionale. Sotto il profilo generale interrogarsi sulle reciproche implicanze di globalizzazione e Stato nazionale significa (anche) avviare una riflessione sulle pratiche e i dispositivi mediali che, nel corso della storia, hanno informato le diverse scalarità della nostra coscienza planetaria. Ovvero, sul modo in cui la mondializzazione si è andata intrecciando alla “produzione spaziale (cioè cartografica) della società”[29] – secondo la prospettiva rovesciata con cui il geografo Franco Farinelli intende il senso della lezione lefebvriana.
Riconoscere l’agire occulto della trappola territoriale e svelare i vizi che affettano il monocolo del nazionalismo metodologico – ammonisce Paolo Giaccaria in un recente saggio dedicato alla nozione geografica di confine – non implica la dismissione radicale del politico moderno[30]. Il fatto che si metta in discussione un certo paradigma cartografico legato al primato della scala nazionale, non può tradursi nella tendenza, caratteristica di una certa retorica globalista, di chi vuole il totale frangimento della territorialità moderna. Né può sfociare in una logica “a matrioska”[31], per cui gli oggetti di dimensioni maggiori devono contenere quelli di dimensioni minori. Al contrario, la crisi delle categorie spaziali moderne, allude all’urgenza di ripensare il portato simbolico e strumentale delle riduzioni scalari di cui la mappa è il modello. In quest’ottica riformata, suggerisce Angelo Turco, la transcalarità emerge come “la proprietà di uno stesso fenomeno di essere colto a più livelli scalari”[32]. In altri termini, come il crollo del Muro di Berlino e il tramonto dell’impero sovietico imposero “una collocazione del politico al di fuori del quadro categoriale dello Stato-nazione”[33] e il concorrente abbandono di un’idea di città pensata come contenitore materiale dei fatti sociali presunti locali, così le dinamiche trasformative che sottendono al fenomeno della globalizzazione sollecitano gli interpreti delle scienze umane e sociali a meditare su un possibile rescaling[34] dei propri strumenti d’analisi. Lo scopo è quello di mobilitare le pratiche attraverso cui la modernità ha espresso e definito la propria autocomprensione spaziale al fine di renderle disponibili a nuove genealogie e categorizzazioni. Infatti, a partire dall’esplosione generalizzata degli spazi, esito specifico dei processi entro cui le “relazioni tra scale geografiche vengono continuamente riconfigurate e ri-territorializzate”[35], diviene importante comprendere “a quale scala ci muoviamo, osserviamo, analizziamo”; e quale sia “il passaggio che può avvenire tra una scala e l’altra”[36]. Una sfida che, a ben guardare, coinvolge direttamente anche i più avveduti sostenitori dello spatial turn, chiamati a discutere sul significato da attribuire alla mescolanza di scale territoriali diverse per la riconfigurazione spaziale dei saperi e la decodificazione dei fenomeni sociali nei loro ambiti di dispiegamento.
Ecco il punto che siamo interessati a trattare: delineare un approccio geo-orientato alla storia delle idee attraverso una mirata considerazione della loro dimensione spaziale, e soprattutto dei processi di riconfigurazione e ri-territorializzazione che informano la loro geografia. Un piano di lavoro che trova nell’età dell’Illuminismo, forse il primo fenomeno della cultura occidentale ad essere contemporaneamente “nazionale e locale e internazionale”[37], un banco di prova esemplare. Con l’intento di abbozzare un esame delle implicazioni tra il processo di mondializzazione e l’emersione di scalarità miste, analizzeremo in particolare la figura di Kant e il ruolo che l’immagine del mondo ha avuto per la formazione del pensiero del suo pensiero. In una simile direzione si muovono già i lavori di importanti storici della geografia, accomunati dalla convinzione che l’Illuminismo e l’attitudine “ad aprirsi verso il mondo”[38] coltivata dai filosofi cosmopoliti, trovino perfetta espressione nelle idee del filosofo tedesco. Al punto che la sua produzione intellettuale può essere considerata una delle migliori illustrazioni di come i processi di esplorazione globale e navigazione oceanica favorirono nuove forme di “consapevolezza planetaria” e “coscienza geo-letteraria” [39].
Königsberg, una finestra sul mondo
Mappare la dimensione spaziale del pensiero kantiano sembrerebbe un’impresa all’apparenza semplice, considerando che, fatta eccezione per il periodo da precettore trascorso nella vicina cittadina di Judtschen, Kant non si è mai allontanato da casa se non per poche miglia. Eppure, un simile approccio inciampa nelle stesse parole dell’autore dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico, che, nella Prefazione, fornisce chiare indicazioni sulle motivazioni geografiche della sua lunga sedentarietà:
Una grande città, centro di uno Stato, dove si trovano i consigli locali di governo, che possiede un’università (per la cultura scientifica) ed è anche sede del commercio marittimo, che per mezzo di fiumi favorisce il traffico dall’interno e coi paesi finitimi e lontani di diverse lingue e costumi, una tal città, come è ad esempio Königsberg sul Pregel, può essere presa come sede adatta per l’ampliamento della conoscenza dell’uomo e per la conoscenza del mondo, la quale vi può essere acquistata anche senza viaggiare[40].
Come dimostra efficacemente questa notazione, per Kant Königsberg ben incarna il modello urbano illuminista. Diverse misure spaziali confluiscono a riconfigurare la territorialità della città portuale prussiana trasformando una dimensione essenzialmente locale in una dimensione, di fatto, mondiale. Senza che Kant abbia bisogno di viaggiare, le istituzioni politiche della città, le sue accademie, le vie di comunicazione terrestri e marittime, la varietà sociale e la diversità di lingue che è possibile incontrare, gli garantiscono la giusta conoscenza del “teatro sul quale si svolge il gioco delle nostre abilità”; quel “suolo sul quale possono essere acquisite a applicate le nostre conoscenze”[41]. Con una certa approssimazione potremmo dire che in questo passo, si concretizzano almeno due modi distinti di guardare allo spazio della città. Il primo, fattuale e circoscritto[42], legato all’evidenza sensoriale del luogo vissuto e conosciuto da Kant. Il secondo, aperto e immaginario, simbolo di libertà e motivo di aspirazioni, uno spazio-mondo che raccoglie in sé i movimenti di merci, culture, e comportamenti, nel dispiegarsi di quelle spazialità multiple e transcalari che caratterizzano la compenetrazione del fenomeno urbano con i processi di mondializzazione. Da questo punto di vista, le oscillazioni referenziali tra il luogo-Königsberg e lo spazio-mondo, arricchiscono il ragionamento sulla dimensione spaziale del pensiero kantiano, imponendo di ripensare la sua geografia in una prospettiva diversa dalla semplice descrizione dei luoghi visitati da Kant.
Per usare un’espressione che il geografo americano Yi-Fu Tuan riprende da Cassirer, ogni esperienza umana è radicata alle condizioni locali del suo svolgersi, e al tempo stesso immersa in una visione olistica dello spazio, un’immagine mitica che orienta la sua effettiva località. Ammettere la località di un pensiero significa considerare anche le modalità del suo orientamento, la costruzione mitica delle sue “geografie immaginarie (imaginative geographies)”[43]. Per Derek Gregory queste sono insieme “globali e locali” e “non articolano solo la differenza tra questo luogo e quello”, ma anche il modo in cui “dalla nostra particolare prospettiva, comprendiamo la loro differenza”. Ne consegue che anche il globale, rimane sempre “una costruzione situata”[44]. Una concettualizzazione che sembra ben adattarsi a Kant e al paradosso di un filosofo, professore di Geografia fisica, che parla ai suoi studenti della “costituzione naturale del globo” e di ciò che in esso si trova “di notevole, di strano o di bello”[45], senza bisogno di muoversi dalla sua città[46].
È questo stesso paradosso che suggerisce di guardare alla costruzione immaginativa dello spazio-mondo in una prospettiva geocritica – mi riferisco qui a una categoria recentemente introdotta da Bertrand Westphal nel campo degli studi letterari[47] – che indaghi il legame intertestuale “che unisce il testo al proprio referente spaziale”[48]. Un livello di ricerca che non si colloca sul piano del realema, ma della rappresentazione intesa come il piano focale che raccoglie le diverse ottiche individuali. Infatti, che lo spazio in cui nasce e si sviluppa il pensiero di Kant travalichi l’analisi di quel luogo particolare che è Königsberg, lo si nota facilmente se, oltre alla dimensioni multiple che definiscono la sua territorialità, consideriamo anche i rapporti epistolari o personali che Kant ha avuto con personaggi e studiosi stranieri[49] e le numerosissime letture di testi di geografia e resoconti di viaggi che nutrirono la sua immaginazione e che in parte confluirono come materiale nei suoi corsi di geografia all’università Albertina. È in occasione di tali lezioni che Kant spiega l’importanza di fare uso di tali fonti indirette:
“Ci dovremmo occupare solo della nostra propria esperienza; ma dal momento che essa non è sufficiente a conoscere tutto, poiché l’uomo riguardo al tempo, ne vive solo una piccola parte, e in esso quindi può fare esperienza solo di quel poco; e dal punto di vista dello spazio, anche qualora viaggiasse, egli non sarebbe in grado di osservare e percepire molte cose: allora dobbiamo servirci anche di un’esperienza estranea. Questa deve essere attendibile e perciò le esperienze registrate per iscritto sono da preferire a quelle espresse oralmente. Noi estendiamo quindi la nostra conoscenza, attraverso i giornali, come se avessimo vissuto dappertutto nel mondo”[50].
Non è stata l’esperienza diretta ad aver fornito in modo esclusivo contenuti alla coscienza planetaria di Kant. Nella sua mente di filosofo-scrittore si deve essere dispiegato un paesaggio interiore immaginario, composto di letture, racconti e conversazioni, che devono aver contribuito a integrare il suo spazio quotidiano in un senso anch’esso mitico[51]. Considerando “l’incrocio tra la percezione diretta, polisensoriale, e la trama intertestuale che costituisce l’enciclopedia”[52] di Kant, l’input a seguire la costruzione delle geografie immaginarie del filosofo tedesco merita indubbiamente di essere sviluppato.
Epistemologia cartografica e rappresentazione enciclopedica del globo
Possiamo facilmente immaginare Kant come il Geografo dipinto da Vermeer: guarda fuori dalla finestra della “stanza borghese da cui l’Illuminismo proiettava il suo raggio”[53], cercando il modo di presentare ai suoi studenti lo spazio aperto e indeterminato che si staglia al di là dei limiti imposti alla loro percezione, quella figura rotonda che a causa della “sua curvatura si sottrae insensibilmente all’occhio nostro”[54]. Uno sforzo, che lo porta a invocare la necessità di assumere uno spazio preliminare, un piano propedeutico, che anticipi e orienti sia le informazioni che abbiamo ottenuto, sia le nostre future esperienze di viaggiatore:
La descrizione fisica della Terra è la prima parte della conoscenza del mondo. Appartiene ad un’idea, che può essere chiamata la propedeutica alla conoscenza del mondo. Il suo insegnamento appare ancora manchevole. Eppure è proprio essa che mette nelle condizioni di fare il miglior uso dei rapporti nella vita. Perciò diviene necessario, presentarla come una conoscenza, che si può perfezionare e correggere attraverso l’esperienza. Noi anticipiamo l’esperienza futura che avremo nel mondo attraverso un abbozzo [Abriss], che, per così dire, ci fornisce un concetto preliminare [Vorbegriff] del tutto. Di colui che fa numerosi viaggi, si dice che ha visto il mondo. Ma chi vuole trarre profitto dal suo viaggio deve essersi già fatto un piano [Plan] e non accontentarsi di guardare al mondo come un oggetto dei sensi esterni [als einen Gegenstand des äußern Sinnes][55].
Come sottolinea Franco Farinelli, l’ambivalenza del vocabolo Plan è intimamente legata alla logica cartografica, e questo perché “il progetto di ogni carta è quello di trasformare – giocando d’anticipo, cioè precedendo – la faccia della terra a propria immagine e somiglianza”[56]. Del resto, così si esprimeva già Tolomeo, per il quale la geografia è quella forma di conoscenza che si incarica “di mostrar tutto in uno, e continua la Terra cognita”, al fine di “considerare il tutto in universale”[57]. Rimane tuttavia da chiarire se per Kant sia “egualmente possibile rappresentare la Terra come un sistema orientato solo da fonti discorsive” o se sia invece necessario integrare tali informazioni ricorrendo “ad una mappa che, nel peggiore dei casi, permetterebbe l’organizzazione dello spazio planetario su scala umana” [58]. Questa è una domanda dal sapore antico, che coinvolge direttamente i due fondatori della geografia occidentale, Eratostene e Strabone, e le due accezioni del termine geo–graphia che essi riflettono: da un lato il disegno cartografico fondato sul calcolo geometrico e sulla riduzione dello spazio a mera quantità, in base ad un sistema di meridiani e paralleli; dall’altro la descrizione geografica incentrata sul viaggio e sulla conoscenza dei luoghi, un genere letterario particolarmente diffuso nel XVIII secolo grazie all’opera di esploratori come James Cook o Georg Forster.
Possiamo trovare una risposta a tale questione in un passo decisivo della Geografi fisica, là dove Kant sostiene che:
Un gran numero di persone è del tutto indifferente alle informazioni diffuse dai giornali. Il che dipende dal fatto che sono incapaci di localizzare queste informazioni e non hanno alcuna nozione della Terra né del mare né della totalità della superficie terrestre[59].
La geografia, per Kant, non può legarsi esclusivamente all’osservazione diretta dei fenomeni che trovano posto sulla Terra, né può dipendere semplicemente all’accumulazione di notizie sulla loro meravigliosa natura. Al contrario, presuppone, almeno sul piano ideale, una Erdbeschreibung, ovvero una conoscenza propedeutica che indirizzi l’esperienza esplorativa e la sua ricognizione. Per quanto utile, la descrizione geografica del mondo che noi possiamo ottenere attraverso l’esperienza (diretta o altrui) è sempre parziale, dal momento che si interessa o di un singolo luogo (topografia) o di una singola regione e delle sue caratteristiche (corografia) o riguarda solo le montagne (orografia) e i corsi d’acqua (idrografia)[60]. Questa visione della geografia illustra efficacemente come per Kant la dimensione empirica dell’osservazione svolta in loco, necessiti sempre di un riferimento ad una struttura a priori che la renda intellegibile in absentia ad un pubblico più vasto, ma soprattutto, di uno spazio di rappresentazione che consenta l’archiviazione, la disposizione, la localizzazione e la correzione degli strati intertestuali della nostra conoscenza. Per esaminare il modello di mappa che Kant aveva in mente e valutare la sua eventuale connessione con l’idea di uno spazio preliminare e con il contenuto discorsivo che caratterizzava la conoscenza geografica dell’Illuminismo, possiamo utilmente verificare come, dal suo punto di vista, la geografia si incarichi di descrivere la terra secondo lo spazio.
Nell’Introduzione all’edizione Rink della Geografia fisica, Kant presenta i diversi tipi di geografia (fisica, matematica, politica, morale, teologica e mercantile) allora conosciuti. La sua attenzione si concentra in particolare sull’esame preliminare della geografia matematica. Considerata un prolegomeno necessario per il discorso geografico, essa tratta della forma della Terra, che come Newton insegna “è quella di uno sferoide”[61], della sua rotazione, della circonferenza e del diametro terrestre, della latitudine e della longitudine. Nel XVIII secolo la geografia matematica era uno dei nomi usati per la cosmografia matematica, termine ambiguo, secondo Eric Forbes, con cui si indicava un ambito disciplinare nato “all’incrocio tra astronomia, geografia e cartografia” e composto da elementi concettuali “sia terrestri, sia celesti”[62]. Adottando le precognizioni matematiche per la descrizione della Terra, i geografi dell’Illuminismo erano in grado di disegnare linee immaginarie sulla “superfice di una sfera, dove di solito non si distingue nulla”[63]. In questo senso, l’attività di tracciare meridiani può essere considerata il primo passo verso la rappresentazione di uno spazio di tipo planetario. In primis, perché la localizzazione geometrica basata su un sistema di coordinate, non è mai ambigua, dal momento che un luogo esiste solo in quella determinata posizione. In seconda battuta, perché a differenza di quanto accadeva nelle mappe medievali, nelle quali la struttura T-O precludeva l’inserimento di nuovi territori situati oltre i limiti dell’ecumene, la divisione lineare della sfera terrestre e la sua rappresentazione sinottica sulla tavola, rendono possibile l’inclusione di terre precedentemente incognite. Questo aspetto balza agli occhi se si guarda per esempio alla Carta generale contenente i viaggi del Capitano James Cook disegnata nel 1784 da Henry Roberts e William Faden, dove l’interno del continente americano, al tempo ancora parzialmente inesplorato, è lasciato in bianco, privo di segni, in attesa di future esplorazioni. O, ancora, se consideriamo quanto Kant afferma a proposito del Peru, paese fino a quel momento “osservato solo dalla costa” e segnato “per la prima volta da von Roden su una mappa fatta a Berlino”[64]. Ciò che emerge da questi e altri casi, è uno spazio planetario privato di ogni traccia di equivocità o decorazione mitologica, uno spazio astratto e misurabile, la cui verità epistemologica dipende da una forma unificata di “filosofia geometrica della cartografia”[65].
Ma per Kant la geografia non si lascia ridurre ai soli concetti matematici preliminari. Lo spazio che la geografia matematica descrive è costitutivamente indifferente alla presenza degli uomini, delle piante, dei minerali, e di tutti quei fenomeni che possono essere accomunati sotto il nome di meraviglie della terra. Nella sua geografia fisica si incontrano almeno altre due tipologie di spazio, che pur presupponendola, non coincidono direttamente con la sua formalizzazione geometrica. In primo luogo la trattazione dello spazio geografico assume il valore di una chiarificazione delle principali forme terresti dell’acqua, dell’aria e della terra, per cui si chiama “oceano l’insieme delle acque riunite intorno alla terra, così come si chiama continente l’insieme della terra”[66]. Troviamo poi quella che Marcello Tanca ha definito “la spazialità dell’inventario localizzato”[67], cui corrisponde l’esame delle meraviglie e curiosità naturali, esposte secondo l’ordine geografico dei paesi. Come queste tre specie complementari di spazio si rapportino l’uno all’altro è questione dirimente per capire il ruolo svolto dalle mappe nella rappresentazione del piano geografico.
Per chiarire questo punto possiamo guardare al recente lavoro che lo storico della cartografia Metthew Edney ha condotto sulla rivoluzione cartografica del XVIII secolo. La sua tesi riguarda la dicotomia tra scienza e arte con cui si era soliti descrivere il passaggio dalla cartografia medioevale a quella moderna, dicotomia che egli considera obsoleta. La mappa è qualcosa di più. Si tratta di “una complessa e negoziata rappresentazione ideologica” organizzata come un archivio universale, che riproduce sul piano della rappresentazione spaziale gli ideali enciclopedici dell’Illuminismo. Il fondamento di tale archivio geografico universale è il sistema reticolare basato su paralleli e meridiani. Esso determina l’equivalenza tra la figura della Terra e la sua rappresentazione su una mappa. Il modello in scala basato sulla misurazione delle distanze pone infatti gli elementi in una connessione matematica coerente, stabilendo una relazione isomorfa tra l’architettura sferica del mondo e la sua rappresentazione. Un modello che rimane vero e invariato indipendentemente dalla scala di riferimento e dalle eventuali correzioni. Dalla sovrapposizione tra rappresentazione architettonica della sfera e modello enciclopedico della mappa-archivio ci fornisce una testimonianza l’Introduzione alla Geografia fisica:
“dobbiamo conoscere gli oggetti della nostra esperienza in toto [im Ganzen], così che la nostra conoscenza non costituisca un aggregato, ma un sistema; poiché nel sistema il tutto [das Ganze] precede le parti, mentre nell’aggregato sono le parti che precedono il tutto. La cosa sta così anche nelle scienze che producono una connessione in noi [die eine Verknüpfung in uns hervorbringen], come p. es. nell’enciclopedia, dove il tutto appare già connesso. L’idea è architettonica, crea le scienze. Chi p. es. volesse costruire una casa, si fa prima un’idea del tutto, dalla quale poi derivare il molteplice. Così è anche la nostra propedeutica, un’idea della conoscenza del mondo. Ci facciamo un concetto architettonico del mondo, un concetto dal quale il molteplice viene derivato. Il tutto qui è il mondo”[68].
La logica cartografica che governa lo spazio preliminare, il piano a cui fa riferimento Kant nelle sue lezioni di geografia sembra quella enciclopedica descritta da Edney. Uno spazio intertestuale che convoglia al suo interno tre immagini complementari della Terra: la misurabilità geometrica della sphaera; la versione fisica e incurvata del globus[69] ; e il mappamondo degli enciclopedisti, nel quale inscrivere e correggere l’esperienza di ciò che è notevole, strano e bello.
Dalla mappa alla sfera
Tra i fenomeni che hanno maggiormente attirato l’attenzione dei teorici della globalizzazione, un posto di primo piano occupa la pratica di ridurre la sfera terrestre ad un’immagine cartografica. Come spiega lo storico della cartografia David Woodward, la grande rotondità del globo rappresenta “l’essenza della nostra esistenza olistica”, il referente iconico privilegiato della nostra immaginazione spaziale. Il fatto di rappresentare l’unità della sfera terrestre è uno sforzo immaginativo tipicamente umano, che, almeno fino alle prime foto della Terra scattate dallo spazio, pone il problema di differenziare i modelli estetici e epistemologici legati alla concettualizzazione geografica del globo terrestre. Se assumiamo con David Harvey che le esperienze spaziali sono importanti veicoli per la codificazione e la riproduzione delle relazioni sociali, allora possiamo con ragione presumere che “un cambiamento nei modi in cui tali esperienze sono rappresentate quasi sicuramente genera qualche mutamento nelle relazioni sociali”[70].
Le dinamiche storiche cui Harvey rivolge la propria attenzione, riguardano principalmente la formazione di nuovi ordini spazio-temporali, cioè degli schemi di figurazione geografica che concorrono a trasformare le qualità oggettive dello spazio attraverso cui rappresentiamo il mondo a noi stessi. Al riguardo, fondamentale è per Farinelli, ricostruire la crisi del paradigma cartografico che definiva la sintassi dello Stato moderno, poiché è tale crisi che impone di pensare il mondo come un globo e di sostituire alla logica del piano, quella della sfera. Il globo non tollera scale e ciò significa che la sfera, a differenza della mappa, “stabilisce essa stessa le dimensioni delle cose che sono rappresentate in essa”[71]. Un esempio attraverso cui misurare il passaggio dalla logica della mappa a quella della sfera, si troverebbe secondo Farinelli nella Critica della ragion pura, opera che rappresenta “la protocollare e sistematica, oltre che radicale, cosciente presa in conto dei presupposti dell’operazione tolemaica”, per la quale “è possibile scomporre la complessità e la totalità del globo e derivarne la molteplicità delle rappresentazioni cartografiche”[72].
Per tirare le somme del percorso sin qui tracciato e verificare l’affermazione di Farinelli può essere utile ripartire dall’incontro tra la storia naturale e la logica cartografica della tavola. Un incontro favorito dal primo viaggio (1768-1771) di James Cook nel Pacifico meridionale, in particolare dai lavori del botanico Joseph Banks (divenuto poi il più longevo presidente della Royal Society), dei naturalisti Daniel Carlsson Solander e Herman Spöring (entrambi allievi di Linneo) e degli illustratori che insieme ad essi affiancarono Cook nella sua impresa. Furono queste personalità i veri protagonisti del modello Cook, coloro che resero la geografia una scienza moderna, una forma di conoscenza con l’obiettivo del realismo nella descrizione, la sistematicità nella collezione e il metodo comparativo nella spiegazione delle specie naturali.
In tempi più vicini ai nostri Derek Gregory ha spiegato il senso costruttivo di questa trasformazione scientifica, concentrando la sua attenzione sul valore simbolico del rapporto tra la mappa geografica e la tavola del sistema naturale. Il geografo britannico analizza questi due dispositivi di rappresentazione spaziale nella prospettiva del “problema della visualizzazione” e della sua connessione con la rappresentazione del “mondo-come-esibizione”[73]. Sono le genealogie foucaultiane di Le parole e le cose ad offrirgli la pietra di paragone per verificare il primato della visione[74] nella costituzione della geografia moderna. Michel Foucault si riferisce all’ordine descrittivo messo a punto dal padre della classificazione scientifica moderna, il naturalista svedese Linneo nel suo Systema Naturae, in base al quale ogni capitolo riguardante una pianta, un animale o un minerale, deve essere redatto con metodo tassonomico, vale a dire secondo titoli prestabiliti – Nomina, Theoria, Genus, Species, Attributa, Usus e, solo alla fine, Literaria – che anticipino la possibilità del suo ordinamento. La caratteristica essenziale della struttura sistematica di Linneo (nomenclatura binomia) consiste nell’avvicinamento inedito tra lo sguardo e la parola. È, infatti, attraverso un rinnovato rapporto tra l’ordine logico della classificazione e la nominazione (anticipata) del visibile che la storia naturale conquista la possibilità di emanciparsi da ciò che appartiene alla sfera delle credenze, delle tradizioni, per integrare criticamente l’ambito delle notizie (vere e false) suscitate dalle scoperte. Escludendo dicerie e ogni forma di arbitrarietà poetica o sensoriale (del gusto o del tatto) l’osservazione naturale conferisce un nuovo significato al termine storia; e l’osservazione, che ne costituisce la condizione originaria, diviene una “conoscenza sensibile arricchita da condizioni sistematicamente negative”. Con questo passaggio entra sulla scena per Foucault una nuova forma di visibilità “riscattata da ogni altro gravame sensibile” [75] che si dispiega su un nuovo spazio rappresentativo:
“il luogo di tale storia è un rettangolo intemporale, in cui, spogliati di ogni commento, di ogni linguaggio periferico, gli esseri si presentano gli uni affianco a degli altri, con le loro superfici visibili, accostati in base ai loro lineamenti comuni, e con ciò già virtualmente analizzati, e portatori del loro solo nome. Si dice spesso che la costituzione dei giardini botanici e delle collezioni zoologiche traduceva una nuova curiosità per le piante e le bestie esotiche, Di fatto già da molto tempo, queste avevano sollecitato l’interesse. Ciò che è cambiato, è lo spazio in cui possono essere vedute e da cui le si può descrivere”[76].
Il rettangolo intemporale cui fa riferimento Foucault è la tabula, che consente al pensiero di operare sugli esseri un ordinamento, una partizione in classi, un raggruppamento che ne sottolinei le somiglianze[77]. In questa tavola, già secondo Linneo, “i viventi si dispongono come il Territorio in una mappa geografica”[78]. Sebbene Linneo non abbia mai visualizzato la sua mappa naturae, essa fu fedelmente disegnata nel 1789 da uno dei suoi ultimi allievi, l’olandese Paul Dietrich. Nel disegno di Dietrich l’ampiezza dei cerchi (che corrispondono agli ordini vegetali) è direttamente proporzionale al numero e alla consistenza dei generi, mentre la loro distanza è inversamente proporzionale alle rispettive affinità. Nell’analisi di Giulio Barsanti il modello geografico con cui Linneo raggruppa le specie e i generi degli organismi basandosi sulla somiglianza tra le parti che tendono a rimanere invariate, serve al naturalista svedese per rendere conto senza difficoltà dell’esistenza di affinità multiple e incrociate fra i corpi naturali. Tuttavia, “non esistendo né punto di partenza né punto di arrivo” nella rappresentazione di Linneo “non emerge alcuna linea di tendenza, alcun orientamento”[79]. Pertanto, l’immagine geografica finisce col divenire un sistema labirintico, basato su un modello di classificazione che – come sosteneva anche il grande avversario di Linneo, il conte di Buffon – non riesce a rendere conto della distribuzione e della degenerazione delle diverse specie sulla Terra (come nell’esempio del cane)[80].
La distanza che separa i criteri di classificazione fisica della geografia di Kant dal sistema di Linneo è un ottimo punto di partenza per capire i modelli geografico-spaziali che sono alla base dell’immagine del mondo che ha il filosofo tedesco. Nell’Introduzione all’edizione Vollmer della Geografia fisica leggiamo:
Se la geografia fisica descrive nell’insieme le cose della natura, per quanto possiamo entrare in comunicazione con essa, ella dunque non è un systema naturae, non un registro né un inventario delle cose isolate dalla natura medesima. Un sistema di natura, come quello di Linneo, o di qualunque altro, racconta tutte le cose isolate di lei, le esamina una dopo l’altra, le unisce con arte e logicamente, e le divide, secondo una qualche somiglianza ritrovata in nomi e classi, come secondo le unghie fesse. La geografia fisica dà piuttosto un’idea dell’insieme, secondo lo spazio ovvero il globo, e segue nelle descrizioni delle parti l’ordine della natura. Essa ci rappresenta le cose naturali secondo la loro specie e le loro famiglie, secondo il luogo della loro nascita, o i luoghi su cui la natura le ha collocate[81].
La tassonomia di Linneo e la geografia fisica di Kant non differiscono per l’oggetto della loro indagine, ma per il fatto che la prima si fonda su un tipo di classificazione logico-concettuale basato sulla differenza tra genere e specie, mentre nella seconda gli oggetti sono in relazione tra loro e coesistono secondo le leggi della natura, ovvero secondo lo spazio e il tempo del loro locus natalis[82]. La valenza sistematica della distinzione tra classificazione logica e classificazione fisica viene discussa più approfonditamente nell’edizione Rink della Geografia fisica di Kant:
“La classificazione della conoscenza secondo concetti è logica, quella secondo lo spazio e il tempo invece è fisica. Attraverso la prima otteniamo un sistema naturale (Systema naturae) come p. es. quello di Linneo; attraverso la seconda invece otteniamo una descrizione geografica della natura. Dico p. es.: la specie bovina va contata sotto la famiglia dei quadrupedi o sotto il genere degli animali con le unghie fesse; allora questa è una classificazione che io mi faccio in testa, quindi una classificazione logica. Il Systema naturae è una registrazione dell’insieme, in cui colloco tutte le cose nella classe d’appartenenza, anche qualora queste si trovassero in regioni della Terra distanti l’una dall’altra. Al contrario, secondo la classificazione fisica le cose vengono trattate secondo il posto che occupano sulla Terra. Il Sistema indica il posto nella divisione in classi. La descrizione geografica della natura indica [il posto] secondo il luogo in cui le cose si trovano davvero […] Nel Sistema della natura le cose non vengono indagate secondo il luogo natale, ma secondo le somiglianze nella figura. Perciò si possono giustamente chiamare aggregati della natura i sistemi della natura redatti fino ad ora; poiché un sistema [nel vero senso della parola] presuppone l’idea di un tutto, dal quale derivare il molteplice. Di fatto non esiste alcun Systema naturae”[83]
L’opposizione tra descrizione geografica della natura e Systema naturae è un aspetto fondamentale della distinzione che Kant introduce qui tra classificazione logica e classificazione fisica. L’idea sistematica, nel vero senso della parola, che sottende alla classificazione fisica delle specie presenti sulla Terra è l’immagine del globo: solo se presupponiamo l’unità della sfera terrestre, possiamo disporre di un modello architettonico da cui derivare l’ordine della natura e far sì che il sistema non si strutturi arbitrariamente, ma segua l’apparire degli oggetti nel mondo naturale, guadagnando uno sguardo complessivo (un Übersehen im Ganzen) sulla loro coesistenza. La considerazione architettonica della natura non esige la compiutezza e la precisione di un sistema logico-scientifico, quanto piuttosto il riferimento dell’osservazione alla rappresentazione simbolica del paesaggio geografico come sostrato esperienziale attivo della sua immaginazione. Infatti, è soltanto nella forma simbolica del paesaggio che è possibile distinguere la dimensione etica e politica dell’agire umano e porre le diseguaglianze economiche, sociali e culturali che caratterizzano la storia dell’uomo (uomo coltivato/civilizzato/moralizzato; europeo/non-europeo) al centro dell’interpretazione e della rappresentazione del mondo. Un’operazione che non si potrebbe realizzare se ci limitassimo a considerare le somiglianze anatomiche della specie uomo, senza tenere conto della diversificazione storico-geografica dell’umanità.
Il rapporto tra l’idea di un mondo sferico e la concezione di un’umanità globale diversificata, ritorna anche nella Dottrina del diritto, là dove Kant spiega il fondamento territoriale del vivere in comunità:
“Tutti gli uomini sono originariamente (ossia anteriormente ad ogni atto giuridico del loro arbitrio) in possesso legale del suolo: vale a dire, essi hanno il diritto di essere là dove la natura li ha posti. Questo possesso (possessio), che è distinto dalla dimora (sedes), cioè da un possesso permanente volontario e di conseguenza acquistato, è un possesso comune a cagione dell’unità di luogo che presenta la superficie sferica della terra; mentre, se la terra fosse una pianura infinita, gli uomini potrebbero disperdervisi sopra in modo da non formare più nessuna comunità e questa, dunque, non sarebbe una necessaria conseguenza della loro esistenza sulla terra. Il possesso di tutti gli uomini sulla terra, che precede ogni atto giuridico della loro volontà (ed è costituito dalla natura stessa), è un possesso comune originario (communio possessionis originaria), il concetto del quale non è empirico e non dipende da condizioni di tempo, come il concetto poeticamente immaginato, ma non dimostrato, di un possesso comune primitivo (communio primaeva), ma è al contrario un concetto razionale pratico, il quale contiene a priori il principio che solo permette agli uomini di servirsi, seguendo le leggi del diritto, del posto che essi hanno sulla terra”[84].
Come suggerisce questo passo nell’idea di un mondo sferico e finito si incontrano sia lo schema di ordinamento della natura, sia il modello di intersoggettività e partecipazione comune fondato sul diritto originario dell’umana ragione. Si tratta di un mondo in cui l’unità di tutti i luoghi è condizione naturale e di cui gli uomini a partire dal luogo che occupano sono tutti, originariamente, comproprietari. Pertanto la sfericità del mondo può essere assunta come idea sistematica per la conoscenza, un modello di riferimento in cui ogni oggetto trova la propria collocazione. Come osserva Hansmichael Hohenegger:
“Nelle metafore e immagini spaziali si trovano sempre possibili relazioni. Questo può essere un vantaggio, ma è anche il maggior pericolo quando per il loro moltiplicarsi queste si trasformano in un labirinto. Nel caso della relazione tra geografia fisica e geografia della ragione, il legame tuttavia è piuttosto saldo, dato che ciò che le unisce sono comuni caratteristiche architettoniche. Per Kant c’è un principio di ordine e di intellegibilità che vale per le conoscenze empiriche della geografia, e, in modo curiosamente simile, anche per le conoscenze razionali della filosofia. La geografia è tipicamente un sapere empirico, che fa sì che la Weltkenntnis possa essere anticipazione di un tutto: il mondo è finito e sferico. Per questo motivo la sfericità del mondo può essere idea architettonica delle scienze in cui ogni oggetto ha il suo luogo” [85].
Nelle parole di Kant:
“Se qui consideriamo la Terra, osserviamo il teatro e i diversi scomparti [Fächer] dove poi collochiamo le diverse creature terrestri”[86].
Da quanto visto fino ad ora, si capisce come un geografo contemporaneo che, al pari di Gregory, si è interesso del rapporto tra rappresentazione del globo e immaginazione geografica, abbia potuto ravvisare nella rappresentazione sistematica della filosofia di Kant l’idea della sfera come modello architettonico di una “global humanity” e leggere la natura del lavoro filosofico condotto sulla ragione come una forma di “global exploration”[87]. Sia l’esplorazione della Terra, sia l’esplorazione della natura e dei limiti della ragione, debbono poggiare infatti su principi metempirici; e tali esplorazioni possono compiersi soltanto se anteponiamo ad esse un principio che raccolga e conferisca coerenza e unità teleologica alle parti. Come ribadisce nel saggio Sull’impiego dei principi teleologici in filosofia, pur ammettendo che l’esperienza è la base di ogni conoscenza Kant non ritiene che la filosofia debba fare a meno di un principio guida, quindi, di un fondamento comune che orienti e organizzi sistematicamente la sua ricerca filosofica:
“con il semplice brancolamento empirico, senza un principio guida da seguire nella ricerca, niente che sia conforme a un fine sarebbe mai stato scoperto; infatti, osservare significa semplicemente disporre metodicamente l’esperienza. Davanti al semplice viaggiatore empirico e al suo racconto, io dico: ‘No grazie’, tanto più se si deve operare per una conoscenza coerente a partire dalla quale la ragione deve produrre qualcosa in vista di una teoria”[88].
L’analogia tra l’esplorazione e la descrizione geografica della natura da una parte e l’esplorazione e il disegno dei limiti della ragione dall’altra, vale fin tanto che Kant anticipa simbolicamente l’unità dei suoi territori conoscitivi. Nell’esperimento geografico che la ragione conduce il filosofo si svincola dalla limitatezza ciclopica del proprio punto di vista, guadagnando una forma rappresentava più ampia, tendenzialmente universale, nel rapporto analogico con la Erdbeschreibung. L’occhio che anima l’immaginazione geografica kantiana sembra corrispondere a tutti gli effetti al “secondo occhio” della “Anthropologia transcendentalis”; cioè “quello della conoscenza di sé della ragione, senza la quale non abbiamo una misura ad occhio della grandezza della nostra conoscenza” che dia “la base di rilevamento per la misurazione”[89] del nostro sapere.
Conclusione
Nella prospettiva spaziale ereditata da Soja la cultura (e con essa anche la filosofia) si costituisce attraverso lo spazio e come spazio; quindi, anche, attraverso la rappresentazione geografica (del mondo) e come rappresentazione geografica (del mondo). Domandarsi cosa significa orientarsi nel pensiero, spiegava Deleuze nella Logica del senso, significa “che il pensiero presuppone esso stesso assi e orientamenti, secondo i quali si sviluppa, che esso ha una geografia ancora prima di una storia, che esso traccia dimensioni prima della costruzione di sistemi”[90]. Rimane perciò da capire attraverso quali pratiche è possibile decostruire e interpretare le geografie del pensiero. Ciò che si è cercato di far emergere qui, è il valore culturale, politico e tecnologico del rapporto tra il luogo e lo spazio, insieme alla loro connessione con il modo in cui sperimentiamo e rappresentiamo il mondo a noi stessi. Elementi che, nel loro complesso, concorrono a ridefinire le dimensioni in cui si muovono le nostre idee e i nostri concetti, sia in riferimento al livello microsociale della nostra esperienza quotidiana – come nel caso della città di Königsberg – sia in riferimento alle macrogeografie immaginarie che caratterizzano la nostra complessa conoscenza del mondo. Nel suo esperimento cartografico condotto sulla sfera della ragione Kant anticipa ampiamente soluzioni che – non è una sorpresa – sono stati riprese e rielaborate in tempi più recenti dai teorici come David Harvey, per il quale “l’immaginazione geografica è una sfaccettatura così pervasiva e importante della vita intellettuale da non poter essere lasciata solo ai geografi”[91].
[1] Per le opere di Kant il testo di riferimento è: Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (e successori), Berlin, 1900 ss. indicato con “AA” seguito dal numero del volume in cifre romane e dalla pagina in cifre arabe. Non esistendo un’edizione italiana della Physische Geographie le traduzioni presenti nel testo sono ad opera dell’autore. Per la Geografia Fisica, oltre all’edizione dell’Accademia si è dunque usato anche l’edizione: I. Kant, 1801-1817, Immanuel Kants Physische Geographie, a cura di J. J W. Volmmer; trad. it. Geografia fisica di Emanuele Kant, tradotta dal tedesco, a cura di A. Eckerlin, Tip. G. Silvestri Milano, rist. a cura di F. Farinelli, La Geografia fisica, Leading Edizioni, Bergamo, 2004. Per le trascrizioni della Messina Vorlesung si è consultato l’archivio on line dell’Università di Marburgo reperibile al sito http://kant.bbaw.de/base.htm/geo_mes.htm.
[2] Per una ricostruzione dello spatial turn e delle sue ramificazioni disciplinari cfr. la raccolta. J. Döring e T. Thielmann, 2008, Spatial Turn. Das Raumparadigma in den Kultur– und Sozialwissenschaften, De Gruyter, Berlin/New York.
[3] M. Maggioni, 2015, Dentro lo Spatial turn: luogo e località, spazio e territorio, in: Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia, n. 2, p. 53.
[4] G. Marramao, 2013, Spatial turn: spazio vissuto e segni del tempo, in: Quadranti, Vol. 1, 1, p. 32.
[5] Profetiche, in questo senso, sono certamente le tesi che Michel Foucault ha espresso in occasione della conferenza tenutasi al Cercle d’études architectuales di Tunisi nel 1967: “La grande ossessione che ha assillato il XIX secolo è stata, com’è noto, la storia: temi dello sviluppo o del blocco stesso, temi dell’accumulazione del passato, grande sovraccarico di morti, il raffreddamento che minacciava il mondo. È nel secondo principio della termodinamica che il XIX secolo ha trovato gli elementi essenziali e le sue risorse mitologiche. Forse quella attuale potrebbe invece essere considerata l’epoca dello spazio. Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa” (M. Foucault, 2001, Spazi altri, Mimesis, Milano, p. 19).
[6] G. G. Marramao, 2013, 33.
[7] G. G. Marramao, 2013, 33.
[8] G. Marramao, 2013, p. 32.
[9] G. Marramao, 2013, 31.
[10] E. Casey, 2001, Between Philosophy and Geography. What Does It Mean to Be in a Place-World?, in: Annals of the Association of American Geographers, Vol. 91, N. 4, pp. 684.
[11] J. Robertson, The Case for the Enlightenment: Scotland and Naples, 1680–1760, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, p. 53.
[12] R.D. Sack, 1997, Homo Geographicus: A Framework for Action, Awareness and Moral Concern, John Hopkins University Press, Baltimore, p. 30
[13] D. Livingstone, 2003, Putting Science in its Place. Geographies of Scientific Knowledge, University of Chicago Press, Chicago/London, p. 184.
[14] D. Livingstone, 2003, p. 13.
[15] D. Gregory, 2004, Palestine and the War on Terror, in: Comparative Studies of South Asia, Africa and the Middle East, Vol. 24, N. 1, p. 183
[16] Cfr. in proposito le pertinenti osservazioni del geografo palestinese Edward Said “Un gruppo di persone insediatesi su alcuni acri di terra stabilisce confini tra quella terra e i territori circostanti, che vengono chiamati ‘il regno dei barbari’. In altre parole, la pratica universale di designare nella nostra mente uno spazio familiare ‘nostro’ in contrapposizione a uno spazio esterno ‘loro’ è un modo di operare distinzioni geografiche che può essere del tutto arbitrario […]. È sufficiente che ‘noi’ costruiamo questa frontiera nelle nostre menti; ‘loro’ diventano ‘loro’ di conseguenza, la loro terra e la loro mentalità vengono considerate diverse dalle ‘nostre’. Così in una certa misura, le società moderne e quelle primitive sembrano costruire la loro identità, per così dire, in forma negativa. Un ateniese del V secolo avanti Cristo molto probabilmente considerava l’essere non barbaro altrettanto importante dell’essere ateniese” (E. W. Said, 2016, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, pp. 60-61).
[17] Come osserva Elmar Holenstein nelle Linee guida del suo Atlante di Filosofia, quella espressa dalla mistica del sangue e del suolo è una visione ristretta e deterministica della geografia culturale, che mira “all’esaltazione ideologica dei rapporti tra l’uomo con l’ambiente che lo circonda” (E. Holenstain, 2009, Atlante di Filosofia, Einaudi, Torino, p. 8).
[18] S. Sassen, 2008, Territorio, autorità, diritti, Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, Bruno Mondadori, Milano, p. 3.
[19] S. Sassen, 2008, p. 6.
[20] F. Braudel, 1999, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Rizzoli, Milano, p. 108.
[21] S. Sassen, 2008, p. 7.
[22] U. Beck, 2005, Lo sguardo Cosmopolita, Carocci editore, Roma, p. 38.
[23] U. Beck, 1999, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carrocci, Roma, p. 42.
[24] U. Beck, 2005, p. 49.
[25] J. Agnew, 1994, The Territorial Trap. The Geographical Assumptions of International Relations Theory, in: Review of International Politic Economy, Vol. 1, 1, pp. 53-80.
[26] J. Agnew, 1994, p. 54.
[27] S. Elden, 2010, Land, Terrain, Territory, in: Progress in Human Geography, Vol. 34, pp. 811-812.
[28] J. Crampton e S. Elden, 2006, Space, Politics, Calculation. An Introductionm in: Social and Cultural Geography, vol. 7, 5, p. 681.
[29] F. Farinelli, 2010, La produzione spaziale della società, in: Dialoghi internazionali, n. 14, p. 169.
[30] P. Giaccaria, 2014, Confine —> Soglia, in: (P. Perulli a cura di) Terra mobile. Atlante della società globale, Einaudi, Torino, p. 79.
[31] M. Bolocan Goldstein, 2014, Scala geografica —> Spazialità urbana, in: (P. Perulli a cura di) Terra mobile. Atlante della società globale, Einaudi, Torino, p. 152.
[32] A. Turco, 2010, Configurazioni della Territorialità, Franco Angeli, Milano, p. 247.
[33] U. Beck, 1999, p. 13.
[34] Manteniamo qui l’originale inglese rescaling usato da Sassen, perché il termine italiano ridimensionamento, seppur adatto ad una traduzione letterale, può alludere anche a quell’operazione con cui si riduce il valore o l’importanza di un fenomeno. Confusione che qui intendiamo evitare.
[35] M. Bolocan Goldstein, 2014, p. 153.
[36] A. Turco, 2010, p. 242.
[37] C. W. J. Whiters, 2007, Placing Enlightenment. Thinking Geographically about the Age of Reason, University of Chicago Press, Chicago/London, p. 7.
[38] G. Delanty, 2009, The Cosmopolitan Imagination: The Renewal of Critical Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge, p. 29.
[39] C. W. J. Whiters, 2013, The Enlightenment and Geographies of Cosmopolitanism, in: Scottish Geographical Journal, Vol. 129, N. 3, p. 45.
[40] Anthropologie, AA VII:120-121, trad. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, a cura di G. Vidari, riv. da. A. Guerra, Roma-Bari, 1994. p. 4.
[41] Physische Geographie, AA IX:158: “Il mondo è il substrato e il teatro sul quale si svolge il gioco delle nostre abilità. Esso è il suolo sul quale possono essere acquisite a applicate le nostre conoscenze”. Una posizione quasi speculare si trova anche in molte trascrizioni delle lezioni di geografia. Cfr. ad esempio Messina Vorlesung, p. 2, http://kant.bbaw.de/base.htm/geo_mes.htm.
[42] Come ha scritto il geografo Americano Yi- Fu Tuan, “Space is a common symbol of freedom in the Western world. Space lies open; it suggests the future and invites action […]. Enclosed and humanized space is place. Compared to space, place is a calm center of established values. Human beeings require both space and place” (Y.-F. Tuan, 2001, Space and Place. The Perspective of Experience, Minnesota University Press, London/Minneapolis, p. 54).
[43] W. E. Said, 2016, pp. 56 sgg. Said adopera questa espressione in riferimento alla costruzione mitica dell’immagine dell’oriente, questione che egli pone sotto il titolo generale di orientalismo: “vale a dire un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale”. Mi pare che il discorso che Said sviluppa a proposito dell’opposizione Occidente-Oriente ben si adatti all’oscillazione che Kant vive tra il luogo-Königsberg e lo spazio-mondo.
[44] D. Gregory, 1994, Geographical Imaginations, Blackwell Publishers, Oxford, p. 204.
[45] EACG, AA II:3, trad. it., Annuncio e programma di un corso del semestre estivo 1757, in M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, Magenta, Varese, 1953, pp pp. 180-181.
[46] Per quanto riguarda i motivi geografici della sedentarietà di Kant cfr. M. Tanca, 2012, Travelling without moving: mappe e geografia tra Xavier de Maistre e Kant, in: (M. Guglielmi e G. Iacoli a cura di.) Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria, Quodlibet, Macerata, pp. 109-125.
[47] La categoria di geocritica è stata introdotta nel campo della geopetica pochi anni orsono da Bertrand Westphal. Con tale categoria egli intende un tipo di studio che “non si limita alla rappresentazione dell’Altro, percepito in un ambiente monologico. Ma pone l’artista – di cui continua a riconoscere la supremazia – al centro di un universo di cui egli non è che uno degli ingranaggi. Una volta considerato lo spazio fattuale come un referente accettabile, esso diventa ipso facto il denominatore comune per un insieme di scrittori. Strappato così ad uno sguardo isolato, esso si trasforma in un piano focale con una molteplicità di punti di fuga, egualmente pertinenti. In questa prospettiva la relazione bipolare tra alterità e identità non è più retta da una semplice azione, ma da un’interazione: la rappresentazione dello spazio nasce infatti da un movimento di andata e ritorno, e non più da un moto di sola andata come quello sotteso, ad esempio, ad un punto di vista eurocentrico. Il principio dell’analisi geocritica risiede nel confronto del più ampio spettro possibile di ottiche individuali, che si correggono si alimentano e si arricchiscono vicendevolmente” (B. Westphal, 2009, Geocritica, Reale Finzione Spazio, Armando Editore, Roma, p. 160).
[48] B. Westphal, 2009, p. 205.
[49] Tra gli amici stranieri di Kant il più importante è forse il mercante inglese Joseph Green, che Kant conobbe in occasione di una discussione circa la guerra anglo-nordamericana. Stando a quanto scrive Jachmann, 1969, pp. 156-158 “il più intimo amico e confidente che Kant abbia mai avuto”, un “uomo ricco di nozioni e di tanta intelligenza che Kant (egli stesso me lo confermò) non scrisse nemmeno una riga della Critica della ragion pura senza prima averla fatta ascoltare e giudicare a Green”.
[50] Physische Geographie, AA IX:159. Cfr. anche Messina Vorlesung, p. 3, citato in H. Honegger, 2014, p. 572: “I rapporti con altri e i viaggi sono gli ausili con cui io estendo le mie conoscenze e la loro portata”. Il riferimento alla testimonianza altrui è un tratto caratteristico della conoscenza geografica ed infatti anche nel corpus logico kantiano troviamo cenni alla particolare forma di certezza empirica in essa implicata. Nella Reflexion 2451 Kant scrive ad esempio: “dove si trova Madrid, lo sappiamo anche se lo sappiamo dal racconto di altri [wo Madrit liegt, daß wir es wissen, ob wir es zwar von anderer Erzehlungen herhaben]” (AA XVI:364). La Wiener Logik commenta così: “se qualcuno volesse dire che non lo si può sapere a meno che non sia stato lì lui stesso, gli posso rispondere che se io stesso sono colà non posso apprenderlo se non da ciò che mi dicono coloro che là risiedono, e dunque io lo accetto in base alla testimonianza altrui” (AA XXIV:898, citato in M. Capozzi, 2002, Kant e la logica, Vol. 1, Bibliopolis, Napoli, p. 570.) La Logik Dohna-Wundlacken invece spiega che: “là dove è possibile sapere, questa è già cosa del sapere. Ad esempio geografia” (AA XXIV:733, citato in M. Capozzi, 2002, p. 570).
[51] Ad offrire una misura della precisa conoscenza dei luoghi che Kant aveva ottenuta grazie alla lettura dei resoconti di viaggo è il biografo di Kant Jachmann, 1969, p. 131: “Un giorno p. es., [Kant] descrisse ad un lodinese di nascita il ponte di Westminster, per forma e impianto, per lunghezza, larghezza e altezza in tutte le sue parti con tanta precisione che l’inglese gli domandò quanti anni fosse vissuto a Londra e se si fosse occupato particolarmente di architettura. Io assicurai che Kant non aveva mai varcato le frontiere della Prussia e non era architetto di professione. Altrettanto minutamente conversò, dicono, con Brydone sull’Italia, di modo che anche costui s’informò circa la durata del suo soggiorno in Italia” (R. B. Jachmann, 1969, Immanuel Kant. Descritto in lettere a un amico, in: L. E. Borowski e R. B. Jachmann e A. C. Wasianski, La vita di Immanuel Kant, Laterza, Bari, p. 131).
[52] B. Westphal, 2009, p. 210.
[53] W. Benjamin, 1979, Uomini tedeschi, Adelphi, Milano, p. 23
[54] I. Kant, 2004, La Geografia fisica, Vol. 1, Leading Edizioni, Bergamo, p. 9.
[55] Physische Geographie, AA IX:157.
[56] F. Farinelli, 1992, I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, Firenze, p. 77.
[57] Tolomeo, citato in: M. Tanca, 2012, Geografia e Filosofia. Materiali di lavoro, Franco Angeli, Milano p. 19.
[58] M. Marcuzzi, 2011, Writing Space. Historical Narrative and Geographical Description in Kant’s Physical Geography, in: (S. Elden e E. Mendieta eds.) Reading Kant’s Geography, State University of New York Press, Albany, p. 129.
[59] Physische Geographie, AA IX:163.
[60] Physische Geographie, AA IX:159. Cfr. anche I. Kant, 2004, Vol. 1, p. XXI: “La geografia fisica trarrà più o meno utile dalla topografia, ovvero dalla descrizione locale. Questa conta, osserva e descrive i villaggi e i paesi, ossia il numero delle case, degli abitanti ecc. Egualmente sarà utile al geografo fisico la corografia o la descrizione del circondario, la quale rappresenta per così dire la fisionomia di una regione, quasi un quadro delle sue bellezze, pregj e difetti: come pure l’orografia cioè, la descrizione delle montagne, e l’idrografia ovvero descrizione delle acque”.
[61] Physische Geographie, AA IX:166.
[62] Cfr. E. Forbes, 1980, Mathematical Cosmography, in: in: (G. S. Rousseau e R. Porter eds.) The Ferment of Knowledge. Studies in the Historiography of Eighteenth-Century Sciences, Cambridge University Press, London/New York, pp. 417-418.
[63] Physische Geographie, AA IX:171.
[64] Physische Geographie, AA IX:230.
[65] M. Edney, 2011, Cartography Without Progress: Reinterpreting the Nature and Historical Development of Mapmaking, in: (J. Dodge e R. Kitchin e C. Perkins eds.) The Map Reader, John Wiley & Sons, Chichester, p. 78.
[66] Physische Geographie, AA IX:186 “Das allgemeine, das Land umfließende Wasser nennt man den Ocean, so wie das allgemeine Land das Continent”.
[67] M. Tanca, 2012, p. 38.
[68] Physische Geographie, AA IX:158.
[69] Un’interessante anticipazione di questa distinzione si trova in Copernico. Come riporta Giorgio Stabile, “nel primo libro del De revolutionibus, con studiata ambiguità, Copernico qualifica in esordio il mundus e la Terra con gli attributi sia sphaericus/-ca che di globosus/-sa. Egli sa che globus è la massima approssimazione fisica a un ente geometrico inarrivabile nel rispetto di quella condizione: la sphaera. Tutto il linguaggio della rotondità – rotundus, rotundatis, o orbis, circulus, circuitus, circumferentia – trova in termini come globus, globosus, globositas il massimo di approssimazione fisica alla rotondità della sfera. Diversamente da sphaera, globus non ha l’obbligo al rispetto delle condizioni che vadano oltre quelle di un corpo di massa compatta la cui superficie assuma forma rotonda o rotondeggiante priva di spigoli e di anfratti e che comunque ritorni curvando in sé stessa. Globus riassume le proprietà di una massa di materia aggregata per effetto di una forza che le fa assumere forma rotonda e che nasce nell’ambito di nozioni concrete come gleba, glebosus, glomeramen, se non addirittura di gibbus o gibbositas, gobbo o gobbosità cioè forme del curvo che, lo nota anche Proclo, sono il primo rampollare terroso o vegetale verso il rotondo. Anche se rotondità realizzata, il globo è sempre e comunque un corpo sphaeroides, che tende appunto all’eidos della sfera” (G. Stabile, 2012, Intorno alla sfera prima e dopo Copernico, in Sphaera (P. Totaro e L. Valente a cura di), Leo Olschki Editore, Firenze, p. 429).
[70] D. Harvey, 2015, La Crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, p. 303.
[71] F. Farinelli, 2008, Il mondo non è fatto a scale, in: Dialoghi internazionali. Le città nel mondo, n. 7, pp. 158-159.
[72] F. Farinelli, 2004, Experimentum Mundi, in: I. Kant, Geografia Fisica, Leading Edizioni, Bergamo, p. XXIII.
[73] D. Gregory, 1994, p. 15.
[74] D. Gregory, 1994, p. 21 sgg.
[75] M. Foucault, 1998, Le Parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano, p. 149.
[76] M. Foucault, 1998, p. 147.
[77] Cfr. M. Foucault, 1998, pp. 5-7.
[78] C. Linneo, citato in G. Barsanti, 1992, La scala, la mappa, l’albero. Immagini e classificazioni della natura fra Sei e Ottocento, Sansoni Editore, Firenze, p, 48.
[79] G. Barsanti, 1992, p. 50.
[80] Sulla polemica tra lo svedese Linneo e il francese Buffon riguardo al modello classificatorio della mappa cfr. G. Barsanti, 1992, pp. 51-52.
[81] I. Kant, 1801-1817, pp. XXIII-XXIV.
[82] Con riferimento al concetto kantiano di Storia naturale. M. Fischer p. 107, osserva che: “Understanding nature as a physical system […] involves judging two or more things to be related either (1) geographically, according to spatial relations among natural objects existing at the same time, or (2) historically, according to the places these objects occupy in a particular causal chain. It is ultimately the combination of these two kinds of physical relation (i.e., the spatial and the temporal or the geographical and the historical) into a system that is involved in a true natural history, according to Kant. Geographical classifications and descriptions of the current state of the world are the explananda for which we seek a historical explanans. Accordingly, there is a two-fold relation between these attempts at system. On the one hand, the present state of the world as it is described in geographical terms by natural description is the result of the historical processes in nature that are the objects of natural history, and, on the other, the framing of hypotheses concerning which processes need to be assumed in order to account for the current state of the world, which is central to natural history, relies on the previous acquaintance with this state that is the goal of natural description. Another way of putting this is to say that natural description is the ratio cognoscendi of a physical order in nature for which natural history seeks the ratio essendi” (. Fischer, 2007, Kant’s Explanatory Natural History: Generation and Classification of Organism in Kant’s Natural Philosophy, in: (P. Heunemann edt.) Understanding Purpose. Kant and the Philosophy of Biology, University of Rochester Press, Rochester, p. 107).
[83] Physische Geographie, AA IX:159-160.
[84] MdS, AA VI:263-264, trad, it. La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, Laterza, Roma/Bari, 2009, pp. 76-77.
[85] H. Hohenegger, 2014, La terminologia della spazialità in Kant, in: Locus–Spatium, XVI Colloquio internazionale del Lessico intellettuale europeo, L. Olschki Editore, Firenze, p. 574.
[86] Messina Vorlesung, p. 17.
[87] D. Cosgrove, 2001, Apollo’s Eye. A Cartographic Genealogy of the Earth in Western Imagination, The John Hopkins University Press, Baltimore/London, p. 196.
[88] ÜGTP, AA VIII:162, trad. it. Sull’impiego dei principi teleologici in filosofia, in: (G. De Flavis a cura di) Scritti sul criticismo, Laterza, Roma/Bari, 1991, p. 35.
[89] Refl. 903, AA XV:394-395.
[90] G. Deleuze, 1975, Logica del senso, Feltrinelli Editore, Milano, p. 116. Un’interessante analisi del legame tra il concetto kantiano di orientamento e la filosofia dell’immanenza di Deleuze si trova in M. Rölli, 2011, Bilder, Oberflächen und Tiefen. Überlegungen zum Raum mit Kant und Deleuze, in: (S. Alpsancar e P. Gehring e M. Röll hrsg.) Raumprobleme, Wilhelm Fink, Bonn, pp. 105-122
[91] D. Harvey, 1995, Geographical Knowledge in the Eye of Power: Reflections on Derek Gregory‘s Geographical Imaginations, in: Annals of the Association of American Geographers, Vol. 85, No. 1, p. 161.